Repertorio Salute

Cassazione Civile, Sez. Lav., 05 maggio 2016, n. 9062

Licenziamento di un quadro capofabbrica e sindacalista per la denuncia di omessa sicurezza degli impianti. Licenziamento antisindacale.


Presidente: AMOROSO GIOVANNI
Relatore: D’ANTONIO ENRICA
Data pubblicazione: 05/05/2016

Fatto

La Corte d’appello di Cagliari ha confermato la sentenza del Tribunale di accoglimento del ricorso ex art 28 Stat. Lav. della Filcea CGIL Territoriale del Sulcis Iglesiante con cui il primo giudice aveva dichiarato antisindacale il licenziamento del dipendente della soc E. spa, O.M., quadro come capofabbrica e sindacalista, per avere questi dichiarato nel corso di un’assemblea convocata dalle rappresentanze sindacali unitarie il 12/10/2001, che l’azienda trascurava il problema della sicurezza sul lavoro tanto che solo nel maggio di quell’anno, in occasione di una fermata degli impianti per manutenzione, egli si era accorto, dallo stato delle tubature, che l’impianto stesso fino a quel momento aveva funzionato in condizioni di pericolo e che ciò era stato segnalato alla direzione aziendale fin dal 22 gennaio precedente quando il servizio tecnico di processo di direzione aziendale aveva redatto una relazione su un guasto verificatosi il 7 gennaio. Secondo il sindacato il licenziamento era ingiustificato, ritorsivo ed intimidatorio e chiedeva pertanto la reintegra del O.M. ed ogni altro provvedimento idoneo.
La Corte ha precisato con riferimento all’accezione dell’azienda secondo cui il O.M. era a conoscenza dell’incidente del 7 gennaio e del rapporto tecnico redatto sullo stesso, che,pur essendo il lavoratore certamente a conoscenza che il 7 gennaio si era verificata un’anomalia di funzionamento dell’impianto (ciò sia perché le prime avvisaglie si erano manifestate nella notte quando il O.M. era di turno sia perché vi era stata un’annotazione sul registro da parte del capofabbrica subentratogli ) era impossibile stabilire se egli fosse informato dell’effettiva portata tecnica dell’incidente stante le discordanti dichiarazioni dei testi e la mancanza di prova documentale dell’invio del rapporto tecnico ai capi fabbrica o al loro ufficio. La Corte ha poi sottolineato che l’azienda non aveva neppure comunicato il rapporto tecnico dell’incidente alla rappresentanza dei lavoratori per la sicurezza di cui anche il O.M. faceva parte, né tale rappresentanza era stata convocata alla riunione tenutasi dopo l’incidente del 7 gennaio.
La Corte ha quindi rilevato che, comunque, solo nel maggio del 2001 in occasione dello smontaggio delle tubature per manutenzione straordinaria il O.M. si era reso conto del grave stato delle incrostazioni interne e che pertanto secondo la Corte non destava stupore che nel corso dell’assemblea dell’ottobre egli avesse manifestato lo sgomento provato nel vedere lo stato delle tubature ed avesse considerato che solo per fortuna non si erano verificati incidenti gravi; che il O.M. aveva espresso, nella riunione, una sua opinione sulla sicurezza degli impianti dettata dagli elementi a sua disposizione in quel momento senza peraltro trascendere in affermazioni offensive.
La Corte ha poi esposto che il licenziamento era stato comminato, oltre che per il comportamento asseritamente diffamatorio del lavoratore, anche per due ulteriori fatti e che cioè il O.M. in violazione dei suoi compiti di capofabbrica non aveva provveduto a relazionare subito su quanto riteneva stesse accadendo circa la situazione della sicurezza e le iniziative che, secondo le sue convinzioni maturate sulla base del fatto del 7 gennaio e di indagini personali svolte, sarebbe stato necessario adottare, né aveva riferito le sue valutazioni tecniche ai superiori .
Secondo la Corte anche tali ulteriori motivazioni del licenziamento erano infondate atteso che il rapporto tecnico sull’Incidente del 7 gennaio era stato inviato a tutti gli organi principali dell’azienda e secondo la Corte il O.M. non avrebbe potuto aggiungere nulla che non fosse già a conoscenza dell’azienda. Ha osservato che invece tale rapporto non era stato inviato alla rappresentanza dei lavoratori per la sicurezza e secondo la Corte una migliore informazione nei confronti dei sindacati e delle rappresentanza dei lavoratori per la sicurezza, avrebbe, probabilmente evitato le dichiarazioni allarmiste lamentata dalla società.
Avverso la sentenza ricorre la soc E. spa con due motivi ulteriormente illustrati con memoria ex art 378 cpc. Resiste il sindacato.

Diritto

Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione di norme di diritto e di contratti collettivi in materia di estinzione del rapporto di lavoro, di obbligo di diligenza del lavoratore subordinato, di correttezza e buona fede ; in materia di sicurezza sul lavoro e dì repressione della condotta sindacale ed in particolare :
—art 2119 cc, art 3L n 604/1966, L n 108/1990, art 7 e 18 Stat Lav nella parte in cui la Corte ha ritenuto non sussumibile il comportamento del O.M. nelle disposizioni che disciplinano il licenziamento disciplinare. Lamenta che la Corte non ha affrontato in alcun modo la nozione di giusta causa onde consentire di valutare la correttezza del procedimento decisorio finale ;
– art 1175, 1375,2104 cc nella parte in cui ha ritenuto il comportamento del O.M. non posto in violazione di obblighi di diligenza, correttezza e buona fede anche in relazione al diritto di critica ;
—art 20, comma 1, dlgs n 81/2008 in base al quale ciascuno lavoratore deve prendersi cura della salute altrui …il lavoratore deve contribuire insieme al datore dì lavoro all’adempimento degli obblighi di sicurezza…;
– art 28 stat lav ;
a) Censura la sentenza che ha escluso la sussistenza del licenziamento disciplinare e dunque l’operazione di sussunzione senza aver affrontato la nozione di giusta causa o giustificato motivo.
b) Rileva che ciò che veniva attribuito dal O.M. all’azienda costituiva reato peraltro del tutto inesistente ;
c) non valuta la violazione dei principi di correttezza e buona fede anche in relazione al diritto di critica (da pag 43 a 48 analizza il diritto di critica ) ed afferma che il O.M. ne aveva violato i limiti.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione circa la conoscenza da parte del O.M. del fatto del 7 gennaio 2001 e del pericolo di esplosione . La Corte ha ritenuto tale fatto decisivo. Afferma che O.M., a conoscenza della pericolosità dell’impianto fin dal gennaio, nulla aveva fatto da gennaio a maggio in violazione dell’obbligo di diligenza; nulla aveva riferito delle anomalie riscontrate nei suo turno ed il capoturno entrante si trovò da solo a fronteggiare la situazione ; il O.M. aveva cercato di eliminare le sue responsabilità affermando di non essere stato al corrente del guasto tecnico, ma ciò era del tutto inverosimile.
Deduce che la Corte d’appello aveva affermato che il O.M. non poteva non sapere ma non aveva tratto le dovute conseguenze, né aveva valutato l’inadempimento del O.M. all’obbligo di attivarsi e che infine non aveva esaminato i veri motivi che avevano condotto il O.M. a formulare le gravi accuse.
I motivi, congiunta mente esaminati stante la loro connessione, sono infondati.
Osserva il collegio che, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea cognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr Cass n 7394/2010; n 14468/2015).
Con riferimento al licenziamento questa Corte ha, poi, affermato che la giusta causa costituisce una nozione che la legge configura con una disposizione ascrivibiie alla tipologie delle cosiddette clausole generali, elastiche, di limitato contenuto, che richiede di essere specificata in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni, relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito (Cass n 5095/2011 e n 6498/2012) .
La ricorrente, nella fattispecie, deduce il vizio di falsa applicazione per erronea negazione della ricorrenza della giusta causa, sul rilievo della necessità dì una corretta qualificazione dei fatti accertati a giustificazione del licenziamento intimato; afferma, cioè, che si tratta dì censurare l’operazione di sussunzione tesa ad inquadrare tali fatti nell’istituto giuridico della giusta causa.
Dopo aver fatto tale precisazione la ricorrente tuttavia formula censure alla ricostruzione dei fatti formulata dalla Corte che mirano ad una rivalutazione dei fatti stessi diversa da quella operata della Corte.
In particolare la ricorrente rileva che il O.M. era venuto a conoscenza del guasto tecnico di notevole rilievo e del pericolo di esplosione fin dal mese di gennaio e cioè fin dal momento del verificarsi dell’episodio del 7 gennaio 2001; che egli nel corso dell’assemblea aveva parlato con grande chiarezza e decisione di grave pericolo di esplosione e del verificarsi di una possibile catastrofe l’impianto avrebbe potuto esplodere ma egli nulla aveva comunicato alla società ; che la tesi che egli non sapeva ” inconcepibile ed insostenibile ” “è stata spazzata via dalla sentenza impugnata”; che il O.M. nel periodo gennaio/ maggio aveva consentito la conduzione dell’impianto contro ogni regola esponendo tutti a pericoli gravi ed inimmaginabili pur consapevole della gravità della situazione.
In sostanza la ricorrente critica la ricostruzione dei fatti effettuata dalla Corte d’appello ripetendo che il O.M. era a conoscenza della gravità del fatto del 7/1; che egli non poteva non sapere attesa la sua esperienza e qualifica e che nell’assemblea aveva parlato di pericolo di esplosione ma nulla aveva fatto neppure relazionando ai superiori –
Tutti tali fatti, sono stati oggetto di esame accurato da parte della Corte territoriale. Si tratta pertanto di doglianze che esulano dall’ambito del vizio di cui all’art 360 n 3 cpc poiché attengono alla ricostruzione dei fatti che per le sentenze pubblicate, come in quella in esame, dopo l’11 settembre del 2012 è applicabile, quanto all’anomalia motivazionale, l’art. 360 c.p.c., n. 5, nella formulazione introdotta con il D.L. n. 83 del 2012, conv. con L. n. 134 del 2012.
Anche prima della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, costituiva consolidato insegnamento che fosse sempre vietato invocare in sede dì legittimità un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché non ha la Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, essendo la valutazione degli elementi probatori attività istituzionalmente riservata al giudice di merito (tra le molte, v. Cass. 17 novembre 2005, n. 23286; Cass. 18 maggio 2006, n. 11670;Cass. 9 agosto 2007, n. 17477; Cass. 23 dicembre 2009, n. 27162;Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. sez. un., 21 dicembre 2009, n. 26825; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288;Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197).
Pertanto non può essere invocata una lettura delle risultanze probatorie difforme da quella operata dalla Corte territoriale, essendo la valutazione di tali risultanze – al pari della scelta di quelle, tra esse, ritenute più idonee a sorreggere la motivazione – un tipico apprezzamento di fatto, riservato in via esclusiva al giudice del merito: il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza peraltro essere tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva (per tutte: Cass. 20 aprile 2012, n. 6260).
Nel sistema, l’intervento di modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come recentemente interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, comporta un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, del controllo sulla motivazione di fatto. Con esso si è invero avuta (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053) la riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile. In questo contesto, il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto dì discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Tanto comporta (Cass. Sez. Un., 22 settembre 2014, n. 19881) che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto dì tutte le risultanze probatorie; mentre in ogni caso, la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso. Ne consegue che la ricostruzione del fatto operata dai giudici del merito è ormai sindacabile in sede di legittimità soltanto ove la motivazione al riguardo sia affetta da vizi giuridici, oppure se manchi del tutto, oppure se sia articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi, oppure obiettivamente incomprensibili; mentre non si configura un omesso esame di un fatto storico, principale o secondarlo, ove quest’ultimo sia stato comunque valutato dal giudice, sebbene la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie e quindi anche di quel particolare fatto storico, se la motivazione resta scevra dai gravissimi vizi appena detti. E a dir poco evidente che, nella fattispecie, una ricostruzione del fatto pienamente sussiste e che la decisione non è affetta dai vizi appena indicati come soli ormai rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nell’attuale formulazione.
Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere rigettato con condanna della ricorrente a pagare le spese del presente giudizio.
Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater, dpr n 115/2002.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare le spese del presente giudizio liquidate in Euro 5.000,00 per compensi professionali ed Euro 100,00 per esborsi oltre 15% per spese generali e accessori di legge .
Ai sensi dell’art 13, comma 1 quater del dpr n 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo dì contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13 .
Roma 11/2/2016

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