Cassazione Civile, Sez. Lav., 05 settembre 2016, n. 17584

Requisiti del preteso diritto della ricorrente alla rendita per il decesso del coniuge avvenuto durante il lavoro svolto all’interno dell’azienda agricola del figlio.


Presidente: D’ANTONIO ENRICA
Relatore: BERRINO UMBERTO
Data pubblicazione: 05/09/2016

Fatto

Con sentenza del 2/12/10 – 24/1/2011, la Corte d’appello di Roma – sezione lavoro, decidendo in sede di rinvio da cassazione, ha respinto la domanda proposta da M.R.R. nei confronti dell’Inail per la costituzione di rendita a seguito del decesso del marito M.F., dopo aver rilevato che la ricorrente non aveva allegato e provato che il defunto marito avesse lavorato per più di 104 giornate all’anno nell’azienda agricola intestata al figlio D.F. e che i redditi provenienti da tale attività fossero prevalenti rispetto a tutti gli altri comunque percepiti. Inoltre, la Corte territoriale ha affermato che era inammissibile, in quanto tardivamente prodotta, la documentazione volta a dimostrare che il M.F. avesse svolto in via prevalente attività nell’azienda agricola ove si era verificato l’infortunio rispetto a quella esercitata dal medesimo come titolare di macelleria in Priverno.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso M.R.R. con tre motivi. Resiste con controricorso l’INAIL.

Diritto

1. Col primo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 384 c.p.c. per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine al principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione, dolendosi del fatto che la Corte d’appello non aveva ritenuto di completare la prova coi testi indicati e sulle circostanze articolate, né aveva proceduto ad acquisire nuova ed ulteriore prova ex art. 421 c.p.c., nonostante fosse stato allegato solo quanto la Suprema Corte, in sede rescindente, aveva chiesto di provare nella sede del giudizio di rinvio.
2. Col secondo motivo la ricorrente si duole della violazione dell’art. 394 c.p.c., così come richiamato dalla Corte d’appello sotto il principio della remissione della causa ad altro giudice, assumendo che le parti conservavano la stessa posizione processuale che avevano nel procedimento in cui fu pronunciata la sentenza cassata.
Si vuol in pratica sostenere che la Corte di Cassazione, rimettendo le partì dinanzi ad altro giudice, anziché decidere definitivamente, aveva voluto consentire di accertare gli ulteriori fatti, sia ad impulso di parte che di ufficio ex art. 421 c.p.c., 1° e 2° comma. Nel caso di specie, quindi, il carattere chiuso del relativo procedimento di rinvio non andava inteso nello stato di istruzione nel quale fu pronunciata la sentenza cassata, ma, secondo lo stesso principio di rinvio della Cassazione, si rendeva necessaria un’ulteriore attività probatoria in ordine ai due principi di diritto della temporalità e della redditività dell’apporto del M.F. nell’azienda agricola. Era stata, quindi, proprio l’ordinanza di remissione della Cassazione a rendere necessaria l’ulteriore istruttoria con la produzione offerta da essa ricorrente ma non ammessa ingiustamente dalla Corte d’appello.
3. Col terzo motivo, proposto per vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., la ricorrente rileva che nel ricorso introduttivo e nella memoria di appello aveva dedotto che l’azienda agricola di carne bufalina, ovvero l’allevamento e la commercializzazione di carne mediante propria macelleria, era un’azienda unica ed a conduzione familiare ex art. 230 bis c.c. Inoltre, i testi escussi avevano confermato la dedizione del M.F. in modo continuato all’azienda agricola che costituiva l’unica fonte di reddito, giacché preminente e propedeutica alla vendita di carni. Tuttavia, la Corte d’appello aveva omesso dì svolgere qualsiasi motivazione in ordine alla raggiunta prova circa i due requisiti temporali e reddituale enunciati dalla Suprema Corte.
Osserva la Corte che i tre motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, sono infondati.
Anzitutto, per quel che concerne i limiti del giudizio di rinvio, questa Corte ha già precisato (Cass. sez. lav. n. 900 del 17/1/2014) che “la configurazione del giudizio di rinvio quale giudizio ad istruzione sostanzialmente chiusa, in cui è preclusa la formulazione di nuove conclusioni e quindi la proposizione di nuove domande o eccezioni e la richiesta di nuove prove, salvo che la necessità di nuove conclusioni sorga dalla stessa sentenza di cassazione, non osta all’esercizio, in sede di rinvio, dei poteri istruttori esercitagli d’ufficio dal giudice del lavoro anche in appello (art. 437 cod. proc. civ.), limitatamente ai fatti già allegati dalle parti, o comunque acquisiti al processo ritualmente, nella fase processuale antecedente ai giudizio di cassazione, in quanto i limiti all’ammissione delle prove concernono l’attività delle parti e non si estendono ai poteri del giudice, ed in particolare a quelli esercitabili di ufficio,
Si è, altresì, ribadito (Cass. Sez. 5, n. 19424 del 30/9/2015) che “nel giudizio dì rinvio, configurato dall’art. 394 c.p.c. quale giudizio ad istruzione sostanzialmente “chiusa”, é preclusa l’acquisizione di nuove prove, e segnatamente la produzione di nuovi documenti, anche se consistenti in una perizia d’ufficio disposta in altro giudizio, salvo che la loro produzione non sia giustificata da fatti sopravvenuti riguardanti la controversia in decisione, da esigenze istruttorie derivanti dalla sentenza di annullamento della Corte di cassazione o dall’impossibilità di produrli in precedenza per causa di forza maggiore.”
Orbene, calando tali principi nella fattispecie, non può non evidenziarsi la correttezza della decisione della Corte d’appello di Roma, sia in ordine alla rilevata mancanza di allegazione e prova del requisito temporale e di quello reddituale (criterio temporale, costituito dal lavoro agricolo per almeno 104 giornate lavorative nell’anno, e criterio reddituale, costituto dalla prevalenza del reddito agricolo sui redditi di diversa provenienza), quali requisiti presupposti del preteso diritto della ricorrente alla rendita in relazione al decesso dei coniuge avvenuto a causa del lavoro svolto all’interno dell’azienda agricola del figlio, sia in merito alla accertata inammissibilità della documentazione tardivamente prodotta nel giudizio di rinvio, non essendosi in presenza, nel caso in esame, di fatti sopravvenuti che potessero giustificarne la tardiva produzione, essendo chiaramente affermato nell’impugnata sentenza, con giudizio esente da rilievi di legittimità, che i documenti in questione erano antecedenti di circa sette anni rispetto alla loro produzione.
Tra l’altro, il primo motivo denota un evidente profilo di inammissibilità in quanto la ricorrente deduce la violazione della norma di cui all’art. 384 c.p.c., ma al tempo stesso assume che tale violazione si sarebbe sostanziata nell’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine al principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione in sede rescindente (quindi, in realtà, in un vizio di motivazione).
Al riguardo questa Corte ha già avuto occasione di statuire (Cass. sez. 1 n. 19443 del 23/9/2011) che “in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza dì motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 cod. proc. civ., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse.
Si è anche precisato (Cass. Sez. 3, n. 10295 del 7/5/2007) che tra le due relative censure di vizio di violazione dì legge e di motivazione deducibili in sede di legittimità non vi possono essere giustapposizioni in quanto il ricorrente non può denunciare contemporaneamente la violazione di norme di diritto e il difetto di motivazione, attribuendo alla decisione impugnata un’errata applicazione delle norme di diritto, senza indicare la diversa prospettazione attraverso la quale si sarebbe giunti ad un giudizio sul fatto diverso da quello contemplato dalla norma di diritto applicata al caso concreto, perché la deduzione di questa deficienza verrebbe, nella realtà, a mascherare una richiesta di diversa ricostruzione dei fatti, non consentita in sede di legittimità.
Pertanto, il ricorso va rigettato.
Nulla per le spese nei rapporti tra la ricorrente e l’Inail, considerato che al giudizio in esame non è applicabile “ratione temporis” l’art. 152 disp. att. c.p.c. come sostituito dal D.L. n. 269 del 2003, art. 42 (convertito nella L. n. 326 del 2003).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
Così deciso in Roma il 20 aprile 2016

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