Cassazione Civile, Sez. Lav., 07 aprile 2016, n. 6761

Rendita per malattia professionale: ipoacusia ed epatopatia HCV, ritenute conseguenza della malaria contratta nell’esercizio dell’attività lavorativa prestata in Nigeria.


Presidente: MANNA ANTONIO
Relatore: GHINOY PAOLA
Data pubblicazione: 07/04/2016

Fatto

Con la sentenza n. 1510 depositata il 16 dicembre 2011, la Corte d’appello di Messina, decidendo in sede di rinvio disposto da questa Corte di Cassazione con la sentenza n. 21539 del 2006, riconosceva il diritto di G.S. alla rendita per le malattia professionali, ipoacusia da terapia chininica ed epatopatia HCV, ritenute conseguenza della malaria contratta nell’esercizio dell’ attività lavorativa prestata in Nigeria, e condannava, l’Inail al pagamento della stessa, rapportata all’invalidità accertata mediante c.t.u., con interessi legali e rivalutazione monetaria dal 121° giorno successivo alla domanda amministrativa, nonché al pagamento delle spese processuali e di c.t.u..
Per la cassazione della sentenza l’Inail ha proposto ricorso, affidato a tre motivi, cui ha resistito con controricorso G.S..

Diritto

1. Come primo motivo, l’Inail deduce la violazione degli articoli 111 e 112 del d.p.r. n. 1124 del 1965 e lamenta che la Corte d’appello abbia accolto la domanda, non ritenendo maturato il termine di prescrizione alla data di proposizione del ricorso di primo grado.
Riferisce in fatto che l’istituto aveva negato la rendita con provvedimento del 11 ottobre 1993, cui l’assicurato aveva proposto opposizione in data 21 dicembre 1993, che non aveva avuto esito; il decorso del termine di 150 giorni senza che l’istituto si fosse pronunciato determinava la formazione del silenzio-rigetto, e quindi l’esaurimento del procedimento amministrativo, sicché, dovendo da tale scadenza farsi decorrere il termine triennale di prescrizione previsto dagli artt. 111 e 112 del TU n. 1124 del 1965, esso era inesorabilmente decorso alla data di deposito del ricorso introduttivo del giudizio (13 settembre 2000).
1.1. Il motivo non è fondato.
Nella sentenza rescindente n. 21539 del 2006, questa Corte ha affermato il principio di diritto secondo il quale “La sospensione della prescrizione del diritto alle prestazioni erogate dall’Inail in favore dell’assicurato, prevista dal D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 111, comma 2 e 3, permane sino alla definizione del procedimento di liquidazione, in questo compresa la fase successiva al reclamo proposto dall’interessato al provvedimento di diniego della prestazione”. Tale principio di diritto è stato correlato al presupposto fattuale in base al quale la mancanza di alcuna risposta dell’Inail all’opposizione determinava la mancata definizione del procedimento amministrativo, sicché alla data in cui l’interessato si era rivolto al giudice non era decorsa la prescrizione prevista dal citato art. 112, erroneamente ritenuta dalla Corte territoriale nella sentenza gravata.
A tali presupposti di fatto e di diritto doveva attenersi il giudice del rinvio, considerato che, come ribadito ancora di recente da questa Corte, in ipotesi di annullamento con rinvio per violazione di norme di diritto, la pronuncia della Corte di cassazione vincola al principio affermato ed ai relativi presupposti di fatto, onde il giudice del rinvio deve uniformarsi non solo alla “regola” giuridica enunciata, ma anche alle premesse logico-giuridiche della decisione, attenendosi agli accertamenti già compresi nell’ambito di tale enunciazione, senza poter estendere la propria indagine a questioni che, pur se non esaminate nel giudizio di legittimità, costituiscono il presupposto stesso della pronuncia, formando oggetto di giudicato implicito interno, atteso che il riesame delle suddette questioni verrebbe a porre nel nulla o a limitare gli effetti della sentenza, in contrasto col principio di sua intangibilità (Cass. n. 20981 del 16/10/2015, coni. n. 17353 del 23/07/2010).
2. Come secondo e terzo motivo, sotto il profilo del vizio di motivazione e della violazione e falsa applicazione dell’alt. 3 del T.U. n. 1124 del 1965 e degli artt. 40 e 41 del codice penale, l’Inail lamenta che la Corte d’appello abbia ritenuto l’epatite cronica da HCV riconducibile alle condizioni igienico- sanitarie carenti in cui erano stati eseguiti in Nigeria i rilievi ematici per il controllo della malaria, in difetto della necessaria prova. Inoltre, la malattia sarebbe stata causata da un fattore esterno, cioè la siringa infetta, che avrebbe interrotto il nesso causale con la prestazione lavorativa.
2.1. Neppure tale motivo è fondato.
La Corte d’appello ha argomentato che l’infezione epatica era derivata dai ripetuti prelievi di sangue eseguiti in Nigeria in condizioni igienico- sanitarie carenti. La Corte territoriale si è basata sulla relazione del c.t.u., che aveva riferito che per i prelievi di sangue in quello stato non venivano usate siringhe ed aghi sterili monouso, ma siringhe ed aghi riciclabili, e che la sussistenza dell’ epatite cronica HCV era stata diagnosticata al momento del rientro in Italia, a fronte dell’assenza di alcuna patologia alla visita periodica svolta prima di essere avviato al lavoro in quello stato. La ricostruzione fattuale della Corte appare quindi corretta e coerente con le risultanze di causa e resiste alle censure generiche mossevi dall’Istituto ricorrente.
2.2. Né l’uso di una siringa infetta può ritenersi elemento estraneo tale da interrompere il nesso di causalità tra attività lavorativa e malattia.
La giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali trova diretta applicazione la regola contenuta nell’art. 41 cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento e danno è regolato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, a determinare l’evento, sicché deve escludersi l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge solo qualora possa ritenersi con certezza che l’Intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa sia stato di per sé sufficiente a produrre la infermità (v. da ultimo ex plurimis Sez. L, n. 6105 del 26/03/2015, n. 23990 del 2014). Si è poi ritenuta l’indennizzabilità anche degli ulteriori effetti dipendenti da cause sopravvenute ed estranee all’ attività lavorativa, i quali abbiano modificato gli esiti di un precedente infortunio, a condizione che tali cause sopravvenute siano direttamente collegabili all’Infortunio medesimo, perché inserite nel processo causale come fattori di determinazione dell’ulteriore aggravamento del danno, e non già come meri fatti occasionali od accidentali (cfr. Cass. n. 12121 del 2015, n. 5014 del 2004, n. 12377 del 2003, n. 9302 del 2001, n. 129 del 1990, n. 2904 del 1989).
La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di tali principi, considerato che nel caso le carenze addebitabili alla struttura sanitaria straniera, causa della malattia, erano connesse agli interventi resisi necessari per la diagnosi e la cura della malaria contratta sul luogo di lavoro, e quindi rientravano nella sequenza causale che traeva origine dall’attività lavorativa.
3. Segue il rigetto del ricorso e la condanna dell’Inail al pagamento delle spese del giudizio, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in complessivi € 3.500,00 per compensi professionali, oltre ad e 100,00 per esborsi, rimborso spese generali al 15% ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 2.12.2015

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