Cassazione Civile, Sez. Lav., 10 giugno 2016, n. 11981

Malattia professionale e onere della prova. L’art. 2087 c.c. non configura nessuna forma di responsabilità oggettiva.


Presidente: VENUTI PIETRO
Relatore: CAVALLARO LUIGI
Data pubblicazione: 10/06/2016

Fatto

Con sentenza depositata il 13.1.2010, la Corte d’appello di Catania confermava la statuizione di prime cure che aveva rigettato la domanda proposta da A.C. per conseguire dall’Azienda Municipalizzata Trasporti Catania (di seguito, AMT) il risarcimento dei danni patiti a cagione della malattia da cui era affetto e la cui insorgenza aveva ricollegato alla violazione da parte dell’azienda dell’alt. 2087 c.c.
Contro questa sentenza ricorre A.C. affidandosi ad un unico motivo di ricorso, articolato in plurimi profili di censura. Resistono con controricorso l’azienda e l’INAIL, costituitosi già in prime cure a seguito di chiamata in garanzia da parte di quest’ultima. L’azienda ha anche depositato memoria.

Diritto

Con l’unico motivo di ricorso, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. e insufficiente motivazione circa un fatto decisivo della controversia per avere la Corte territoriale ritenuto che egli non avesse assolto l’onere probatorio relativo all’eziologia professionale della sua malattia e per non aver conseguentemente provveduto agli accertamenti peritali necessari per individuarne il nesso causale rispetto all’attività svolta alle dipendenze dell’AMT: sostiene infatti il ricorrente che, avendo allegato a corredo dei propri atti la documentazione clinica relativa alla malattia e argomentato la presumibile derivazione di quest’ultima dai microtraumi provocati dalla postura e dalle vibrazioni meccaniche dei mezzi su cui aveva svolto le mansioni di conducente di linea, l’onere della prova a suo carico doveva ritenersi assolto e, non avendo l’azienda dimostrato l’adozione di tutte le cautele idonee ad evitargli il danno, i giudici di merito avrebbero dovuto dare ingresso alla chiesta CTU, giusta il costante insegnamento di questa Corte di legittimità secondo cui l’esistenza di una malattia professionale e il suo grado invalidante, normalmente riferiti dalla certificazione medica di parte, devono essere accertati e apprezzati dal giudice con l’ausilio di una consulenza tecnica d’ufficio medico-legale (cfr. tra le tante Cass. n. 8468 del 2003).
Il motivo è infondato.
Circa la censura di violazione di legge, merita anzitutto ricordare che costituisce orientamento consolidato della giurisprudenza di questa
Corte il principio secondo cui, in tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell’art. 2087 c.c., il lavoratore che subisce l’inadempimento è soggetto all’onere di allegare e dimostrare l’esistenza non solo del fatto materiale, ma altresì delle regole di condotta che assume essere state violate e che sono poste a presidio dell’integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro (cfr. tra le più recenti Cass. n. 8855 del 2013).
Nel caso di specie, codesta allegazione (e la conseguente dimostrazione) è mancata del tutto, pretendendo piuttosto parte ricorrente di derivare la responsabilità datoriale dal mero verificarsi dell’evento dannoso a suo carico, sul presupposto che quest’ultimo sarebbe sintomatico della mancata adozione di tutte le cautele necessarie per tutelare la sua integrità fisica. Ma è agevole ai riguardo obiettare che l’art. 2087 c.c. non configura una forma di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, non potendosi automaticamente desumere dal mero verificarsi del danno l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate: la responsabilità datoriale va infatti collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle migliori conoscenze sperimentali o tecniche del momento al fine di prevenire infortuni sul lavoro e di assicurare la salubrità e, in senso lato, la sicurezza in correlazione all’ambiente in cui l’attività lavorativa viene prestata, onde in tanto può essere affermata in quanto sussista la lesione del bene tutelato che derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto (cfr. tra le tante Cass. nn. 8381 del 2001, 3234 del 1999, 5035 del 1998).
Si tratta, in altri termini, di un’obbligazione assimilabile a quelle tradizionalmente definite “di mezzi”, in cui la diligenza, oltre a costituire il criterio per valutare l’esattezza dell’adempimento, esaurisce l’oggetto stesso dell’obbligazione, traducendosi nel dovere di conoscere quei saperi e di adottare quelle tecniche considerate più attendibili nell’ottica di perseguire il fine indicato dall’art. 2087 cit., e in cui il mancato conseguimento di tale fine rileva solo in quanto sussista un nesso di causalità tra la condotta che detto obbligo di diligenza abbia violato e l’evento dannoso in concreto verificatosi. Di conseguenza, la mera verificazione del danno non è di per sé sola sufficiente a far scattare a carico dell’imprenditore l’onere probatorio di aver adottato ogni sorta di misura idonea ad evitare l’evento: la prova liberatoria da parte dell’imprenditore presuppone infatti la dimostrazione, da parte del lavoratore, sia del danno che del nesso di causalità dianzi esposto fra la mancata adozione di determinate misure di sicurezza (specifiche o generiche), in relazione al lavoro svolto, e il danno medesimo (Cass. n. 8381 del 2001, cit.). .
Si spiega così l’onere del lavoratore di allegare e dimostrare l’esistenza non solo del fatto materiale ma altresì delle regole di condotta che assume essere state violate (cfr, Cass. n. 8855 del 2013, cit.): non si tratta evidentemente di porre a carico del lavoratore l’onere di dimostrare la colpa del datore di lavoro, stante che ai sensi dell’art. 1218 c.c. è semmai il debitore che deve provare che l’impossibilità della prestazione o la sua non esatta esecuzione o comunque il pregiudizio che colpisce il creditore derivano da causa a lui non imputabile, ma piuttosto di dimostrare il nesso di causalità (indiscutibilmente normativo, trattandosi di fattispecie omissiva) tra la condotta negligente, imprudente o imperita e il danno concretamente verificatosi. Il che consente di ritenere che, benché il diritto vigente non consenta una netta distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, dato che non esistono obbligazioni nelle quali il risultato possa prescindere da un dovere di condotta così come non esistono obbligazioni nelle quali la condotta non sia orientata positivamente alla produzione di un risultato utile al creditore (cfr. da ult. Cass. n. 4876 del 2014), l’art. 2087 c.c., nella misura in cui costruisce quale oggetto dell’obbligazione datoriale un tacere consistente nell’adozione delle “misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità dei prestatori di lavoro”, permette di imputare al datore di lavoro non qualsiasi evento lesivo della salute dei propri dipendenti, ma solo quello che concretizzi le astratte qualifiche di negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, dovendo per contro escludersi la responsabilità datoriale ogni qualvolta la condotta sia stata diligente ovvero non sia stata negligente (imprudente, imperita, ecc.) in ordine allo specifico pericolo di cagionare proprio quell’evento concreto che in fatto si è cagionato, vale a dire quando la regola cautelare violata non aveva come scopo anche quello di prevenire quel particolare tipo di evento concreto che si è effettivamente verificato (o almeno un evento normativamente equivalente ad esso). Diversamente argomentando, si finirebbe per porre a carico del datore di lavoro non soltanto il danno derivante dalla mancata adozione di misure cautelari nominate o, a seconda dei casi, innominate, ma altresì quello derivante dalla qualità intrinsecamente usurante dell’ordinaria prestazione lavorativa e/o dal logoramento dell’organismo del dipendente che sia rimasto esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, laddove questa Corte ha già avuto modo di precisare che detti eventi restano fuori dall’ambito della responsabilità ex art. 2087 c.c. (Cass. n. 2038 del 2013), potendo se del caso costituire altrettanti presupposti per le tutele di tipo previdenziale.
Circa il profilo dell’insufficiente motivazione concernente la mancata ammissione della consulenza tecnica d’ufficio, è invece giusto il caso di ricordare che questa Corte ha da tempo affermato che la consulenza tecnica d’ufficio non è un mezzo di prova, ma uno strumento di valutazione, sotto il profilo tecnico-scientifico, di dati già acquisiti al processo, che non può essere utilizzato al fine di esonerare le parti dall’onere probatorio gravante su di esse (cfr. tra le tante Cass. n. 7319 del 1999). E poiché la Corte territoriale ha motivato il diniego proprio alla luce di tale insegnamento, anche sotto tale profilo la sentenza impugnata va assolta dalle censure rivoltele.
Il ricorso, pertanto, va rigettato, condannandosi conseguentemente il ricorrente alla rifusione delle spese dei presente giudizio nei confronti dell’AMT, liquidate come da dispositivo. Tenuto conto che la notificazione dell’impugnazione alle parti delle cause cumulate nello stesso processo per ragioni di connessione costituisce mera litis denuntiatio avente lo scopo di permettere la concentrazione di tutti i possibili gravami contro la stessa sentenza, onde il destinatario della notificazione non diviene per ciò solo parte del giudizio di impugnazione (cfr. Cass. n. 2208 del 2012), vanno invece compensate le spese tra il ricorrente e l’INAIL.

P. Q. M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese dei giudizio di cassazione in favore dell’AMT, che si liquidano in complessivi € 3.600,00, di cui € 3.500,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge. Compensa le spese tra il ricorrente e l’INAIL.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 17.3.2016.

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