Il dipendente demansionato ha diritto a risarcimento, quantificato in base al tempo in cui la sua professionalità risulta essere stata effettivamente compressa.
Massime precedenti:
Sentenza n. 6326 del 23 marzo 2005
(rev. 581071) La equivalenza delle mansioni, che condiziona la legittimità dell’esercizio dello “ius variandi”, a norma dell’art. 2103 cod. civ. – e che costituisce oggetto di un giudizio di fatto incensurabile in cassazione, ove sorretto da una motivazione logica, coerente e completa – va verificata sia sul piano oggettivo, e cioè sotto il profilo della inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione, sia sul piano soggettivo, in relazione al quale è necessario che le due mansioni siano professionalmente affini, nel senso che le nuove si armonizzino con le capacità professionali già acquisite dall’interessato durante il rapporto lavorativo, consentendo ulteriori affinamenti e sviluppi. (Nella specie la Corte Cass. ha confermato la sentenza di merito che aveva riconosciuto il demansionamento per un lavoratore – dipendente di banca – che, originariamente assegnato all’ufficio sistemi informativi e poi all’ufficio ragioneria, dove si occupava sempre dell’inserimento dei dati, per quattro anni era stato destinato all’ufficio corriere, dove smistava la corrispondenza, prelevava pratiche e fotocopiava documenti).
(rev. 581072) Qualora il lavoratore, agendo in giudizio per il danno derivante da demansionamento, chieda anche la componente di danno alla vita di relazione o cosiddetto danno biologico deducendo sin dall’atto introduttivo la lesione della propria integrità psico – fisica in relazione, non solo al demansionamento, ma anche al globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro, la successiva qualificazione come “mobbing” del suddetto comportamento, non comporta domanda nuova ma solo diversa qualificazione dello stesso fatto giuridico, in considerazione della mancanza di una specifica disciplina del “mobbing” e della sua riconduzione (anche secondo la sent. della Corte cost. n. 359 del 2003) alla violazione dei doveri del datore di lavoro, tenuto, ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., alla salvaguardia sul luogo di lavoro della dignità e dei diritti fondamentali del lavoratore.