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Cassazione Civile, Sez. Lav., 03 giugno 2016, n. 11510

Quantificazione della percentuale di invalidità permanente parziale.


Presidente: DI CERBO VINCENZO
Relatore: CAVALLARO LUIGI
Data pubblicazione: 03/06/2016

Fatto

Con sentenza depositata il 29.10.2010, la Corte d’appello di Lecce, in parziale riforma delle statuizioni di primo grado, condannava l’INAIL a pagare a S.P. la rendita vitalizia in misura corrispondente al 15% di i.p.p., confermando nel resto l’impugnata sentenza.
La Corte, in particolare, riduceva la percentuale di i.p.p. dal 23% riconosciuto in primo grado al 15% stimato dalla consulenza disposta nel corso del gravarne, mentre confermava la statuizione in punto di decorrenza della rendita, sebbene l’INAIL avesse contestato anche quest’ultima sul presupposto che oggetto del giudizio era la domanda dì aggravamento presentata dall’assicurato in data 18.11.2004.
Per la cassazione di questa pronuncia ricorre l’INAIL con ricorso affidato a due motivi. L’assistito non ha svolto in questa sede attività difensiva.

Diritto

Con il primo motivo, l’Istituto ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’alt. 91 c.p.c. per avere la Corte di merito posto a suo carico le spese del giudizio di primo grado nonostante avesse accolto l’appello nella parte in cui deduceva il vizio della sentenza impugnata relativamente all’erronea quantificazione della percentuale di invalidità permanente parziale riscontrata in capo all’assicurato.
Con il secondo motivo, l’Istituto ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’alt. 137, T.U. n. 1124/1965, per avere la Corte territoriale confermato la decorrenza della prestazione a far data dall’1.7.1997, nonostante che il thema decidendum fosse costituito dall’aggravamento domandato dall’assicurato con decorrenza dal 18.11.2004.
Tale ultimo motivo è logicamente preliminare rispetto al primo ed è inammissibile. La Corte territoriale, infatti, ha completamente omesso di statuire sulla doglianza contenuta nell’atto di appello dell’Istituto e volta a contestare per vizio di ultrapetizione le statuizioni di primo grado nella parte in cui avevano riconosciuto la decorrenza della prestazione senza riguardo alla data di instaurazione del procedimento di revisione. Ed essendo costante insegnamento di questa Corte di legittimità il principio secondo cui l’omessa pronuncia su una domanda o un’eccezione della parte integra un difetto di attività del giudice di secondo grado che dev’essere fatta con la specifica deduzione dell’error in procedendo di violazione dell’art. 112 c.p.c,, dal momento che le censure di violazione di legge o di vizio di motivazione presuppongono che il giudice del merito abbia esaminato la doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto o senza motivare l’accertamento in fatto compiuto (cfr. Cass. nn. 11844 e 24856 del 2006, 1196 e 12952 del 2007), il motivo di ricorso va ritenuto inammissibile: sebbene infatti nella deduzione dei motivi di ricorso non sia necessaria l’adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle ipotesi di cui all’art. 360 nn. 1-5 c.p.c., resta vero che, qualora il ricorrente intenda dolersi dell’omessa pronuncia in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, occorre pur sempre che il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi invece dichiarare inammissibile il gravame allorché si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (Cass. S.U. n. 17931 del 2013).
Il primo motivo di ricorso è invece infondato, perché la sentenza impugnata, ancorché senza pronunciarsi in alcun modo sulla doglianza dell’Istituto concernente il vizio di ultrapetizione imputato alla sentenza di primo grado, ha confermato quest’ultima proprio nella parte concernente la decorrenza della prestazione riconosciuta. E poiché l’art. 91 c.p.c. ricollega l’onere delle spese alla soccombenza e impedisce solamente che esse possano addebitarsi alla parte totalmente vittoriosa, anche sotto tale profilo la sentenza impugnata resiste alle censure mossele, non potendo ovviamente riconoscersi all’Istituto la qualità di parte totalmente vittoriosa in relazione all’esito del giudizio di merito.
Il ricorso, conclusivamente, va rigettato. Nulla va pronunciato sulle spese, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 9.3.2016.

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