Repertorio Salute

Cassazione Civile, Sez. Lav., 03 marzo 2016, n. 4211

Demansionamento della giornalista ed esposizione al fumo passivo.


Fatto

Con sentenza n. 4645 del 25 maggio – 18 luglio 2011 la Corte di Appello di ROMA, in parziale accoglimento dell’appello principale, proposto dalla (omissis) S.p.a., e dell’appello incidentale, proposto da (omissis) escludeva la violazione dell’art. 2103 cod. civ., riconosciuta dal giudice di primo grado – con riforma delle relative statuizioni, anche in ordine alle conseguenti pronunce sul risarcimento del danno – e confermava il riconoscimento della responsabilità del datore di lavoro per l’esposizione della lavoratrice al c.d. fumo passivo, con conseguente condanna della società convenuta al risarcimento dei danno biologico e morale, liquidato all’attualità nella misura di € 31.519,41, oltre interessi legali (la sentenza di primo grado in data 23-03-2004 aveva condannato parte convenuta ad adibire l’attrice alle mansioni proprie del capo servizio e comunque a quelle corrispondenti al profilo professionale ricoperto sino al febbraio 19999, nonché al conseguente risarcimento del danno patrimoniale professionale e morale – quale lesione dell’identità personale- in misura in ragione di 85.200,00 euro, e di quello biologico, derivato da esposizione al c.d. fumo passivo, liquidato in complessivi 15.610,66€).
La Corte d’appello romana riteneva che:
non potesse attribuirsi alcuna particolare valenza alla figura del conduttore di telegiornale (ricoperta dalla (omissis) sino al febbraio 1999) in base alla contrattazione collettiva, in quanto l’art. 14 del contratto collettivo integrativo riconosceva una specifica indennità ai giornalisti, con particolare professionalità legata all’utilizzo delle tecnologie ovvero a tutti i conduttori e non solo ai conduttori di TG; l’accordo sindacale del 27 maggio 1996 individuava una serie di incarichi – fra cui il conduttore delle edizioni principali dei notiziari radiofonici e televisivi nazionali – da reputarsi equivalenti all’incarico di vice direttore di “line” al solo fine di regolare la situazione dei vicedirettori che venivano posti fuori “line”, perdendo la relativa indennità; si trattava, dunque, non già di una generale equiparazione di una serie di incarichi diversi al ruolo di vicedirettore, bensì di un accordo finalizzato a prevenire possibili contenziosi per le specifiche situazioni ivi contemplate; con riferimento alla posizione della (omissis) , la stessa, dal marzo 1999, era tornata ad esplicare le funzioni di capo servizio, curando fino al maggio 1999 la rubrica ” (omissis) ” e poi la rubrica ” (omissis) “, svolgendo tali mansioni con pienezza di poteri e senza limitarsi a meri compiti esecutivi, come emergeva dalla valutazione complessiva delle prove raccolte (infatti, se talune deposizioni fornivano elementi a favore della lavoratrice, altre risultanze erano di segno opposto e smentivano la prospettazione, secondo cui la (Omissis) sarebbe stata una mera esecutrice delle scelte operate da altri);
nessuno dei testi escussi aveva negato che la lavoratrice espletasse il compito precipuo della figura del capo servizio, vale a dire l’assunzione di responsabilità dei servizi redazionali con poteri di direzione e coordinamento dei redattori/collaboratori fissi, mentre le scelte contenutistiche delle rubriche o dei servizi erano rimesse al capo redattore, ai sensi dell’art. 11;
il quadro complessivo probatorio non era tale da evidenziare che alla (Omissis) fossero state sottratte dal febbraio 1999 le capacità e potestà di apportare il proprio contributo nella individuazione dei contenuti delle rubriche e dei servizi della redazione culturale, il giudizio di equivalenza delle mansioni non doveva essere analitico, con la valutazione dei compiti persi con le nuove mansioni, ma complessivo, tale da soppesare i diversi ruoli lavorativi nella loro globale considerazione, dovendosi ritenere il ruolo di capo servizio nella redazione cultura e la conduzione di rubriche culturali o di realizzazione di servizi culturali equivalenti a quello di conduttore di TG;
inoltre, quanto ai periodi in cui alla giornalista non era stata affidata alcuna conduzione in video (due mesi per il 1999 ed il tempo successivo al giugno 2000), tenuto altresì conto che non risultava provata l’assenza di qualsiasi apporto personale sui contenuti dei servizi, doveva affermarsi l’equivalenza delle mansioni rispetto a quelle espletate sino a febbraio 1999, essendo venuta meno soltanto la conduzione in video, compensata tuttavia nell’impegno a tempo pieno come capo servizio nella redazione cultura;
andava, pertanto, respinta la domanda di riconoscimento della dequalificazione, con conseguente assorbimento dei motivi di gravame sulla quantificazione del danno, doveva invece affermarsi la responsabilità di parte datoriale ex art. 2087 cod. civ. per non aver posto in essere misure idonee a prevenire la nocività dell’ambiente lavorativo derivante dal fumo, come risultante dall’istruttoria svolta e dal supplemento di perizia, disposto in secondo grado, che aveva confermato la riconducibilità eziologica della patologia riscontrata a carico della lavoratrice alle condizioni di lavoro, ravvisando un danno biologico pari ai 15%, con conseguente risarcimento liquidato in favore della (omissis) .
Avverso la suddetta pronuncia della Corte distrettuale la (omissis) proponeva ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
Ha resistito, con controricorso, la (Omissis) SPA che a sua volta ha proposto ricorso incidentale con tre motivi. In relazione a quest’ultimo la (Omissis) ha spiegato difese come da controricorso notificato il 27 settembre 2012.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

Il ricorso principale è articolato in tre motivi, nei seguenti termini:
1. – con il primo si denuncia, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., violazione e/o falsa applicazione di norme di legge e di contratto collettivo: art. 2103 cod. civ., art. 1362 cod. civ., art. 11 CNLG, art. 1 Accordo RAI – Usigrai del 27 maggio 1996, art. 14 del Contratto Integrativo RAI – Usigrai, art. 116 cod. proc. civ., art. 254 cod. proc. civ., art. 2697 cod. civ., per avere la Corte di appello escluso il demansionamento, già riconosciuto in primo grado, senza considerare adeguatamente le mansioni di conduttore di telegiornale svolte fino al febbraio 1999, interpretando erroneamente l’accordo collettivo del 27 maggio 1996 e comunque il contenuto delle mansioni di capo servizio, avendo valorizzato solo alcune risultanze istruttorie, rispetto ad altre, che confermavano l’espletamento di soli compiti esecutivi, ed invertendo l’onere della prova, posto che incombeva sulla RAI la prova di aver assegnato alla Omissis mansioni adeguate;

2. – con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2103, 2087, 2727, 1176 e 1218 cod. civ. in ordine al risarcimento del danno professionale, già riconosciuto in primo grado, la cui statuizione andava invece confermata, tenuto conto dei principi di diritto in materia affermati dalla citata giurisprudenza di legittimità, sicché il danno professionale lamentato doveva ritenersi provato, rilevando in particolare elementi presuntivi quali la durata del demansionamento a decorrere da marzo 1999, la particolare gravità della dequalificazione atteso l’elevato livello delle menzioni in precedenza svolte etc.
3. – con il terzo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli art. 2103 e 2087 c.c., 2687 stesso codice e 61 c.p.c., nonché difetto di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, relativamente al risarcimento del danno alla salute causato dalla dequalificazione, disatteso dalla decisione di primo grado, confermata sul punto in sede di gravame, a fronte delle apposite allegazioni svolte e nonostante i certificati medici prodotti.
A sua volta, il ricorso incidentale è stato anch’esso articolato in tre motivi.
1. – con il primo, la società assume, in relazione all’art. 360, co. I, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione dell’alt. 2087 cod. civ., anche in relazione all’art. 1223 cod. civ., per aver riconosciuto la responsabilità per “fumo passivo in difetto di puntuali e precisi elementi a carico del datore di lavoro, che si era adoperato emanando specifiche circolari e direttive;
2. – con il secondo motivo la Omissis denuncia, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 5, cod. pro|. civ., la carenza di motivazione in ordine all’accertamento circa la concreta idoneità patogenetica dell’esposizione ai fumo passivo, anche in relazione alla ipotetica concentrazione della medesima;
3. – con il terzo motivo la controricorrente si duole, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., della carenza dì motivazione in ordine alla ritenuta efficacia concausale dell’esposizione al fumo passivo, cui ha tuttavia corrisposto l’adozione di una condanna risarcitoria commisurata all’intera percentuale di invalidità riconosciuta, mentre con l’atto di appello era stato dedotto che trattandosi ad ogni modo di incidenza concausate, il danno risarcibile andava congruamente ridotto, se non addirittura escluso, nell’assoluta incertezza circa l’effettiva prevalenza della rilevanza del fumo passivo sugli altri elementi concausali. Per contro, la Corte d’Appello non aveva affatto risposto a tale rilevo, pur ribadendo in motivazione la natura meramente concausale dell’esposizione al fumo passivo, ciò che determinava un ulteriore vizio motivazionale della sentenza impugnata, riguardante all’evidenza un fatto decisivo, quale la determinazione della concreta misura della prestazione risarcitoria a carico della Omissis.
Le due impugnazioni avverso la medesima sentenza vanno, preliminarmente riunite, ex art. 335 c.p.c..
Il ricorso principale è fondato, quanto al primo motivo, peraltro ritualmente enunciato alla stregua della sua ampia, complessiva e pertinente formulazione, restando assorbiti gli altri due (le cui problematiche discendono e quindi dipendono, evidentemente, dalla preliminare decisione sull’an connessa al primo), mentre va disatteso il ricorso incidentale della Omissis.
Va solo appena osservato che, contrariamente, in particolare, all’eccezione in rito, opposta dalla società controricorrente, in materia di ricorso per cassazione, il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sé, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (Cass. sez. un. civ. n. 9100 del 06/05/2015; v. altresì Cass. II civ. n. 9793 del 23/04/2013, secondo cui è ammissibile il ricorso per cassazione il quale cumuli in un unico motivo le censure di cui all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ., allorché esso comunque evidenzi specificamente la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto).
Orbene, in punto di fatto deve evidenziarsi come risulti accertato che la ricorrente, giornalista professionista ed inquadrata come “redattore” alle dipendenze della Omissis con contratto a tempo indeterminato sin dal febbraio 1987, aveva condotto dal 13 aprile 1987 (a turno con altri colleghi) per oltre dieci anni, sino al marzo 1999, due edizioni del (omissis) nazionale, messe in onda alle ore 22.30 (dal 1994) e 00.30, partecipando, altresì, attivamente al lavoro di redazione, per cui le era stata anche riconosciuta in via definitiva dall’agosto 1987 l’indennità di specializzazione, nella misura massima, prevista dall’alt. 14 dell’accordo integrativo aziendale; dall’aprile 1988 aveva condotto l’edizione del Telegiornale 3, in onda alle 24 circa, alternandosi con due colleghi, per cui con la stessa decorrenza le era stata anche corrisposta, ai sensi dell’art. 17 del c.c.n.l. e dell’art. 9 dell’accordo RAI/USIGRAI del 25 giugno 1985, la maggiorazione per lavoro notturno in misura fissa mensile.
In data 5 manzo 1999 il direttore del Omissis aveva comunicato alla (Omissis) che dal successivo giorno otto non aveva più svolto mansioni di conduttore, sicché ella era rimasta priva di ogni incarico sino al maggio 1999, previa formale contestazione dell’esonero dal suddetto incarico come da missiva del 14 aprile 1999, cui aveva dato riscontro parte datoriale con nota del 26 aprile 1999, laddove, esclusa qualsivoglia asserita emarginazione dell’interessata, il direttore del aveva comunicato che alla giornalista era stata proposta la conduzione di una nuova edizione della rubrica (omissis) restando comunque ella a tutti gli effetti capo Servizio della redazione cultura del Omissis nazionale; che effettivamente la lavoratrice nel periodo da maggio a novembre 1999 aveva presentato la rubrica quotidiana notturna, trasmessa in differita tra le ore 01.00 e 01.30, con mansioni limitate all’introduzione di servizi realizzati da altri giornalisti.
Per giunta, con il ricorso introduttivo del giudizio l’attrice aveva altresì allegato che, contrariamente a quanto assicurato dalla (omissis) con la lettera del 26-04-1999, non era stata incaricata di svolgere le mansioni di capo servizio del settore cultura, poiché le stesse venivano disimpegnate dal capo redattore e dal vice capo redattore, mentre ella si limitava al coordinamento dell’attività dei collaboratori soltanto nei casi di assenza contemporanea dei predetti, ossia in media tre o quattro giorni al mese.
Il direttore del telegiornale, poi, da dicembre 1999 aveva affidato alla ricorrente l’incarico, svolto, di condurre a turno per una settimana circa al mese il programma  (omissis), rubrica culturale del ( omissis ) della durata di 15 minuti, edizione poi cessata dal giugno dell’anno 2000, senza conferimento alla predetta di altri incarichi di conduzione, anche se con decorrenza primo dicembre 1989 promossa in categoria “capo servizio” (come precisato dalla società a pagina 8, punto 4) del controricorso – ricorso
incidentale).
Il c.c.n.l. per i giornalisti professionisti (16 novembre 1995, decorrenza: 1° ottobre 1995 – Scadenza: 30 settembre 1999), di cui non è contestata l’applicabilità nel caso di
specie, all’art. 11 (QUALIFICHE e MINIMI di STIPENDIO, lettera d) così recita <<…è considerato caposervizio il redattore al quale, salvo quanto disposto dall’art. 22 (Relativo a MUTAMENTO DI MANSIONI E TRASFERIMENTO), sia stata attribuita la responsabilità di un determinato servizio redazionale a carattere continuativo ed abbia alle proprie dipendenze due o più redattori e/o collaboratori fissi di cui all’art. 2, con il compito di coordinarne e rivederne il lavoro fornendo le opportune direttive; oppure il redattore al quale, indipendentemente dalle condizioni di cui sopra, sia stata riconosciuta per iscritto la qualifica di capo servizio.
Fatto salvo quanto previsto dal comma precedente è considerato capo servizio anche il giornalista professionista al quale, salvo quanto disposto dall’art. 22, sia stata attribuita la responsabilità a carattere continuativo di una redazione decentrata ed abbia alle proprie dipendenze due o più redattori e/o collaboratori fissi e/o pubblicisti a tempo parziale di cui all’art. 36>>.
Circa il primo motivo del ricorso principale, quanto all’onere probatorio dell’esatto adempimento, a carico del datore di lavoro, ove il lavoratore deduca un demansionamento, questa Corte con la sentenza n. 4766 del 6/3/2006 affermava il condivisibile principio in tema di dequalificazione o demansionamento, riconducibili agli obblighi di parte datoriale ai sensi dell’art. 2103 c.c., per cui è quest’uttima a dover dimostrare l’esatto adempimento, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale risultante dall’art. 1218 cod. civ., da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (cfr. anche Cass. lav. n. 15527 – 8/7/2014, secondo cui in materia di demansionamento o di dequalificazione, il lavoratore è tenuto a prospettare le circostanze di fatto, volte a dare fondamento alla denuncia, ed ha, quindi, il solo onere di allegare gii elementi di fatto significativi dell’illegittimo esercizio del potere datoriale, ma non anche quelli idonei a dimostrare in modo autosuffìciente la fondatezza delle pretese azionate, mentre il datore di lavoro è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti posti dal lavoratore a fondamento della domanda e può allegarne altri, indicativi, del legittimo esercizio del potere direttivo, fermo restando che spetta al giudice valutare se le mansioni assegnate siano dequalificanti, potendo egli presumere, nell’esercizio dei poteri, anche officiosi, a lui attribuiti, la fondatezza del diritto fatto valere anche da fatti non specificamente contestati dall’interessato, nonché da elementi altrimenti acquisiti o acquisibili al processo). ,
Sui limiti dello jus variandi, inoltre, questa Corte con la sentenza n. 1916 del 3/2/2015 ha avuto modo di affermare che il giudice di merito deve accertare, in concreto, se le nuove mansioni siano aderenti alla competenza professionale specifica acquisita dal dipendente e ne garantiscano, al contempo, lo svolgimento e l’accrescimento del bagaglio di conoscenze ed esperienze, senza che assuma rilievo l’equivalenza formale fra le vecchie e le nuove mansioni. In senso conforme (v. altresì Cass. lav. n. 15010 del 14/06/2013, secondo cui ai fini della verifica del legittimo esercizio dello “ius variandi” da parte del datore di lavoro, deve essere valutata, dal giudice di merito – con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato – la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente, senza che assuma rilievo che, sul piano formale, entrambe le tipologie di mansioni rientrino nella medesima area operativa. In senso conforme Cass. sez. un. 25033 del 24/11/2006, secondo la quale, inoltre, la nullità di patti contrari al divieto di declassamento di mansioni, previsto dal capoverso dell’alt. 2103 cod. civ., si applica anche alla contrattazione collettiva, come si desume, in positivo, dal dettato normativo dell’art. 40 della legge n. 300 del 1970, che fa salve le condizioni dei contratti collettivi e degli accordi sindacali solo se più favorevoli ai lavoratori, nonché, “a contrario”, da altre disposizioni con cui, eccezionalmente, il legislatore ha autorizzato la contrattazione collettiva ad introdurre una disciplina in deroga al disposto del primo comma dell’art. 2103 cod. civ., quale l’art. 4, comma 11, della legge n. 223 del 1991, secondo cui “gli accordi sindacali stipulati nel corso delle procedure di cui al presente articolo, che prevedano il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, possono stabilire, anche in deroga al secondo comma dell’art. 2103 cod. civ. la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle svolte.
Quindi, le Sezioni unite con la citata sentenza n. 25033/2006 hanno ritenuto, altresì, che la garanzia prevista dall’art. 2103 cod. civ. opera anche tra mansioni appartenenti alla medesima qualifica prevista dalla contrattazione collettiva, precludendo l’indiscriminata fungibilità di mansioni per il solo fatto dell’accorpamento convenzionale; conseguentemente, il lavoratore addetto a determinate mansioni – che il datore di lavoro è tenuto a comunicargli ex art. 96 disp. att. c.c. nell’esercizio del suo potere conformativo delle iniziali mansioni alla qualifica -, non può essere assegnato a mansioni nuove e diverse che compromettano la professionalità raggiunta, ancorché rientranti nella medesima qualifica contrattuale.
Cfr. pure Cass. lav. n. 25897 del 10/12/2009, secondo cui il principio di tutela della  professionalità acquisita, che resta impregiudicato pur in presenza di un accorpamento convenzionale delle mansioni, precludendo la disciplina legale di carattere inderogabile dell’art. 2103, primo comma, cod. civ. la previsione di una indiscriminata fungibilità delle mansioni per il solo fatto di tale accorpamento, impone al giudice di merito di accertare, alla stregua di tutte le circostanze ritualmente allegate e acquisite al processo, le esigenze di salvaguardia della professionalità raggiunta prospettate dal lavoratore, sulla base dei percorsi di accrescimento professionale dallo stesso evidenziati e, segnatamente, di individuare, alla luce della sua “storia professionale”, quali fossero le mansioni di riferimento per verificare l’osservanza dell’art. 2103, indipendentemente altresì dall’obbligo assunto dal dipendente, al momento dell’avviamento al lavoro, di svolgere tutte le mansioni inerenti alla qualifica di inquadramento.
V. ancora Cass. lav. n. 4989 del 04/03/2014, secondo cui il divieto di variazione peggiorativa, di cui all’art. 2103 cod. civ., comporta che al prestatore di lavoro non possano essere affidate, anche se soltanto secondo un criterio di equivalenza formale, mansioni sostanzialmente inferiori a quelle in precedenza disimpegnate, dovendo il giudice di merito accertare, in concreto, se le nuove mansioni siano aderenti alla competenza professionale specifica del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito, e garantiscano, al contempo, lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali. Né l’osservanza dei criteri di cui all’alt. 2103 cod. civ. può essere disattesa in sede di contrattazione collettiva, neppure nell’ipotesi del cosiddetto “riclassamento”, che, pur implicando un riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza delle mansioni, non può in ogni caso condurre allo svilimento della professionalità acquisita dal singolo lavoratore, mediante una equivalenza verso mansioni, che, anche se rivalutate, abbiano in concreto l’effetto di mortificarla. Sul punto v. ancora da ultimo Cass. lav. n. 19037 del 25/09/2015, secondo cui in caso di nuovo assetto organizzativo disposto dal datore di lavoro, che comprenda la riclassificazione del personale concordata con le organizzazioni sindacali, non sussiste violazione del divieto dì dequalificazione qualora le mansioni del lavoratore, a seguito del riclassamento, non mutino rispetto al precedente inquadramento, poiché si realizza una violazione dell’art. 2013 c.c. se il dipendente venga adibito a differenti mansioni, compatibili con la nuova classificazione, ma incompatibili con la sua storia professionale).
Pertanto, alla stregua dei menzionati e condivisi precedenti giurisprudenziali, tenuto altresì conto delle risultanze processuali in atti, il primo motivo del ricorso principale è meritevole di accoglimento, atteso che le argomentazioni della pronuncia qui impugnata non appaiono conformi ai succitati principio di diritto; ciò soprattutto riguardo alla complessiva non esauriente valutazione, da parte della Corte territoriale, del ruolo del caposervizio – qualificato come soggetto chiamato ad apportare un contributo nell’individuazione dei contenuti e delle rubriche piuttosto che di responsabile del servizio -, alla mancata espressa confutazione del valore probatorio offerto dalle deposizioni dei testi (omissis) e (omissis) (che hanno pur reso dichiarazioni almeno in parte favorevoli alle prospettazioni addotte dalla lavoratrice), alla ritenuta formale equivalenza delle mansioni di caposervizio nella redazione Cultura (programma trasmesso in orario notturno, per di più con apporto professionale, da parte della ricorrente, di pressoché minima entità), rispetto a quelle di conduttrice, disimpegnate stabilmente (sebbene con turnazioni settimanali) per anni, di telegiornali (pure in seconda serata, oltre che nottetempo), senza però adeguata considerazione della specifica pluriennale professionalità maturata dalla (omissis) in tale attività (anche in seno alla redazione propedeutica alle edizioni da ella condotte in diretta), di più vasta portata e di indubbio più ampio respiro (cfr., del resto, ancora Cass. lav. n. 3474 del 19/11/2014 – 20/02/2015, che rigettava il ricorso della (omisi), affermando che l’assegnazione di un giornalista, già occupato in cronaca nera, giudiziaria e politica, a compiti di scarsa rilevanza, estranei alla cronaca politica, integra una lesione della personalità, con conseguente risarcimento del danno all’immagine – ove specificamente provato – poiché si crea una cesura dello sviluppo delle competenze professionali acquisite sino a quel momento della carriera).
D’altro canto, le pur argomentate valutazioni svolte dalla Corte di merito si collocano nella prospettiva, però errata, di un onere probatorio a carico della lavoratrice . (attribuzioni proprie del caposervizio, la cui funzione non risulta negata da nessuno dei testimoni escussi….
In ogni caso il quadro probatorio, complessivamente considerato, non è tale da ritenere acquisito che la (omissis) abbia visto sottratte dai febbraio ’99 la capacità e potestà di apportare il proprio contributo nella individuazione dei contenuti delle rubriche e dei servizi della redazione cultura…
… Anche per questo secondo periodo -tenendo conto che non risulta provata l’assenza di qualsiasi apporto personale sui contenuti dei servizi – deve affermarsi l’equivalenza delle mansioni rispetto a quelle espletate sino al febbraio ’99…), piuttosto che a carico della parte datoriale, quindi non in linea con il diverso e costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, sopra ricordato.
Pertanto, in accoglimento del primo motivo del ricorso principale, assorbiti i due successivi, la gravata pronuncia di merito va per l’effetto cassata, con conseguente rinvio della causa, per l’ulteriore necessario corso di legge, alla stessa Corte distrettuale in diversa compensazione.
Per contro, va senz’altro disatteso il ricorso incidentale le cui doglianze appaiono inammissibili e/o comunque infondate, alla stregua di quanto ampiamente e correttamente valutato nonché deciso con la pronuncia de qua.
Ed invero, non sussiste alcuna violazione o falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. anche in relazione all’art. 1223 c.c., laddove sul punto la società, a fronte delle specifiche argomentazioni circa la riconosciuta responsabilità (evidentemente di natura contrattuale, a carico di parte datoriale a titolo di risarcimento danni per esposizione a fumo passivo in ambito aziendale), si è limitata a richiamare, peraltro senza alcuno specifico riferimento, non meglio indicate circolari e disposizioni organizzative, e senza che neppure sia stata allegata l’effettiva inflizione di qualche sanzione disciplinare in merito, invece soltanto ipotizzata. Ne deriva che la Omissis sicuramente non ha fornito la prova che le incombeva a norma dell’art. 1218 c.c. (responsabilità del debitore: – Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile).
Parimenti vanno disattesi il secondo ed il terzo motivo del ricorso incidentale, poiché inammissibilmente si pretende con tali censure di asserita carente motivazione di rimettere in discussione quanto in punto di fatto accertato congruamente dal giudice di merito mediante l’espletamento di idonea e pertinente c.t.u. medico-legale già in prime cure, per di più confermata in secondo grado a seguito di supplemento peritale disposto a seguito dei rilievi mossi da entrambe le parti, i cui risultati sono stati, invece, recepiti in modo convinto ed ampiamente argomentato dalla Corte distrettuale … alla luce delle suesposte valutazioni tecniche -peraltro ribadite all’esito dei rilievi critici del CT di parte Omissis – e che il collegio non ha ragione di disattendere, la ricorrente ha diritto al risarcimento del danno biologico e del danno morale ragguagliato alla percentuale del 15%.
Pertanto il ricorso incidentale va respinto, in quanto tende in effetti ad una nuova valutazione di merito, rispetto a quella compiuta dalla Corte capitolina in forza di motivazione esente da vizi. Infatti, l’assunta emanazione di circolari e direttive (praticamente inattuate… il cd approccio persuasivo e non repressivo…, cfr. pag. 8 della sentenza n. 4645/11) non costituisce evidentemente misura idonea a contrastare i rischi da esposizione al fumo passivo, nè di conseguenza idonea prova liberatoria ai sensi del citato art. 1218 c.c.; mentre, quanto alle ulteriori censure, la Corte si è basata sulle valutazioni espresse, conformemente, dai consulenti tecnici di ufficio di primo e di secondo grado (quest’ultimo pure a seguito dei rilievi del c.t.p. appellante), anche in ordine all’efficacia causale della manchevole condotta posta in essere dalla datrice di lavoro.
Da ultimo, va precisato che la rimessione (parziale) della causa al giudice di merito comporta per quest’ultimo il dover provvedere anche al regolamento delle spese di questo giudizio di legittimità, ivi compresa la parte definita con il rigetto del ricorso incidentale, tenuto conto del risultato finale e complessivo della lite all’esito del giudizio di rinvio.

P.Q.M.

la CORTE, riuniti i ricorsi, RIGETTA IL RICORSO INCIDENTALE E ACCOGLIE IL PRIMO MOTIVO DEL RICORSO PRINCIPALE, assorbiti gli altri, cassa e rinvia, per l’effetto, alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese.
Così deciso in Roma il 26 novembre 2015
Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2016

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