Repertorio Salute

Cassazione Civile, Sez. Lav., 09 novembre 2015, n. 22823

Nessun superamento del periodo di comporto: vanno esclusi i periodi di assenza per infortunio e per malattia professionale.


Presidente: Venuti
Relatore: Berrino

Fatto

Con sentenza del 4.2 – 11.3.2014 la Corte d’appello di Catanzaro, accogliendo l’impugnazione di S.R. avverso la sentenza dei Tribunale di Cosenza che gli aveva respinto la domanda tesa all’accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimatogli il 21.10.1997 dalla società L. s.r.l., ha riformato tale decisione, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento ed ha condannato l’appellata al risarcimento del danno e al pagamento di quindici mensilità dell’ultima retribuzione, avendo il lavoratore rinunziato alla richiesta di reintegra.
Ha spiegato la Corte che nel caso di specie era stato provato che una consistente parte delle assenze indicate nella lettera di licenziamento per superamento del periodo di comporto era riconducibile alla patologia oculistica per la quale era stata riconosciuta, in altro giudizio coperto da giudicato, natura professionale, per cui non era stato superato il periodo di comporto di dodici mesi. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società L. s.r.l. in liquidazione con tre motivi.
Resiste con controricorso il Soranna.

Diritto

1. Col primo motivo la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 42, lettera B), del CCNL di settore.
Assume la ricorrente che la Corte d’appello avrebbe erroneamente interpretato la citata disposizione collettiva, posto che le assenze per infortunio e per malattia professionale vanno incluse, contrariamente a quanto affermato nell’impugnata sentenza, nel computo del comporto breve. Inoltre, i certificati medici del dott. A., che secondo la Corte attestavano un periodo continuativo di oltre sette mesi di assenza per malattia professionale, sarebbero stati, invece, utilizzati dal lavoratore al solo fine di corredare la richiesta inoltrata all’Inail in sede amministrativa per il riconoscimento della suddetta malattia. In tal modo la Corte avrebbe sottratto dal computo del periodo di comporto sia i ventisei giorni dei periodo di infortunio, sia quelli della malattia professionale, pervenendo erroneamente ad affermare che i giorni computabili ai fini del comporto breve di dodici mesi erano in numero di 152 e a ritenere, conseguentemente, l’illegittimità del licenziamento per mancato superamento del predetto periodo di comporto. Tuttavia, aggiunge la ricorrente, sul punto non era stata formulata una domanda giudiziale, così come non vi era stata impugnativa e così come non era stata fornita la prova dell’esistenza di una malattia professionale che giustificasse il comporto lungo, il cui riconoscimento era stato, comunque, respinto dall’Inail. Infine, vi era stato travisamento dei fatti, in quanto la certificazione della malattia dal 7/3/1997 al 21/10/1997 era stata attestata dal dott. Ar. e non dal dott. A..
2. Col secondo motivo la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 42, lett. b), del c.cn.l., degli artt. 2697 e 1362 e segg. cod. civ., degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché dell’erronea valutazione delle risultanze istruttorie, del travisamento dei fatti e dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
Si reiterano, con tale motivo, sia la censura dell’erronea interpretazione della summenzionata norma collettiva che, secondo la ricorrente, prevede la computabilità delle assenze per infortunio e malattia professionale nel periodo di comporto, sia la doglianza dell’emissione della pronunzia di illegittimità del licenziamento per superamento del comporto breve quando, secondo la tesi difensiva, l’oggetto della domanda riguardava l’accertamento del diritto al comporto lungo di quaranta mesi.
Osserva la Corte che i primi due motivi del ricorso possono essere esaminati unitariamente per ragioni di connessione.
Orbene, gli stessi sono infondati.
Invero, va subito precisato che non sussiste il denunziato vizio di ultrapetizione in quanto la Corte d’appello, dopo aver dato atto della circostanza che la tesi difensiva del lavoratore era nel senso che non potesse applicarsi il periodo di comporto di dodici mesi, bensì quello superiore di quaranta mesi, previsto dalla medesima disposizione contrattuale per le assenze dal lavoro dovute a malattia professionale, ha liberamente valutato gli elementi istruttori che le erano stati offerti in giudizio alla luce della norma collettiva di riferimento ed è pervenuta al convincimento, adeguatamente motivato, che determinati periodi di assenza, quali quelli per infortunio e per malattia professionale, non potevano essere considerati ai fini del computo del periodo di comporto.
Ne consegue che l’accertamento del mancato superamento di un periodo di comporto più breve di quello indicato dalla parte non comporta affatto un vizio di ultrapetizione della pronunzia, atteso che nell’emetterla la Corte territoriale si è attenuta esattamente agli elementi di fatto sottoposti alla sua indagine e li ha semplicemente valutati in maniera diversa e più favorevole al lavoratore, la cui domanda era in ogni caso volta alla declaratoria di illegittimità dl licenziamento subito per superamento del periodo di comporto.
Quanto alla questione della supposta interpretazione erronea della norma collettiva sul comporto si evidenzia che la stessa denota un evidente profilo di improcedibilità, atteso che la ricorrente non ha prodotto il testo integrale dei citato accordo collettivo, contravvenendo, in tal modo, al chiaro disposto dell’art. 369, comma secondo, n. 4 c.p.c.
Oltretutto, non può non rilevarsi che la produzione stessa del suddetto contratto collettivo non è nemmeno indicata tra gli atti annoverati in calce al presente ricorso, subito dopo le conclusioni.
Si concretizza, in tal modo, una evidente causa di improcedibilità, atteso che le questioni poste non possono prescindere dalla disamina della normativa collettiva di riferimento, espressamente richiamata a sostegno dei motivi in questione.
Al riguardo l’orientamento espresso dalle sezioni unite di questa Corte con la pronuncia n. 20075 del 23/9/2010 è ormai consolidato e, comunque, la ricorrente non dichiara di aver prodotto in questa sede, ancorché nei fascicoli di parte del giudizio di merito, il suddetto contratto collettivo, la cui disamina è indispensabile ai fini della verifica della fondatezza delle relative censure.
Si è, infatti, statuito (Cass. sez. lav. n. 15495 del 2/7/2009) che “l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi su cui il ricorso si fonda – imposto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., nella nuova formulazione di cui al d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 – non può dirsi soddisfatto con la trascrizione nel ricorso delle sole disposizioni della cui violazione il ricorrente si duole attraverso le censure alla sentenza impugnata, dovendosi ritenere che la produzione parziale di un documento sia non solamente incompatibile con i principi generali dell’ordinamento e con i criteri di fondo dell’intervento legislativo di cui al citato d.lgs. n. 40 del 2006, intesi a potenziare la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, ma contrasti con i canoni di ermeneutica contrattuale dettati dagli artt. 1362 cod. civ. e seguenti e, in ispecie, con la regola prevista dall’art. 1363 cod. civ., atteso che la mancanza del testo integrale del contratto collettivo non consente di escludere che in altre parti dello stesso vi siano disposizioni indirettamente rilevanti per l’interpretazione esaustiva della questione che interessa.”
La produzione dell’intero testo del contratto collettivo era altresì necessaria in considerazione del fatto che il controricorrente lamenta che la ricorrente ha richiamato una previsione contrattuale diversa da quella applicata dal giudice del gravame.
Sono, invece, inammissibili le doglianze attraverso le quali è dedotto un travisamento dei fatti con riferimento alla provenienza ed alle finalità dei certificati medici esaminati dalla Corte d’appello, posto che la nuova formulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., introdotta dall’art. 54, comma 1, lett. b) del d.l. n. 83 del 22.6.2012, convertito nella legge n. 134 del 7.8.2012, applicabile “ratione temporis” nella fattispecie, prevede che l’omesso esame deve riguardare un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
Al riguardo si è già statuito (Cass. Sez. 6 – 3, n. 12928 del 9/6/2014) che “in tema di ricorso per cassazione, dopo la modifica dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ. ad opera dell’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili.”
3. Col terzo motivo la ricorrente si lamenta della violazione e falsa applicazione dell’art. 132, n. 4 c.p.c., dell’art. 18 della legge n. 300/1970 e del difetto assoluto di motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
In concreto la ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello si è limitata esclusivamente, nella parte dispositiva della sentenza, a condannarla cumulativamente al risarcimento ex art. 18, comma 5, della legge n. 300/70 nella misura di quindici mensilità in sostituzione dell’originaria domanda di reintegra ed al pagamento di tutte le retribuzioni globali di fatto dovute dalla data del licenziamento a quella del deposito del ricorso d’appello, senza fornire una motivazione al riguardo. Sostiene, invece, la ricorrente che tutt’al più la condanna non avrebbe potuto superare la soglia delle ventotto mensilità residue nel raffronto tra il comporto lungo di quaranta mesi e quello breve di dodici mesi. Inoltre, secondo la difesa della ricorrente, la Corte di merito non aveva considerato, ai fini della determinazione dei risarcimento, che l’attività imprenditoriale era cessata nel mese di luglio del 2002 e che sin dal mese di marzo del 1997 il Soranna percepiva la rendita per invalidità a carico dell’Inail.
II motivo è infondato.
Invero, la Corte di merito ha chiaramente spiegato che non sussiste incompatibilità tra la condanna al pagamento delle 15 mensilità, di cui al quinto comma dell’art. 18 della legge n. 300/70, in sostituzione della reintegra originariamente richiesta dal lavoratore, e quella al risarcimento del danno nella misura della retribuzione globale di fatto dovuta dal giorno dei licenziamento a quello dei deposito del ricorso d’appello.
Il fatto che si tratti di due condanne risarcitorie basate su titoli autonomi lo si ricava proprio dalla lettura dei quarto e dei quinto comma dell’art. 18 della legge n. 300 dei 1970, così come evidenziato anche nell’impugnata sentenza. Infatti, il diritto al risarcimento del danno previsto dal quarto comma del citato art. 18, cioè quello conseguente al licenziamento dichiarato invalido o inefficace, decorrente dal licenziamento all’effettiva reintegra, è fatto espressamente salvo dal successivo quinto comma che contempla la facoltà per il lavoratore di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto.
Né ha pregio il rilievo incentrato sulla mancata considerazione della cessazione dell’attività imprenditoriale, atteso che la Corte di merito ha correttamente evidenziato con riguardo alla segnalata procedura di mobilità avviata nel marzo dei 2002 che si trattava di circostanza priva di rilievo nel giudizio in corso: infatti, questo aveva ad oggetto la verifica della legittimità o meno dei licenziamento e delle sue conseguenze.
Egualmente infondata è la doglianza inerente alla mancata considerazione, ai fini della determinazione dei danno, della fruizione, da parte dei lavoratore, di una rendita erogatagli dall’Inail, sia perché nel ricorso non è spiegato, in spregio al principio di autosufficienza che governa il giudizio di legittimità, in quale fase dei procedimento ed in quali termini fu formulata una tale eccezione, sia perché l’erogazione di una rendita per inabilità dell’inail assolve ad una funzione di natura assistenziale che è diversa da quella ristoratrice perseguita dal risarcimento dei danno previsto dall’art. 18 della legge n. 300/70 in conseguenza dell’accertata illegittimità del licenziamento.
Pertanto il ricorso va rigettato.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo.
Ricorrono i presupposti per il pagamento dei contributo unificato di cui in dispositivo da parte della ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di € 3500,00 per compensi professionali e di € 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater dei d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

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