Cassazione Civile, Sez. Lav., 09 settembre 2015, n. 17837

Computabilità nel periodo di comporto delle assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale.


 

Presidente: AMOROSO GIOVANNI
Relatore: DORONZO ADRIANA
Data pubblicazione: 09/09/2015

Fatto

1. La Corte d’Appello di Torino, con sentenza depositata il 23/3/2009, rigettò l’appello proposto da A.Z. contro la sentenza resa dal Tribunale di Verbania, che aveva respinto la domanda proposta dall’appellante, avente ad oggetto la dichiarazione di illegittimità della cessazione dell’incarico a tempo indeterminato disposto nei suoi confronti dalla Asl 14 con deliberazione n. 50 del 15/11/2005 per superamento del periodo massimo di malattia, con i conseguenti effetti ripristinatori e di ordine economico e contributivo.
2. La Corte ritenne che l’assenza dal lavoro della Z.A. – medico specialista ambulatoriale di ostetricia e ginecologia nel distretto di Verbania della ASL 14 VCO presso l’ambulatorio di Stresa – protrattasi “dal 5/11/2003 al 9/11/2003 e dal 20/11/2003 ininterrottamente sino al 15/11/2005”, come indicato nel provvedimento di cessazione del rapporto (pag. 12 sentenza impugnata) -, superava il periodo cosiddetto di “comporto” di ventiquattro mesi, previsto dall’art. 19, comma 4, lett. e) del ACN 23 marzo 2005, che, nel rinviare all’art. 37, equiparava le assenze per malattia a quelle per infortunio; che, inoltre, la ricorrente non aveva dimostrato che l’infermità da cui era affetta era stata causata dalla nocività delle mansioni o dell’ambiente di lavoro e che fosse imputabile a responsabilità del datore di lavoro, che aveva omesso di prevenire o eliminare fattori di rischio o che era venuto meno all’obbligo generale di tutela dell’integrità fìsica del lavoratore previsto dall’art. 2087 cc. Sul punto, la Corte osservò che non emergevano elementi per ritenere provato il nesso causale tra l’episodio verificatosi nell’ottobre 2002 presso l’ambulatorio di Stresa (esposizione ad inalazioni di vapori di aldeide glutarica) e la malattia alla laringe manifestatasi oltre un anno dopo (novembre 2003) e che aveva determinato la sua assenza dal servizio ininterrottamente nei giorni su indicati. Tanto sulla base del lungo lasso temporale intervenuto tra la verificazione dell’infortunio e la manifestazione della laringopatia, dell’assenza di sintomi per un anno, nonché del fatto che la sintomatologia analoga a quella già manifestatasi nell’ottobre del 2002 si era ripresentata, dopo un periodo di remissione di un anno (novembre 2003), solo a seguito dell’inalazione da parte della stessa di vapori di vernice nell’ambulatorio di Verbania, dove si stavano svolgendo lavori di tinteggiatura interna. La Corte escluse altresì la nocività dell’ambiente di lavoro poiché non era stata provata, in termini di apprezzabile probabilità, la presenza di aldeide glutarica in misura superiore al valore soglia TLV-STEL, che rappresentava il limite massimo di concentrazione della sostanza cui un lavoratore può essere esposto, considerato inoltre che, in quell’occasione, le altre persone presenti nel consultorio non avevano accusato alcun sintomo di tossicità.
3. Contro la sentenza, la Z.A. propone ricorso per cassazione sostenuto da sei motivi, illustrati da memoria, cui resiste la ASL con controricorso.

Diritto

1. Con il primo motivo la ricorrente censura la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 37 e 19 dell’ACN per i medici specialisti ambulatoriali del Servizio sanitario nazionale, sottoscritto il 9/2/2005 e ratificato dalla Conferenza Stato-Regioni con provvedimento del 23/3/2005, anche in relazione all’art. 2110 cc. e agli artt.1363 e 1367 cc. Assume che l’interpretazione data dalla Corte territoriale all’art. 19, comma 4°, lett. e) dell’ACN era in contrasto col dato letterale, che prevedeva la revoca dell’incarico con effetto immediato “per aver compiuto il periodo massimo di conservazione del posto previsto dal successivo art. 37 in caso di malattia”. Il successivo art. 37, rubricato “Malattia-gravidanza”, nel prevedere il trattamento economico spettante allo specialista ambulatoriale e al professionista incaricato a tempo indeterminato nel caso di assenza (anche) per comprovata malattia o infortunio e nel contemplare quest’ultimo evento, non previsto invece nell’art. 19, rendeva evidente la volontà delle parti di escludere ogni suo rilievo ai fini del calcolo del comporto. Ciò del resto era conforme a quanto dispone l’art. 2110 cc. il quale equipara l’infortunio e la malattia, ma solo in difetto di contraria o comunque diversa previsione della contrattazione collettiva. Peraltro, in caso di infortunio, la ASL era comunque legittimata a recedere dall’incarico a tempo indeterminato, ma solo attivando la procedura prevista dalla lettera f) dell’art. 19, comma 4°, riguardante l’incapacità psicofisica del dipendente (procedura mai attivata nel caso di specie) e tanto costituiva ulteriore indice della volontà delle parti collettive di escludere le assenze per infortunio dal calcolo del periodo di comporto.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo della controversia, costituito dall’aver incluso nel calcolo del periodo di comporto le assenze relative al periodo dal 11/2/2004, oggetto di un provvedimento disciplinare adottato nel suoi confronti per assenza ingiustificata dal servizio per il periodo dall’11/2/2004, senza considerare che tale provvedimento era stato annullato dalla Corte d’appello di Torino, con sentenza n. 905/2008, circostanza questa dedotta nel giudizio di appello.
3. Con il terzo e il quarto motivo, illustrati unitariamente, la ricorrente denuncia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo della controversia, nonché la nullità della sentenza o del procedimento (art. 360, comma 1°, nn. 5 e 4, c.p.c): in particolare la qualificazione dell’evento occorso nell’ottobre del 2002 a Stresa come infortunio e la riconducibilità ad esso della sintomatologia successiva erano state apprezzate dal giudice senza considerare la documentazione da lei prodotta, in particolare le perizie tecniche, e senza ammettere le richieste istruttorie avanzate nel ricorso introduttivo del giudizio. Deduce che il giudice di prime cure, dopo aver ammesso le prove testimoniali, aveva revocato la relativa ordinanza e deciso nel merito, trascurando di esaminare la perizia di parte, redatta dal professor A., la documentazione medica da lei offerta in comunicazione e le sommarie informazioni rese da altri soggetti, e non attivando i poteri istruttori previsti dagli artt. 421 c.p.c. e 424 c.p.c. Per contro, la decisione era tutta fondata sulla relazione del consulente del pubblico ministero, mai acquisita agli atti del giudizio, ma semplicemente richiamata nell’ordinanza di archiviazione del giudice penale e priva di ogni valenza accertativa.
4. Con il quinto ed il sesto motivo, anch’essi trattati unitariamente, la ricorrente deduce il vizio motivazionale, ai sensi dell’art. 360, comma 1°, n. 5 c.p.c. sotto il profilo della responsabilità della ASL per nocività dell’ambiente di lavoro, nonché la nullità della sentenza o del procedimento (art. 360, comma 1°, n. 4, c.p.c), e censura la scelta dei giudici del merito di non disporre ulteriori accertamenti tecnici, pur essendo emerso che nell’ottobre del 2002 vi era stata un’esalazione di sostanze tossiche nell’ambulatorio di ginecologia, ripetutasi il 18 ottobre successivo e rilevata da un tecnico che, in sede di sopralluogo, aveva constatato la fuoriuscita di esalazioni da una macchina per lo sviluppo delle lastre radiografiche. Il riferimento ai valori-soglia era del tutto inappropriato perché ciò non escludeva la relatività di tali termini, rapportati ad una durata media di esposizione nell’arco della giornata, e perché non considerava le sintomatologie accusate dalle altre persone presenti quel giorno nell’ambulatorio. A ciò doveva aggiungersi che ilDM del 27/4/2004 contemplava nell’elenco delle malattie di origine lavorative, per le quali è obbligatoria la denuncia all’ASL, all’ INAIL e all’ispettorato del lavoro, tracheobronchiti, congiuntiviti, dermatiti irritative da contatto, asma bronchiale, dermatite allergica da contratto in caso di contatto con glutaraldeide, formaldeide e altre sostanze. A fronte di questo quadro istruttorio i giudici del merito avrebbero dovuto disporre una consulenza tecnica d’ufficio. E ancora, la Corte di appello non aveva considerato la “relazione S.” (ovvero quel documento in cui il tecnico della manutenzione aveva constatato il malfunzionamento di una macchina), alterata dal dottor B., con aggiunte a penna tese a contestare quanto accertato dal tecnico, che non era presente a Stresa il giorno in cdui la nota era stata redatta. Tali elementi, complessivamente valutati, avrebbero dovuto indurre il giudice a ritenere provato il guasto del macchinario e quindi sussistente la responsabilità della ASL sotto il profilo della violazione delle norme di cui all’art. 2087 cc.
5. Il primo motivo è infondato.
Ai fini del superamento del periodo di comporto contrattuale, che legittima il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, la normativa legale non distingue tra assenze per malattia ed assenze per infortunio, se tale sommatoria non sia anche espressamente esclusa dalla disciplina pattizia (Cass., 28 novembre 2008, n.28460; Cass., 12 maggio 2005, n. 9968; Cass., 16 giugno 1998, n. 6001; Cass., 8 maggio 1998, n. 4718; Cass. 28 gennaio 1997, n. 860; Cass. 12 ottobre 1988, n. 5501).
5.1. La Corte territoriale ha interpretato il disposto dell’art. 19, comma 4, lettera e) dell’ ACN 23/3/2005, il quale disciplina la revoca immediata dell’incarico dello specialista ambulatoriale o del professionista “per aver compiuto il periodo massimo di conservazione del posto previsto dal successivo art. 37 in caso di malattia”, ritenendo che essa non deroghi al principio legale sopra enunciato alla stregua di un’interpretazione logico-sistematica. In particolare, ha sottolineato che, benché tale norma riporti solo la parola “malattia”, mentre il successivo art. 37 disciplina il trattamento economico anche nel caso di assenza per infortunio, proprio il rinvio a quest’ultima disposizione, operato dall’art. 19, rendeva evidente la volontà delle parti collettive di attribuire al termine “malattia” un significato onnicomprensivo, volto a indicare non già la causa dell’incapacità lavorativa, che può indifferentemente consistere in una patologia personale non connessa all’espletamento dell’attività lavorativa o in lesioni scaturite da un infortunio, ma il dato dell’assenza in sé considerato.
5.2. A conferma di tale interpretazione, la Corte sottolinea che lo stesso art. 37 è riduttivamente rubricato “Malattia-Infortunio”, nonostante che in esso vengano disciplinate tutte le varie ipotesi di assenza (gravidanza, puerperio, adozione di minore, assenze per gravi patologie croniche, per donazioni di organi), a conferma della valenza generica e meramente indicativa dei termini utilizzati per disciplinare le assenze dal servizio.
5.3. Deve aggiungersi che lo stesso primo comma dell’art. 37, nel disciplinare il trattamento economico dovuto al dipendente che si assenta dal servizio “per comprovata malattia o infortunio”, pone i due eventi sullo stesso piano, prevedendo un unico trattamento (l’intera retribuzione per i primi sei mesi, il 50% per i successivi tre mesi e l’assenza di retribuzione “per gli ulteriori 15 mesi”) e riconosce il diritto alla conservazione dell’incarico per la durata di ventiquattro mesi, senza distinguere tra le due ipotesi, come può desumersi dall’uso della disgiuntiva “o”. Si conferma perciò pure per tale via la volontà delle parti di equiparare, anche ai fini del calcolo del periodo di comporto, i due eventi.
Del resto, la tesi restrittiva sostenuta dalla ricorrente finirebbe per privare il datore di lavoro del potere di disporre, per il caso di assenze per infortunio per una durata eccedente il periodo di conservazione del posto, l’immediata revoca dell’incarico dello specialista o del professionista, e ciò in contrasto con la disciplina legale prevista dall’art. 2110 cc, oltre che con il preciso dettato dell’art. 37, che limita, come si è detto, a ventiquattro mesi il diritto del dipendente di conservare il posto di lavoro in caso di infortunio. Né vale osservare che tale diritto di revoca sarebbe riconosciuto dalla successiva lettera f) dell’art. 19, riguardando questa disposizione l’ipotesi, del tutto distinta, dell’incapacità psicofisica dello specialista (o del professionista) di svolgere attività convenzionale, atteso che il superamento del periodo di comporto attiene al protrarsi nel tempo di uno stato di malattia a carattere transitorio (o, comunque, non necessariamente irreversibile), mentre l’inidoneità fisica attiene all’esistenza di una condizione permanente a carattere irreversibile, concernente l’incapacità del lavoratore a svolgere le prestazioni tipiche delle sue mansioni, che prescinde pertanto dalla durata dell’assenza (sulla diversità tra le due ipotesi, Cass., 20 gennaio 2011, n. 1250).
6. Il secondo motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza. La Corte ha dato atto che il periodo di assenza che ha giustificato la revoca dell’incarico va dal 5/11/2003 al 9/11/2003 e dal 20/11/2003, ininterrottamente, sino al 15/11/2005. Nella sentenza non vi è alcun cenno all’annullamento del provvedimento disciplinare adottato nei confronti della lavoratrice per assenza dal lavoro ingiustificata, e in particolare alla sentenza della Corte d’appello di Torino che avrebbe annullato il detto provvedimento. Era dunque onere della ricorrente, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta sua deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di trascrivere gli esatti termini in cui la questione sarebbe stata sottoposta al giudice, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass., ord., 18 ottobre 2013, n.23675; Cass.,11 gennaio 2007, n. 324). Deve aggiungersi che la parte non trascrive il contenuto della sentenza, né la deposita unitamente al ricorso per cassazione e neppure fornisce utili e chiari elementi per il suo facile reperimento nei fascicoli di parte o d’ufficio nelle pregresse fasi del giudizio. Ciò in palese violazione degli oneri posti dagli artt. 366, comma 1°, n. 6 c.p.c. e 369, comma 2°, n. 4 c.p.c, nella pacifica interpretazione che ne danno le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., 3 novembre 2011, n. 22726).
7. Il terzo ed il quarto motivo, che si trattano congiuntamente in quanto involgono le medesime questioni, sono inammissibili anch’essi per difetto di autosufficienza. Ed invero, al fine di ritenere integrato il requisito della cosiddetta autosufficienza del ricorso per cassazione, quando esso concerna la valutazione da parte del giudice di merito di atti processuali o di documenti, è necessario specificare la sede in cui nel fascicolo d’ufficio o in quelli di parte essi siano rinvenibili, sicché, in mancanza, il ricorso è inammissibile per l’omessa osservanza del disposto di cui all’art. 366, primo comma, n. 6), cod. proc. civ. (Cass., ord., 24 ottobre 2014, n. 22607; Cass., 9 aprile 2013, n. 8569).)
7.1. Nel caso in esame, la parte si duole dell’erronea valutazione da parte del Tribunale, prima, e della Corte d’appello, poi, delle risultanze istruttorie, ma omette di trascriverne il contenuto e, soprattutto, di indicare dove le stesse sarebbero reperibili all’interno dei fascicoli delle pregresse fasi del giudizio. In particolare, è inammissibile la censura relativa alla mancata ammissione nel giudizio di primo grado della prova testimoniale, dal momento che di tale questione non vi è cenno nella sentenza impugnata e la parte non indica se ed in che termini essa sia stata portata alla cognizione del giudice dell’appello, attraverso un pertinente e specifico motivo di gravame. La ricorrente, inoltre, non fornisce dati per il reperimento in questa sede dei provvedimenti di ammissione e di revoca della prova adottati dal Tribunale.
7.2. Il difetto di autosufficienza è riscontrabile anche con riguardo all’omessa o erronea valutazione da parte della Corte territoriale della consulenza tecnica di parte, redatta dal Dott. A., la quale non solo non è trascritta nella sua integrità, ma neppure si precisa dove la stessa sarebbe attualmente rinvenibile. Altrettanto va detto con riferimento alle sommarie informazioni rese dalla signora B., dalla dottoressa F., nonché al provvedimento di archiviazione in sede penale. E anche con riguardo alla dedotta violazione degli artt. 421 e 424 c.p.c, circa la mancata attivazione da parte del giudice dei suoi poteri istruttori, la parte omette di indicare gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività di detta violazione (Cass., 19 aprile 2006, n. 9076).
7.3. L’inosservanza del duplice onere imposto dagli artt. 366, comma 1°, n. 6, e 369, comma 2°, n. 4, c.p.c. (cfr. Cass., Cass., 12 dicembre 2014, n. 26174; Cass., 7 febbraio 2011, n. 2966) è aggravata dal fatto che il ricorso manca di un indice da cui possa rilevarsi l’avvenuto deposito, unitamente al ricorso medesimo, dei fascicoli di parte delle pregresse fasi del giudizio, né risulta depositata l’istanza di trasmissione dei fascicoli d’ufficio rivolta al cancelliere del giudice a quo, munita del relativo visto.
8. Il quinto ed il sesto motivo sono infondati, oltre a presentare gli stessi profili di inammissibilità su evidenziati.
8.1. Sembra opportuno richiamare i principi affermati da questa Corte, secondo cui la computabilità nel periodo di comporto delle assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale non si verifica nelle ipotesi in cui l’infortunio sul lavoro o la malattia professionale non solo abbiano avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e comunque presenti nell’ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell’attività lavorativa, ma altresì quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all’obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. In tali ipotesi, infatti, l’impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui la detta prestazione è destinata (Cass., 28 marzo 2011, n. 7037). Si precisa inoltre che è onere della parte provare il collegamento causale tra la malattia che ha determinato l’assenza ed il carattere morbigeno delle mansioni svolte (Cass.,7 aprile 2003, n. 5413; Cass., 23/04/2004, n. 7730; Cass., 25 novembre 2004, n. 22248; Cass., 30 agosto 2006, n. 18711; Cass., 7 aprile 2011, n.7946).
8.2. In applicazione degli esposti principi di diritto, la Corte territoriale ha ritenuto non imputabile a responsabilità del datore di lavoro la malattia della lavoratrice, essenzialmente perché non era risultato provato il collegamento causale tra la malattia e l’episodio avvenuto nell’ottobre del 2002, nonché la nocività dell’ambiente di lavoro. La Corte, come si è già riferito nella parte narrativa della presenta sentenza, ha posto a base del suo convincimento una serie di elementi di fatto (il notevole lasso di tempo tra l’episodio di esalazione dell’ottobre 2002 e la manifestazione della laringopatia che aveva determinato le assenze, la mancanza di sintomi nel periodo intermedio, i bassi valori di aldeide glutarica rilevati nell’ambulatorio, confermati dalla mancanza di reazioni patologiche a carico degli altri presenti), supportati da precisi riscontri istruttori.
8.3. Tale accertamento, in quanto coerente ed esaustivo e privo di errori logici, è insindacabile in questa sede, dovendosi rammentare che la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia  evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass., Sez. Un., 25 ottobre 2013, n. 24148). Deve inoltre aggiungersi che, in tema di prova, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorie le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (cfr. Cass., 15 luglio 2009, n. 16499; Cass., 13 giugno 2014, n.13485).
9. Il definitiva, il ricorso deve essere rigettato. In applicazione del criterio della soccombenza, le spese del presente giudizio devono essere poste a carico della ricorrente, nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in € 100,00 per esborsi e € 3.000,00, per compensi professionali, oltre spese generali e altri accessori di legge.
Roma, 26 maggio 2015

Lascia un commento