Cassazione Civile, Sez. Lav., 10 ottobre 2016, n. 20330

Mobbing razziale: nessun risarcimento se il quadro della vicenda non è chiaro.


Presidente: Balestrieri
Relatore: De Marinis

Fatto

Con sentenza del 24 maggio 2010, la Corte d’Appello di Milano, confermava la decisione del Tribunale di Milano che rigettava la domanda proposta da A. E. A. M. nei confronti di Stamp S.p.A., avente ad oggetto la condanna della Società datrice di lavoro al risarcimento del danno patito dal lavoratore a causa di due infortuni sul lavoro e della ipoacusia qualificata come di origine professionale, pregiudizi tutti addebitati a responsabilità della stessa nonché al risarcimento del danno da mobbing patito nell’ambito dell’ambiente di lavoro.
La decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto assolutamente generica la formulazione delle ragioni di entrambe le domande, non essendo sufficiente a fondare la responsabilità per gli infortuni occorsi il verificarsi dell’evento lesivo in difetto di prova dell’inadempimento da parte del datore dell’obbligo dì adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica del lavoratore come pure insufficiente ai fini della responsabilità per mobbing deve considerarsi l’essere stata posta in essere dal soggetto datore, con dolo o colpa, una condotta ingiusta, in difetto di allegazione del carattere sistematico e reiterato di una pluralità di condotte poste in essere in un apprezzabile lasso di tempo e tutte qualificate da un intento persecutorio.
Per la cassazione di tale decisione ricorre il lavoratore, affidando l’impugnazione a due motivi, poi illustrati con memoria, cui resiste, con controricorso, la Società.

Diritto

Con il primo motivo, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1374, 2087. 2697 c.c.. 414, nn. 3, 4 e 5 e 421 c.p.c. nonché dell’art. 32 Cost. e 13 CEDU, il ricorrente lamenta l’erroneità del convincimento della Corte territoriale in ordine alla genericità della causa petendi, a suo dire, al contrario, illustrata nel ricorso in appello in modo sufficiente a dar conto della violazione colposa degli obblighi di tutela dell’integrità fisica e della dignità del lavoratore in ordine tanto agli infortuni occorsi quanto ai denunciati comportamenti mobizzanti subiti, nonché, da parte della stessa Corte, la non corretta applicazione delle regole della ripartizione dell’onere della prova, che assume da lui puntualmente assolto per quel che riguarda la ricorrenza del danno ed il nesso di causalità con le condizioni ambientali di lavoro mentre ne denuncia la carenza dal lato del datore relativamente all’apprestamento delle cautele necessarie ad impedire l’evento, e comunque l’erroneità della valutazione delle risultanze istruttorie ed il mancato ricorso ai propri poteri istruttori d’ufficio.
Il secondo motivo è teso ad evidenziare un vizio di motivazione in relazione all’omessa illustrazione delle ragioni della mancata ammissione dei mezzi di prova, interrogatorio formale, escussione testi e CEDU medico-legale. richiesti su circostanze decisive, quali i danni lamentati, il rapporto di causalità tra questi e la prestazione lavorativa, il risarcimento spettante.
I due motivi, che in quanto strettamente connessi, possono essere qui trattati congiuntamente, devono ritenersi infondati.
Va, in premessa, considerato che l’originaria prospettazione delle due distinte domande proposte dal ricorrente è tale per cui in quella le domande medesime finiscono per sovrapporsi e confondersi inestricabilmente l’una con l’altra. di modo che gli infortuni sul lavoro e la malattia professionale lamentati dal ricorrente vedono al tempo stesso quale antecedente causale ed effetto della serie causale così attivata, un generico atteggiamento del soggetto datore percepito e qualificato in termini di avversione personale e di rifiuto della presenza del ricorrente, di provenienza extracomunitaria, nell’ambiente di lavoro e, dunque, in generale di mobbing, concretantesi, sotto il primo profilo, nell’imposizione di compiti lavorativi da espletare in condizioni di estremo disagio così da rendergli intollerabile la prosecuzione del rapporto e, sotto il secondo profilo, nell’ostacolare, sotto la costante minaccia della risoluzione del posto di lavoro – soluzione poi spontaneamente scelta dal lavoratore, esasperato e prostrato nella sua condizione psico-fisica dall’ostilità dell’ambiente di lavoro – qualunque iniziativa intesa alla salvaguardia della sua integrità psico-fisica anche in coincidenza con il verificarsi degli eventi traumatici suddetti. In sostanza il ricorrente, una volta determinatosi ad interrompere il rapporto di lavoro con la Società qui resistente, ha dato corso ad un’azione giudiziaria con la quale intende conseguire, a considerevole distanza di tempo, il ristoro delle conseguenze pregiudizievoli, ivi compresi gli infortuni sul lavoro occorsigli e la malattia professionale da cui è stato colpito, il cui determinarsi egli ascrive a colpa del soggetto datore, non con riferimento all’inadempimento di specifici obblighi di tutela dell’integrità fisica e della dignità morale del lavoratore sul primo gravanti per legge ma in relazione ad un generico, in quanto non traducibile in specifiche condotte illecite, ma ravvisabile quale tratto caratterizzante la complessiva relazione di lavoro intercorsa tra le parti, atteggiamento di intolleranza verso la sua persona, anche motivato da ragioni di carattere razziale, che lo stesso ricorrente assume sia addebitabile al soggetto datore e che pretende sia in questi termini giudizialmente riconosciuto.
E’ in ragione di ciò che quella prospettazione si rivela carente quanto alle allegazioni e alle prove ritenute essenziali ai fini del sindacato giudiziale di ciascuna delle due distinte domande, non recando, quanto alla prima, l’indicazione delle misure di prevenzione che sarebbero state omesse con conseguente responsabilità per gli infortuni sul lavoro e la malattia professionale verificatisi ai sensi dell’art. 2087 c.c. e, quanto alla seconda, la specificazione delle singole condotte illecite che valutate alla luce di un intento persecutorio che vale a configurarle come poste in essere in esecuzione di un unico disegno così connotato, sono idonee a delineare un ipotesi di mobbing l’onte di responsabilità sempre alla stregua dell’ari. 2087 c.c. e del conseguente obbligo risarcitorio. Ciò è quanto ha rilevato, non diversamente dal primo giudice ed altresì da altro giudice dei medesimo Tribunale in precedenza investito della cognizione di analogo ricorso avente ad oggetto le medesime domande basate sui medesimi fatti, il quale aveva concluso per la nullità di quel ricorso, la Corte territoriale, così correttamente addivenendo al rigetto del gravame e di ciascuna delle due domande, sulla base. l’una, del principio per cui non è sufficiente l’allegazione dell’evento dannoso, infortunio o malattia professionale, verificatosi per dedurne l’inadempimento colpevole e, come tale fonte di responsabilità risarcitoria, dell’obbligo di salvaguardia dell’integrità fisica del lavoratore gravante sul datore ex art. 2087 c.c.. non operando a riguardo un criterio oggettivo di imputazione dell’inadempimento stesso, l’altra, di una nozione di mobbing che richiede ai fini della configurabilità di tale fattispecie una pluralità di condotte illecite ripetute nel tempo ed unitariamente qualificate da un elemento soggettivo dato dall’intento persecutorio. Il ricorso va dunque rigettato
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in giuro 100,00 per esborsi ed curo 3.000,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 27 giugno 2016.

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