Cassazione Civile, Sez. Lav., 07 aprile 2016, n. 6775

Obbligo datoriale di custodire la cartella sanitaria e di rischio del lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria. Dati personali e Garante Privacy.

> articolo collegato:
Diritto soggettivo del lavoratore di accedere al proprio Fascicolo personale


Presidente: NOBILE VITTORIO
Relatore: TRIA LUCIA
Data pubblicazione: 07/04/2016

Fatto

1.- La sentenza attualmente impugnata (depositata il 20 febbraio 2012) respinge l’appello proposto da G.R. avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 2049/2006, che: 1) aveva dichiarato improponibile la domanda della G.R. volta ad ottenere che fosse ordinato alla datrice di lavoro TELECOM ITALIA s.p.a. sia di mettere a disposizione della ricorrente tutti i documenti che la riguardavano, anche se custoditi presso società terze, sia di dichiarare se disponeva di ulteriori documenti concernenti la G.R. nonché di specificare i criteri applicati per selezionare i dati da conservare nei fascicoli personali dei dipendenti; 2) aveva rigettato tutte le altre domande della ricorrente.
La Corte d’appello di Roma, per quel che qui interessa, precisa che:
a) il primo motivo di appello, con il quale si impugna la suddetta decisione di improponibilità di una delle domande della lavoratrice non è fondato, in quanto, diversamente da quel che sostiene l’appellante, la domanda in oggetto concerne soltanto il diritto di accesso e di informazione ai propri dati personali previsti e disciplinati dall’alt. 13 della legge n. 675 del 1996, cui si è riferita la lettera inviata dalla lavoratrice alla società TELECOM il 24 settembre 1999, in relazione alla quale è stato avviato dalla G.R. il procedimento dinanzi al Garante di protezione dei dati personali;
b) conseguentemente, la statuizione di improponibilità de qua appare corretta, data l’applicabilità nella specie della preclusione scaturente, ex art. 29, comma 2, della legge n. 675 del 1996, dalla preventiva proposizione del ricorso al Garante, da configurare, nella specie, è come rimedio alternativo rispetto a quello giurisdizionale, data la suddetta identità di oggetto tra le due iniziative;
c) nel secondo motivo l’appellante non contrasta in modo specifico le affermazioni con le quali il primo giudice ha respinto la domanda volta all’accertamento dell’inosservanza, da parte di TELECOM ITALIA, agli ordini emessi dal Garante in data 27 ottobre 1999 e 16 febbraio 2000, in quanto tale rigetto è stato fondato sull’assenza di adeguate allegazioni – prima ancora che di prove – in ordine alla suddetta inottemperanza nonché sul rilievo secondo cui nella lettera del 30 novembre 1999 la lavoratrice aveva denunciato soltanto la mancanza nel fascicolo dei dati personali riferiti a giudizi e valutazioni in itinere inerenti la scheda valutativa del 1998, ma non l’assenza della scheda stessa;
d) in questa prospettiva risultano superate le censure sul mancato accesso al fascicolo tenuto dalla società TESS, controllata da TELECOM, sulla mancata messa a disposizione della scheda del 1998, sulla omessa precisazione della destinazione dei documenti asserita mente mancanti, trattandosi di deduzioni per le quali mancano allegazioni prima ancora che prove;
e) va respinto anche il terzo motivo di gravame per indicazione generica dei documenti che sarebbero stati mal conservati da TELECOM e, inoltre, l’appellante neppure precisa in che cosa consisterebbe l’incompletezza e quali sarebbero i dati non aggiornati;
f) pure il quarto motivo è da rigettare perché, a fronte del contenuto non pregiudizievole della valutazione del 1998 – nella quale si esprime l’apprezzamento complessivo di “adeguatezza” della G.R., pur rilevandosi alcune criticità – non viene chiarito e provato quali sono i concreti profili di illegittimità della valutazione stessa e quali sarebbero i riflessi pregiudizievoli per la carriera della lavoratrice, da essa scaturenti;
g) il rigetto dei suindicati motivi comporta il rigetto anche della domanda di condanna al risarcimento del danno, peraltro proposta senza adeguate allegazioni in ordine all’an e al Quantum del pregiudizio dal quale si chiede il ristoro.
2.- Il ricorso di G.R., illustrato da memoria, domanda la cassazione della sentenza per cinque motivi; resiste, con controricorso, TELECOM ITALIA s.p.a.

Diritto

I – Sintesi dei motivi di ricorso
1.- Il ricorso è articolato in cinque motivi.
1.1. – Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., nullità del procedimento per violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 342 e 434 cod. proc. civ., perché la Corte d’appello avrebbe omesso del tutto di esaminare: 1) il terzo motivo di appello, nel quale si era rilevato che la mancanza nella cartella personale della ricorrente dei certificati medici attestanti il patito tumore all’occhio riscontrato nel 1994 non poteva essere giustificata dalla solo successiva entrata in vigore della legge n. 675 del 1996 (come affermato dal primo giudice), perché l’obbligo datoriale di custodire la cartella sanitaria e di rischio del lavoratore sottoposto a vigilanza sanitaria e di tenerne conto nell’assegnazione delle mansioni è stato introdotto dall’art. 4 del d.lgs. n. 626 del 1994; 2) il primo motivo di appello, con il quale si contestavano le pronunce con le quali non era stata ammessa la prova per testi, volta ad integrare la produzione delle schede di valutazione di colleghi della ricorrente e comunque la valutazione della prova testimoniale acquisita.
1.2. – Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., nullità del procedimento per violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 177 cod. proc. civ., in quanto essendo controversa l’esistenza o meno di schede di valutazione per gli anni precedenti al 1998 e risultandone l’esistenza almeno dal 1995 dall’unica testimonianza raccolta, pur dopo la revoca dell’ordinanza ammissiva della prova per testi, la Corte d’appello non avrebbe potuto ignorare il contenuto di tale testimonianza, concernente un fatto decisivo al fine di supportare la tesi della incompletezza del fascicolo dei dati personali, sostenuta dalla G.R..
1.3. – Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 100 cod. proc. civ., dell’art. 2 Cost., nonché degli artt. 2097, 1175, 1375, 1218, 2104 e 2106, 2697 cod. civ., per avere la Corte romana respinto le doglianze riguardanti la scheda di valutazione del 1998 ponendo in dubbio la sussistenza dell’interesse della lavoratrice ad impugnare note di qualifica negative addossando sulla lavoratrice stessa l’onere di provare la scorrettezza del giudizio negativo espresso sul proprio conto, in ingiustificato contrasto con la giurisprudenza di legittimità in materia e senza considerare che invece incombeva alla datrice di lavoro la dimostrazione che il giudizio espresso nella suindicata scheda, anche se potenzialmente lesivo per la destinataria, tuttavia era fondato e veritiero e quindi costituiva legittimo esercizio dei poteri direttivi datoriali.
Inoltre, la Corte d’appello non avrebbe considerato che la suindicata scheda di valutazione contenente un giudizio sicuramente negativo – come si afferma anche nella sentenza impugnata – pure se fatta soltanto a fini statistici, comunque aveva contenuto potenzialmente lesivo della dignità e identità personale della interessata e questo è sufficiente per la sussistenza – pure in base al combinato disposto dell’alt. 2 Cost. e dell’alt. 2087 cod. civ. – del relativo interesse ad agire a tutela dei suddetti beni, anche a prescindere dalla configurabilità di diretti benefici economici o di carriera.
1.4. – Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’alt. 360, n. 5, cod. proc. civ., omesso esame di un punto decisivo della controversia oggetto di confronto nei precedenti gradi del giudizio.
La ricorrente contesta il capo della sentenza nel quale è stata respinta la domanda concernente la violazione, da parte della società TELECOM ITALIA dell’ordine del Garante dei dati personali in data 27 ottobre 1999 – con particolare riferimento alle deduzioni relative al mancato accesso al fascicolo della società TESS, controllata dalla TELECOM – affermando che tale rigetto è stato disposto facendo riferimento ad un difetto di impugnativa delle argomentazioni della sentenza di primo grado non esplicitato e senza neppure chiarire le ragioni per le quali sono state considerate “superate” le suddette deduzioni relative alla società TESS, alla quale, per “dichiarazione confessoria” della TELECOM, erano stati trasmessi da quest’ultima tutti i dati occorrenti per compilare le buste paga dei dipendenti, ivi compresi quelli sulle condizioni di salute.
Nel ricorso introduttivo del presente giudizio la G.R. aveva contestato l’incompletezza del fascicolo mostratole da TELECOM, rilevando che in esso mancava tra l’altro la documentazione medica, con particolare riguardo a quella concernente il tumore all’occhio. E, in appello, aveva rilevato che la mancata esibizione del fascicolo detenuto dalla TESS costituiva una evidente inottemperanza all’ordine del Garante, implicitamente ammessa dalla stessa TELECOM, nel suo atto di costituzione in giudizio.
1.5. – Con il quinto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e o falsa applicazione degli artt. 9, 13, 29, 37 della legge n. 675 del 1996 [artt. 7, 11, 145, 152 e 170 d.lgs. n. 196 del 2003].
Si contesta la statuizione con la quale – confermando la sentenza di primo grado – la Corte territoriale ha dichiarato l’improponibilità della prima tra le domande proposte in sede giurisdizionale sull’assunto – erroneo – dell’identità dell’oggetto di tale domanda con il ricorso proposto al Garante per la protezione dei dati personali.
Si sottolinea che invece – come precisato anche nel ricorso in appello – il diritto azionato in giudizio era quello di conoscere i criteri applicati dalla datrice di lavoro per selezionare i dati da conservare e quelli da eliminare, al fine di verificare – dopo avere, grazie al ricorso al Garante, ottenuto l’accesso al fascicolo personale ed avere constatato la mancanza di documenti che avrebbero dovuto esservi per legge (come quelli sulla assoluta inabilità della ricorrente all’impiego di videoterminali) o che era logico che vi fossero (come le schede di valutazione riguardanti gli anni antecedenti il 1998) – se i dati conservati erano o meno pertinenti, completi ed aggiornati e, in caso negativo, chiedere la rimozione dei dati eccedenti ovvero l’integrazione di quelli mancanti.
Ne deriva che non era affatto configurabile una duplicazione della medesima domanda perché in sede giudiziaria si è fatto valere un diritto del tutto diverso rispetto a quello posto a base del ricorso in sede amministrativa, sicché per la proposizione del ricorso in sede giurisdizionale i provvedimenti ottenuti dal Garante hanno avuto carattere strumentale, in quanto hanno consentito di appurare la gestione tutt’altro che trasparente dei dati riservati dei dipendenti, da parte della TELECOM ITALIA, peraltro confermata dal “comportamento processuale della società”.
II – Esame delle censure
2.- Il quinto motivo di ricorso, da esaminare per primo, in ordine logico, è da accogliere per le ragioni di seguito esposte.
2.1. – In primo luogo deve precisarsi che, essendo stato il presente giudizio introdotto con ricorso dell’8 agosto 2002, ad esso non si applica la normativa di cui al d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) e quindi neppure la disciplina processuale risultante dalle modifiche introdotte dagli artt. 10 e 34 del d.lgs. n. 150 del 2011 all’art. 152 del suddetto decreto legislativo. Infatti, ex art. 36 del d.lgs. n. 150 cit., le norme introdotte dal decreto medesimo “si applicano ai procedimenti instaurati successivamente alla data di entrata in vigore” dello stesso e le norme abrogate o modificate dal decreto “continuano ad applicarsi alle controversie pendenti” alla suddetta data (6 ottobre 2011).
Pertanto ratione temporis per il presente giudizio si deve fare riferimento alla legge 31 dicembre 1996, n. 675, nel testo aggiornato con le modifiche che rilevano.
2.2. – Deve anche essere sottolineato che, dagli atti del fascicolo in possesso di questa Corte direttamente esaminabili perché le censure implicano la determinazione dell’oggetto della domanda proposta in primo grado (vedi: Cass. SU 22 maggio 2012, n. 8077; Cass. 7 gennaio 2014, n. 896; Cass. 10 ottobre 2014, n. 21421) si desume che: 1) la ricorrente ha lavorato – alle dipendenze di ITALCABLE s.p.a., incorporata dalla SIP s.p.a. che poi ha assunto la denominazione di TELECOM ITALIA s.p.a. – in via continuativa ai videoterminali a partire dal 1980; 2) nel giugno 1994 le è stato diagnosticato un tumore melanocitario atipico e prescritta la corrispondente terapia; 3) nel settembre 1994, rientrata al lavoro dopo la malattia, ha ripreso servizio nel precedente posto, richiedente l’uso del videoterminale, e nel novembre successivo, previa presentazione di certificazione medica, è stata trasferita ad altre mansioni, non comportanti l’uso di videoterminali; 4) dal 1995 alla ricorrente è stato diagnosticato melanoma della coroide e prescritta la relativa terapia. Tutte circostanze che non risultano sostanzialmente contestate dalla controricorrente.
La ricorrente, avendo constatato che, da quando era stata trasferita al nuovo servizio (per motivi di salute), le proprie schede di valutazione annuali contenevano giudizi critici e di inadeguatezza, mentre in precedenza aveva sempre ottenuto giudizi lusinghieri sulla propria prestazione professionale, ha contestato tali valutazioni sfavorevoli, chiedendo ripetutamente all’azienda di conoscerne le motivazioni.
In particolare, con lettera dei 24 giugno 1999, contestando la scheda valutativa relativa al 1998, la ricorrente ha chiesto alla TELECOM ITALIA, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 675 del 1996, di poter accedere al proprio fascicolo personale, anche per conoscere “le argomentazioni e valutazioni” poste a base della suddetta scheda di valutazione. Ed ha reiterato la richiesta in data 11 settembre 1999, sempre al fine di stabilire se il superiore gerarchico nell’esprimere giudizi sostanzialmente negativi – a partire dal 1995 e in particolare nel 1998 – riferiti alle nuove mansioni svolte dopo il trasferimento fosse stato informato e comunque avesse tenuto conto dei gravi motivi di salute che avevano impedito alla ricorrente l’utilizzo del videoterminale condizionandone complessivamente la prestazione.
In assenza di risposta da parte della datrice di lavoro, la ricorrente si è rivolta al Garante per la protezione dei dati personali – con ricorso del 24 settembre 1999 proposto ex art. 29 della legge n. 675 del 1996 – onde ottenere che venisse ordinato alla datrice di lavoro di metterle a disposizione il proprio fascicolo personale con i documenti ivi custoditi.
A seguito di un primo provvedimento del Garante, con il quale si invitava la società ad ottemperare spontaneamente alla richiesta della lavoratrice, la TELECOM ITALIA, in data 4 ottobre 1999, ha consegnato alla dipendente una comunicazione cui era allegato l’elenco dei documenti conservati nel suo fascicolo personale e, il successivo 11 ottobre, ha comunicato al Garante di avere dichiarato all’interessata la messa a disposizione del fascicolo personale e di non essere in possesso di schede di valutazione relative ad anni anteriori al 1998, le quali venivano compilate in base all’apprezzamento del superiore diretto.
La lavoratrice ha subito rilevato l’incompletezza dei dati inclusi nell’elenco fornitole,sicché il Garante – con provvedimento del 27 ottobre 1999 – previa disponibilità della TELECOM ITALIA, ha invitato la società a rendere più agevole l’accesso della richiedente a tutti i propri dati personali, riferiti all’intero periodo lavorativo, contenuti anche in giudizi o valutazioni comunque espressi.
Il 17 novembre 1999 la lavoratrice, avendo avuto accesso alla propria cartella personale presso la sede della società, ha rilevato la mancanza di diversi documenti tra cui la scheda di valutazione del 1998 e ogni elemento sulla formazione dei giudizi. Con lettera del 30 novembre 1999 la ricorrente ha informato il Garante di tali riscontrate carenze, chiedendo di conoscere quali fossero i criteri applicati dalla società per selezionare i documenti da includere nel fascicolo personale e quelli da scartare. Il Garante, con delibera del 16 febbraio 2000, ha ordinato alla società di dare puntuale esecuzione alla precedente ordinanza del 27 ottobre 1999, eventualmente comunicando all’interessata di non essere in possesso dei dati di cui ella aveva rilevato la mancanza nella suddetta lettera.
La società non ha fornito alcuna risposta e quindi la lavoratrice – rilevato il mancato adempimento della società ai provvedimenti del Garante in data 27 ottobre 1999 e 16 febbraio 2000 – ha proposto ricorso in sede giurisdizionale chiedendo che il giudice ordinasse alla TELECOM ITALIA: 1) di metterle a disposizione tutti i dati personali ovunque conservati, anche presso società terze; 2) di dichiarare se era in possesso dei documenti di cui la ricorrente aveva rilevato la mancanza; 3) in caso negativo, di chiarire quali erano i criteri di selezione applicati per stabile quali fossero i dati da conservare nel fascicolo personale dei dipendenti e quelli da eliminare, onde consentire alla ricorrente di esercitare il diritto alla integrazione dei propri dati personali ai sensi dell’art. 13, lettera c, della legge n.675 del 1996; 4) di eliminare dalla propria cartella personale le schede di valutazione relative agli anni successivi al 1995, di cui chiedeva al giudice la dichiarazione di illegittimità e di inutilizzabilità ad ogni effetto.
Conseguentemente, la lavoratrice chiedeva la condanna la società: a) al risarcimento dei danni, anche morali, essendo dall’art. 37 della legge n. 675 cit., l’inosservanza degli ordini del Garante configurata come reato; b) al risarcimento dei danni, anche non patrimoniali, come previsto dall’art. 29, comma 9, della legge n. 675 cit., per la violazione degli obblighi previsti dall’art. 9 della legge stessa e, in generale, degli obblighi di correttezza e buona fede per avere tenuto nel proprio fascicolo personale dati incompleti, inesatti e non aggiornati; c) al risarcimento dei danni, anche non patrimoniali, ex art. 18 della legge medesima, in conseguenza della rilevata mancanza – in sede di accesso al fascicolo personale – di tutte le schede di valutazione positive riguardanti gli anni antecedenti il 1995, di ogni indicazione sia in ordine ai motivi che hanno portato all’esonero dall’uso dei videoterminali e al trasferimento, sia sulle particolari condizioni di salute dell’interessata (senza che potesse valere in contrario un preteso smarrimento dei documenti ex art. 15 della legge).
Si faceva anche rilevare che la correttezza e completezza della documentazione inserita nel fascicolo personale (quale prevista dal citato art. 9 della legge n. 675 cit.) è funzionale alla correttezza della valutazione della prestazione lavorativa nel suo complesso (sia in occasione di provvedimenti Individuali, sia per le selezioni di tipo comparativo), come dimostrato dalla assegnazione della ricorrente a turni di lavoro incompatibili con le proprie condizioni di salute.
2.3. – Nel costituirsi in giudizio la società – dopo aver sostenuto l’improponibilità del ricorso ex art. 29, comma 2, della legge n. 675 del 1996 in considerazione della identità del suo oggetto rispetto a quello del ricorso proposto preventivamente al Garante – ha precisato, fra l’altro, che, per la compilazione delle buste-paga si avvaleva della società TESS, che, ai sensi della legge n. 675 del 1996, aveva nominato responsabile del trattamento dei dati funzionali all’elaborazione delle buste-paga stesse ed ha aggiunto che la valutazione delle prestazioni di alcuni lavoratori (tra i quali la ricorrente) del 1998 era stata effettuata a titolo meramente sperimentale.
2.4. – In sintesi, la lavoratrice, dopo avere inutilmente chiesto ripetutamente all’azienda di poter accedere al proprio fascicolo personale ai sensi dell’alt. 13 della legge n. 675 del 1996, in assenza di risposta da parte della datrice di lavoro, si è prima rivolta al Garante per la protezione dei dati personali – che, dopo un primo invito alla società ad ottemperare spontaneamente alla richiesta, ha emesso due provvedimenti in favore della richiedente (il 27 ottobre 1999 e il 16 febbraio 2000) – e non avendo ricevuto dalla TELECOM ITALIA alcuna comunicazione (secondo quanto prescritto dal Garante) ha proposto ricorso in sede giurisdizionale, denunciando in primo luogo il mancato adempimento della società ai provvedimenti del Garante in data 27 ottobre 1999 e 16 febbraio 200 e, su questa premessa, oltre che reiterare le domande riguardanti la messa a disposizione tutti i dati personali ovunque conservati, anche presso società terze come inutilmente ordinato dal Garante, ha rinnovato la richiesta (rimasta priva di risposta) di chiarimenti sui criteri di formazione dei fascicoli personali dei dipendenti onde poter esercitare il diritto alla integrazione dei propri dati personali ai sensi dell’art. 13, lettera c, della legge n.675 del 1996 e soprattutto ha chiesto la condanna della società al risarcimento dei danni, ai sensi degli artt. 9, 18, 29, comma 9, e 37 della legge n. 675 del 1996.
2.5. – Va precisato che il diritto soggettivo fatto valere dalla lavoratrice di accedere al proprio fascicolo personale – la cui titolarità deriva, nella specie, dalla qualità di dipendente della società TELECOM ITALIA – è tutelabile in quanto tale perché si tratta di una posizione giuridica soggettiva che trae la sua fonte dal rapporto di lavoro (arg. ex Cass. SU 4 febbraio 2014, n. 2397).
L’obbligo del datore di lavoro di consentirne il pieno esercizio, prima ancora che nella legge n. 675 del 1996, deriva dal rispetto dei canoni di buona fede e correttezza che incombe sulle parti del rapporto di lavoro ai sensi degli artt. 1175 e 1375 cod. civ., come, del resto è confermato dal fatto che, da tempo, la contrattazione collettiva del settore in oggetto prevede che l’azienda datrice di lavoro debba conservare, in un apposito fascicolo personale, tutti gli atti e i documenti, prodotti dall’ente o dallo stesso dipendente, che attengono al percorso professionale, all’attività svolta ed ai fatti più significativi che lo riguardano e che il dipendente ha diritto di “prendere visione liberamente degli atti e documenti inseriti nel proprio fascicolo personale”.
2.6.- Con riferimento alla presente fattispecie viene anche in considerazione l’obbligo del datore di lavoro di custodire “presso l’azienda ovvero l’unità produttiva, la cartella sanitaria e di rischio del lavoratore sottoposto a sorveglianza sanitaria, con salvaguardia del segreto professionale” consegnandone copia al lavoratore stesso …. quando lo stesso ne faccia richiesta”, sancito dall’art. 4, comma 8, del d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, di attuazione (tardiva) delle direttive comunitarie di base, riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, che trova applicazione nella specie visto che la ricorrente – prima di contrarre la grave patologia oculare che l’ha colpita, quindi, fino al 1995 quando l’azienda ne ha disposto il trasferimento per motivi di salute, essendo, quindi, edotta della situazione di salute della dipendente – ha svolto mansioni comportanti l’uso di videoterminali, come tali sottoposte a sorveglianza sanitaria in considerazione della loro particolare gravosità e dell’esposizione dei lavoratori a seri rischi per la salute, tanto da essere oggetto di specifica disciplina nel titolo VI del d.lgs. n. 626 cit. (artt. 50-59). Né il riferimento a tale normativa specifica comporta la valutazione di una diversa causa petendi, implicando semplicemente una più esatta qualificazione giuridica della fattispecie, attraverso il riferimento ad un onere particolare previsto a tutela di tutti i lavoratori sottoposti a vigilanza sanitaria (come i videoterminalisti), che non è altro che una spècificazione della tutela già presente nell’ordinamento per i suddetti lavoratori in base al d.P.R. 30 giugno 1995, n. 1224 ndr: d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (vedi: Cass. 27 aprile 2004, n. 8073; Cass. 10 settembre 2009, n. 19495) nonché, in linea generale, per effetto della combinazione dell’art. 2087 cod. civ. con l’art. 32 Cost. (sulla tutela del diritto alla salute e con l’art. 41 Cost. (secondo cui l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana), secondo cui la tutela delle condizioni di lavoro è da sempre stata concepita come uno degli obblighi essenziali del datore di lavoro.
2.7. – Tutto questo ovviamente non esclude – ma anzi rafforza – il diritto del lavoratore di rivolgersi – come ha fatto l’attuale ricorrente – al Garante per la protezione dei dati personali tutte le volte in cui intenda ottenere, in tempi ragionevoli, alcuno dei provvedimenti – di natura provvisoria o definitiva – previsti, per quanto qui interessa, dall’art. 13 della legge n. 675 del 1996.al fine di ottenere, ad esempio, l’integrazione dei dati personali detenuti dal datore di 1 lavoro con documenti ulteriori, che attestino valutazioni di merito o che comunque a suo avviso rilevino in ogni caso, restando salva la discrezionalità del datore circa le modalità di utilizzo di détte integrazioni (vedi decisione del Garante Privacy del 30 settembre 2002, L. Marcon c. Telecom Italia SpA in www.garanteprivacy.it. direttamente esaminabile in questa sede, vedi, per tutte: Cass. 28 agosto 2014, n. 18418) oppure che l’azienda, su richiesta del dipendente, gli metta a disposizione, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 675 del 1996, e gli fornisca le proprie le loro informazioni personali custodite negli archivi aziendali o nei fascicoli personali dei dipendenti, ivi inclusi … i giudizi e le note di qualifica, le assicurazioni contratte in corso di rapporto e quant’altro costituisca dato personale al sensi di legge, incorrendo in caso di inosservanza delle prescrizioni statuite con la decisione del Garante nella sanzione penale da 3 – mesi a 2 anni di reclusione, ai sensi dell’art. 37 legge n. 675 del 1996 (vedi: Garante per la protezione dei dati personali, decisione del 12 giugno 2000, Marcon c. Telecom Italia SpA. in www.garanteprivacv. it.)
Quando il lavoratore si avvale del suddetto strumento di tutela si può porre la questione dell’alternatività di tale tipo di strumento rispetto al ricorso in sede giurisdizionale, visto che per l’art. 29 della legge n. 675 cit.: 1) i diritti di cui all’articolo 13, comma 1, possono essere fatti valere dinanzi all’autorità giudiziaria o con ricorso al Garante. Il ricorso al Garante non può essere proposto qualora, per il medesimo oggetto e tra le stesse parti, sia stata già adita l’autorità giudiziaria; 2) la presentazione del ricorso al Garante rende improponibile un’ulteriore domanda dinanzi all’autorità giudiziaria tra le stesse parti e per il medesimo oggetto.
2.8. – Come espressamente stabilito dalle suindicate disposizioni l’alternatività riguarda però esclusivamente le domande aventi un “identico oggetto”, che devono essere intese come
quelle che se, in ipotesi, pendenti contestualmente davanti a più giudici, possono, in via generale, essere assoggettate al regime processuale della litispendenza o della continenza. Si tratta, quindi, delle domande giudiziali che richiedono interventi di natura preventiva, inibitoria o conformativa, potendo il Garante indicare modalità concrete di cessazione del trattamento illecito dei dati (vedi: Cass. 17 settembre 2014, n. 19534).
La predetta identità di oggetto, in altri termini, deve essere intesa in senso specifico e conforme ai principi generali del diritto processuale perché possa essere compatibile con la tutela del diritto di difesa di cui all’alt. 24 Cost., dovendosi considerare che il procedimento che si svolge dinanzi al Garante ai sensi dell’alt. 29, commi 3-5, della legge n. 675 del 1996 (applicabile ratione temporisì per la tutela, in relazione al trattamento dei dati personali, di uno dei diritti indicati negli artt. 9 e art. 13 della citata legge, per quanto strutturalmente caratterizzato dal contraddittorio dei soggetti coinvolti – il “titolare”, il “responsabile” e “interessato” – e funzionalmente proteso alla tutela dei diritti della persona, si connota come amministrativo e non pone il Garante in una posizione di terzietà assimilabile a quella del giudice nei processo (Cass. 25 giugno 2004, n. 11864; Cass. 20 maggio 2002, n. 7341).
Ne consegue che tutte le volte che, in sede giurisdizionale, si fa valere l’inottemperanza da parte del gestore dei dati personali rispetto ai provvedimenti assunti dal Garante e/o viene proposta una domanda di risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale – che ha causa petendi e petitum specifici e del tutto diversi rispetto alle ragioni fatte valere con il ricorso al Garante di cui si è detto – non può certamente ipotizzarsi l’applicazione del suddetto principio di alternatività delle tutele.
2.9. – Del resto, in linea generale, la lettura della normativa pertinente porta ad escludere che al Garante sia attribuita la cognizione di domande risarcitone – che si devono ritenere coperte da riserva esclusiva di giurisdizione ordinaria (vedi: Cass. 17 settembre 2014, n. 19534) – le quali, infatti, sono destinate ad una declaratoria d’inammissibilità se proposte davanti al Garante, come risulta dalle numerose pronunce in tal senso emesse dal Garante stesso, nelle quali l’Autorità ha affermato la propria incompetenza al riguardo (vedi, per tutte: la nota del Segretario generale 29 ottobre 1999, doc. web n. 40193, ove è stata esclusa tale competenza in relazione a violazioni della legge n. 675 cit., precisandosi che le richieste risarcitone devono essere fatte valere di fronte all’autorità giudiziaria ordinaria, cui si sono uniformate tutte le successive decisioni in materia; vedi: Garante privacy 19 febbraio 2002 doc. web. n. 1063674; 30 dicembre 2003 doc. web n. 1084799; 29 dicembre 2003 doc. web n. 1085642; 5 ottobre 2006 doc. web. n. 135919).
Pertanto, come affermato da Cass. n. 19534 del 2014 cit. – alle cui statuizioni il Collegio intende dare continuità – se la tutela risarcitoria viene chiesta dopo un provvedimento di accoglimento del ricorso, totale o parziale, da parte del Garante, tale circostanza può facilitare il ricorso alla suddetta tutela davanti all’autorità giudiziaria ordinaria, ma certo non escluderla.
Diversamente ragionando, dovrebbe ritenersi alternativamente che scelta la strada della tutela inibitoria (e preventiva), sia negata quella risarcitoria, oppure che, nonostante il riconoscimento del trattamento illecito dei dati personali, l’interessato sia tenuto ad un’impugnazione del provvedimento del Garante al solo fine di richiedere il risarcimento del danno e non incorrere nella sanzione di tardività dell’azione. Mentre quest’ultima soluzione è in netto contrasto con il canone costituzionale della ragionevolezza e la prima introduce un impedimento all’ottenimento della tutela piena di un diritto fondamentale quale quello in gioco,
del tutto incompatibile con l’art. 24 Cost., tanto più ove il ricorrente faccia valere nei confronti del datore di lavoro diritti soggettivi derivanti dal rapporto di lavoro, come accade nella specie
2.10. – Va inoltre considerato che, pur essendo il diritto all’accesso al proprio fascicolo personale custodito dal datore di lavoro tutelabile di per sé, nella specie l’occasione che ha determinato la lavoratrice ad esercitare tale tutela è stata quella della ricezione di note di qualifica contenenti giudizi a suo avviso sostanzialmente negativi – a partire dal 1995 e in particolare nel 1998 – che, essendo riferiti alle nuove mansioni svolte dopo aver chiesto il trasferimento per gravi motivi di salute, ha indotto la ricorrente a chiedere di verificare se il superiore gerarchico era stato adeguatamente informato e comunque avesse tenuto conto della severa patologia oculare che l’aveva colpita impedendole l’utilizzo del videoterminale e così condizionandone complessivamente la prestazione lavorativa.
Ne deriva che, in questa situazione, gli obblighi generali che incombono su ogni gestore di dati personali – di: a) gestire e trattare tali dati secondo i canoni della liceità, correttezza, pertinenza e non eccedenza, rispetto alle finalità del loro utilizzo, ai sensi dell’art. 9 della legge n. 675 cit. (nonché della pertinente disciplina successiva: ex multis: Cass. 11 agosto 2013, n. 18443); b) di adottare misure idonee a garantire l’effettivo, integrale e tempestivo esercizio del diritto degli interessati di accedere ai propri dati anche al fine di ottenere “senza ritardo” l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, qualora i richiedenti vi abbiano interesse, l’integrazione dei dati stessi (art. 13 legga legge n. 675 cit. e normativa successiva) – si cumulano con l’obbligo del datore di lavoro di formulare le valutazioni su rendimento e capacità professionale dei lavoratori, espresse con le note di qualifica, nel rispetto dei parametri oggettivi previsti dal contratto collettivo e degli obblighi contrattuali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375, cod. civ., oltre che della inerente necessaria trasparenza.
Il corrispondente diritto riconosciuto ai lavoratori dipendenti può essere fatto valere anche in sede giudiziaria – pure a prescindere da un immediato effetto negativo subito venendo in considerazione la tutela della dignità del lavoratore – onde ottenere il controllo da parte del giudice della conformità del procedimento seguito per la formulazione delle suindicate valutazioni ai suddetti parametri, gravando sul datore di lavoro l’onere di motivare le note di qualifica medesime, per permettere lo svolgimento di tale controllo giudiziale, il quale non é limitato alla mera verifica della coerenza estrinseca del giudizio riassuntivo della valutazione, ma ha ad oggetto la verifica della correttezza del procedimento di formazione del medesimo. Sicché esso richiede di prendere in esame i dati sia positivi che negativi rilevanti al fine della valutazione, non potendo invece tenersi conto di quelli estranei alla prestazione lavorativa (Cass. 20 giugno 2003, n. 9898; (Cass. 9 gennaio 2001, n. 206; Cass. 8 agosto 2000, n. 10450), comportando la violazione del suddetto obbligo datoriale la conseguenza, che, la valutazione stessa debba ritenersi non avvenuta (Cass. 22 agosto 2001, n. 11207).
2.11. – Peraltro, nella specie, la principale ragione di diversità tra le due forme di tutela utilizzate è rappresentata dal fatto che tutte le domande proposte in sede giurisdizionale, come si è detto, muovevano dalla preliminare denuncia dell’inottemperanza da parte della TELECOM ITALIA ai provvedimenti del Garante in data 27 ottobre 1999 e 16 febbraio 2000. Tale inottemperanza:
1) con riguardo al primo provvedimento veniva desunta dal comportamento sostanzialmente elusivo della suddetta delibera tenuto dalla società quando ha consentito alla di accedere alla propria cartella personale presso la propria sede aziendale, pur avendo già nominato responsabile del trattamento dei dati personali dei dipendenti e funzionali all’elaborazione delle buste-paga, ai sensi della legge n. 675 del 1996, la società TESS, che si occupava di tale elaborazione – dato che la datrice di lavoro ha comunicato alla lavoratrice solo costituendosi in giudizio e che, si può aggiungere, lascia supporre l’utilizzo di una modalità di conservazione dei dati personali dei lavoratori in contrasto con l’obbligo assunto in sede contrattuale della tenuta dei fascicoli personali completi presso la struttura organizzativa competente per la gestione delle risorse umane – e pur avendo il Garante invitato la TELECOM ITALIA a “rendere più agevole l’accesso della richiedente a tutti i propri dati personali, riferiti all’intero periodo lavorativo, contenuti anche in giudizi o valutazioni comunque espressi”;
2) con riferimento alla delibera del Garante del 16 febbraio 2000, l’inottemperanza veniva desunta non solo dal mancato rispetto, da parte della società, dell’ordine impartitole di dare puntuale esecuzione alla precedente ordinanza del 27 ottobre 1999 ma anche dall’omesso invio di comunicazioni, anche negative, in merito all’eventuale mancato possesso dei dati di cui l’interessata aveva rilevato l’assenza nel proprio fascicolo quando ne aveva avuto accesso nella sede dell’azienda.
Ebbene, se in base agli artt. 9 e 18 della legge n. 675 del 1996 “chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’articolo 2050 del codice civile”, in base al successivo art. 37 l’inosservanza dei provvedimenti del Garante è considerata reato punito con la reclusione da tre mesi a due anni, (sanzione penale rimasta nell’art. 170 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, nel testo vigente, mentre il successivo art. 171 rinvia all’art. 38 della legge n. 300 del 1970 per le sanzioni alle violazioni delle disposizioni di cui ai precedenti artt. 113, comma 1, e 114, che richiami rispettivamente gli artt. 8 e 4 della suindicata legge n. 300 del 1970).
Alla suddetta disciplina consegue che per effetto della violazione dell’art. 9 e/o dell’art. 13 della legge cit. il risarcimento dei danni, anche non patrimoniali, è assoggettato alla disciplina di cui all’art. 2050 cod. civ. – richiamato dall’alt. 18 cit. – con la conseguenza che il danneggiato è tenuto solo a provare il danno e il nesso di causalità con l’attività di trattamento dei dati, mentre spetta al convenuto la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno (Cass. 5 settembre 2014, n. 18812; Cass. 26 giugno 2012, n. 10616).
2.12. – Da quanto fin qui esposto si desume l’erroneità della statuizione preliminare della sentenza impugnata – che ne costituisce il presupposto ermeneutico fondante – di improponibilità della prima e principale domanda proposta in sede giurisdizionale dalla ricorrente – sulla premessa dell’inottemperanza della datrice di lavoro ai provvedimenti del Garante – onde ottenere, in sede giurisdizionale, quanto non era riuscita ad ottenere né con richiesta diretta alla TELECOM ITALIA né per effetto dei provvedimenti (favorevoli) del Garante ed ottenere anche la consequenziale – e facilitata – tutela risarcitoria, statuizione basata sull’assunto – sbagliato, per quanto si è detto – dell’identità dell’oggetto di tale domanda con la pretesa fatta valere con il ricorso proposto al Garante per la protezione dei dati personali.
Questo porta all’accoglimento del quinto motivo di ricorso.
Tanto basta, di per sé, a caducare la sentenza impugnata, siccome emessa su un presupposto erroneo, che, per la sua assoluta pregiudizialità ha influenzato l’intero iter processuale anche con riguardo alla ripartizione dell’onere probatorio – sicché ne deriva l’assorbimento di tutti gli altri motivi, sostanziali e processuali, del ricorso (vedi: Cass. 11 ottobre 2005, n. 19757; Cass. 20 marzo 2014, n. 6531).
III- Conclusioni
3.- In sintesi, il quinto motivo di ricorso deve essere accolto, per le ragioni dianzi esposte e con assorbimento di tutti gli altri motivi.
La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le spese dei presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati e, quindi, anche ai seguenti:
1) in materia di trattamento dei dati personali, il principio della alternatività del ricorso all’autorità giudiziaria rispetto al ricorso al Garante, previsto nell’ipotesi in cui entrambe le suddette iniziative abbiano il “medesimo oggetto per essere compatibile con l’art. 24 Cost. deve essere inteso in senso specifico e conforme ai principi generali del diritto processuale e quindi nel senso che può applicarsi solo quando la domanda proposta in sede giurisdizionale e quella proposta in sede amministrativa (con ricorso al Garante) siano tali che in ipotesi di contestuale pendenza davanti a più giudici, potrebbero, in via generale, essere assoggettate al regime processuale della litispendenza o della continenza. Ne consegue che tutte le volte che, in sede giurisdizionale, si fa valere l’inottemperanza da parte del gestore dei dati personali rispetto ai provvedimenti assunti dal Garante e/o viene proposta una domanda di risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale – che è riservata all’esame del giudice ordinario e che comunque ha causa petendi e petitum specifici e del tutto diversi rispetto alle ragioni fatte valere con il ricorso al Garante – non può certamente ipotizzarsi l’applicazione del suddetto principio di alternatività delle tutele (vedi: Cass. 17 settembre 2014, n. 19534);
2) il diritto soggettivo del lavoratore di accedere al proprio fascicolo personale è tutelabile in quanto tale perché si tratta di una posizione giuridica soggettiva che trae la sua fonte dal rapporto di lavoro (arg. ex Cass. SU 4 febbraio 2014, n. 2397). L’obbligo del datore di lavoro di consentirne il pieno esercizio, prima ancora che nella legge n. 675 del 1996 (nella specie applicabile ratione temporisì. deriva dal rispetto dei canoni di buona fede e correttezza che incombe sulle parti del rapporto di lavoro ai sensi degli artt. 1175 e 1375 cod. civ., come, del resto è confermato dal fatto che, da tempo, la contrattazione collettiva dei diversi settori prevede che i datori di lavoro debbano conservare, in un apposito fascicolo personale, tutti gli atti e i documenti, prodotti dall’ente o dallo stesso dipendente, che attengono al percorso professionale, all’attività svolta ed ai fatti più significativi che lo riguardano e che il dipendente ha diritto di prendere visione liberamente degli atti e documenti inseriti nel proprio fascicolo personale. Ciò non esclude – ma anzi rafforza – il diritto del lavoratore di rivolgersi al Garante per la protezione dei dati personali tutte le volte in cui intenda ottenere, in tempi ragionevoli, alcuno dei provvedimenti – di natura provvisoria o definitiva – previsti dall’art. 13 della legge n. 675 del 1996 cit. al fine di ottenere, ad esempio, l’integrazione dei dati personali detenuti dal datore di lavoro con documenti ulteriori, che attestino valutazioni di merito o che comunque a suo avviso rilevino in ogni caso, restando salva la discrezionalità del datore circa le modalità di utilizzo di dette integrazioni.
3) il diritto riconosciuto ai lavoratori dipendenti di ottenere che le valutazioni datoriali su rendimento e capacità professionale, espresse con le note di qualifica, siano formulate nei rispetto dei parametri oggettivi previsti dal contratto collettivo e degli obblighi contrattuali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375, cod. civ., oltre che della inerente necessaria trasparenza può essere fatto valere in sede giudiziaria – pure a prescindere da un immediato effetto negativo subito, venendo in considerazione la tutela della dignità del lavoratore – onde ottenere il controllo da parte del giudice della conformità del procedimento seguito per la formulazione delle suindicate valutazioni ai suddetti parametri, gravando sul datore di lavoro l’onere di motivare le note di qualifica medesime, per permettere lo svolgimento di tale controllo giudiziale, il quale non è limitato alla mera verifica della coerenza estrinseca del giudizio riassuntivo della valutazione, ma ha ad oggetto la verifica della correttezza del procedimento di formazione del medesimo. Sicché esso richiede di prendere in esame ì dati sia positivi che negativi rilevanti al fine della valutazione, non potendo invece tenersi conto di quelli estranei alla prestazione lavorativa (Cass. 20 giugno 2003, n. 9898; (Cass. 9 gennaio 2001, n. 206; Cass. 8 agosto 2000, n. 10450), comportando la violazione del suddetto obbligo datoriale la conseguenza, che, la valutazione stessa debba ritenersi non avvenuta (Cass. 22 agosto 2001, n. 11207).

P.Q.M.

La Corte accoglie il quinto motivo di ricorso, assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte, e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione.
Cosi deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 21 gennaio 2016.

Lascia un commento