Cassazione Civile, Sez. Lav., 11 aprile 2005, n. 7362

La probabilità che l’esposizione ad amianto sul luogo di lavoro abbia portato il lavoratore alla morte non può dirsi “qualificata”.


Fatto

Con ricorso al Giudice del Lavoro di Chiavari S.B. G.G. . F.G. e F.G. – nella loro qualità di eredi di G.G. – convenivano in giudizio la s.p.a. “FINCANTIERI-Cantieri Navali Italiani”, esponendo che la malattia contratta dal loro congiunto G.G. già dipendente della società convenuta presso lo Stabilimento di Riva Trigoso e deceduto in data 11 maggio 1996 per “mesotelioma pleurico”) e poi, conseguentemente, il decesso dello stesso sarebbero stati da riferire causalmente alla inalazione di fibre aerodisperse di amianto, diffusamente presenti sul posto e nell’ambiente di lavoro, in ragione di negligenti comportamenti aziendali qualificabili come inadempimento contrattuale rispetto all’obbligo di cui all’art. 2087 cod. civ,. I ricorrenti richiedevano, quindi, all’adito Giudice del lavoro di voler riconoscere «il loro diritto successorio ad ottenere il risarcimento del danno e pertanto condannare la società convenuta a pagare in loro favore l’importo di L. 218.514.848 (successivamente, nelle conclusioni rassegnate nel giudizio di appello, elevato a L. 1.097.250), oltre agli accessori di legge».
Si costituiva in giudizio la s.p.a. “FINCANTIERI-Cantieri Navali Italiani” che chiedeva, preliminarmente, la chiamata in garanzia della s.p.a. “Assicurazioni Generali” e, quindi, eccepiva il difetto di legittimazione attiva dei ricorrenti e, nel merito, l’inammissibilità e l’infondatezza della domanda chiedendone, comunque l’integrale rigetto.
Il Giudice del lavoro ~ dopo avere disposto la chiamata in causa della s.p.a. Assicurazioni Generali (costituitasi, ritualmente in giudizio impugnando la domanda attorea) – respingeva il ricorso e – su impugnativa dei soccombenti e ricostituitosi il contraddittorio – la Corte di Appello di Genova respingeva l’appello, compensando le spese anche del secondo grado di giudizio.
Per quello che rileva in questa sede la Corte territoriale ha rimarcato che: a) «nella fattispecie il danno biologico è durato almeno un anno dato che al G. è stata riconosciuta un’invalidità del 100% il 10 maggio 1995 ed il decesso è avvenuto l’11 maggio 1996, onde non può essere posto in dubbio che lo stesso abbia subito
un danno biologico e sia divenuto titolare di un diritto risarcitorio trasmissibile jure hereditatis: ciò che è oggetto della trasmissione jure hereditatis non è il diritto personalissimo alla vita, ma il diritto di credito risarcitorio di cui era titolare il G. al momento del decesso»; b/1) «è stato accertato in sede penale che G. G. è deceduto per mesotelioma pleurico e che, in vita, lo stesso era titolare di rendita da parte dell’I.N.A.I.L. nella misura del 100%: tale ultima circostanza, unita all’accertamento peritale espletato in sede penale fanno ritenere provata la causa del decesso, che deve, conseguentemente, ascriversi all’ingestione di fibre di amianto»; b/2) «peraltro ciò solo non è sufficiente per determinare la responsabilità dell’appellata, occorrendo dimostrare che la malattia è stata cagionata dalla inalazione di fibre di amianto nell’ambiente di lavoro e che vi è stata colpa da parte dell’azienda, che ha trascurato di adeguare i sistemi di sicurezza alla pericolosità dell’ambiente, a causa dell’uso dell’amianto»; c) «a tal fine è stato nominato c.t.u. un perito, specialista in oncologia particolarmente qualificato e i consulenti tecnici nominati da tutte le parti non hanno ritenuto di muovere critiche ad osservazioni alle conclusioni alle quali è giunto il c.t.u., pur essendo loro stato concesso congruo termine per farle valere»; d) «il defunto G. ha prestato la sua attività presso la Fincantieri dal 1946 al 1981, gli è stato accertato il mesotelioma pleurico nel 1995 ed è deceduto esattamente un anno ed un giorno dopo, (per cui), tenendo presente quanto accertato con la c.t.u., deve ritenersi probabile che l’ingestione della fibra (dato che ne basta una sola) che ha cagionato il mesotelioma sia avvenuta in un periodo che va dal 1945 al 1965»; e) «è possibile che la fibra che ha dato origine al procedimento che ha determinato l’insorgenza della patologia ed il decesso del G. sia stata assorbita dal suo organismo nel corso del rapporto di lavoro, e forse è anche probabile, ma tale probabilità non può ritenersi “qualificata”»; f) «non è sufficiente che l’evento che ha portato al danno letale si sia verificato a causa ed in occasione di lavoro, ma occorre, al fine di accertare la responsabilità dell’azienda, che vi sia stata “colpa” non essendo principio del nostro diritto la responsabilità oggettiva»; g/1) «ricordato che il mesotelioma è dose indipendente, non appare possibile ritenere che vi sia stata colpa nella determinazione dell’evento per cui è causa dato che, trattandosi di comportamento omissivo, occorre la prova che un diverso comportamento avrebbe determinato l’inesistenza della patologia, con la conseguenza che non solo manca la colpa, ma anche non è dimostrato il nesso causale tra l’omissione e l’evento letale»; g/2) inoltre, «essendo che le fibre di amianto hanno cagionato il mesotelioma e che questa malattia ha cagionato la morte del G. ne consegue l’assicurabilità e l’indennizzo da parte dell’I.N.A.I.L., ma non la colpa dell’azienda e l’esistenza del nesso causale tra il comportamento della Fincantieri e l’insorgenza del mesotelioma».
Per la cassazione di tale sentenza S.B. , G. G., F.G. e F.G., ut supra, hanno proposto ricorso affidato ad un unico motivo.
La s.p.a. “FINCANTIERI-CANTIERI NAVALI ITALIANI” e la s.p.a. “ASSICURAZIONI GENERALI” resistono con controricorso.
La s.p.a. “FINCANTIERI-CANTIERI NAVALI ITALIANI” ha, inoltre, depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

Diritto

I. Con l’unico motivo di ricorso i ricorrenti – denunciando “violazione ex art. 360 punti 3 e 5 cod. proc. civ. in relazione all’art. 2087 cod. civ.” – rilevano criticamente che: a) «il concetto di dose-indipendenza, cosi come elaborato e interpretato dalla Corte di Appello e cioè nel senso che è “indifferente” rispetto alla “quantità e intensità” di polverosità di amianto nell’ambiente in cui stazionano le persone, si rivela del tutto errato perché invece, contrariamente a quanto asserito in sentenza, il fattore scatenante la patogenesi è causalmente correlabile sia con la intensità/quantità della polverosità di amianto (“… picchi di concentrazione molto alti …”) e della situazione di inquinamento ambientale da polvere di amianto (“… popolazioni esposte ad una maggiore concentrazione di fibre evidenziano una maggiore frequenza di malati di asbestosi e mesotelioma”)»; b) «dalle asserzioni del c.t.u. si traggono delle valutazioni assolutamente diverse da quelle assunte dalla sentenza impugnata, e cioè l’efficienza causale di una condotta del datore di lavoro al fine di non contrarre un mesotelioma pleurico tendente ad una limitazione della percentuale di fibre di amianto areodisperse nell’ambiente di lavoro ed addirittura la indispensabilità della osservanza, da parte dello stesso datore di lavoro, di norme di igiene e sicurezza … e di idonei dispositivi di protezione individuale”»; c) «risulta del tutto infondata e quantomeno sorprendente l’asserzione della sentenza che determina uno scadimento del rischio della esposizione alla polvere di amianto da “professionale” o comunque “specifico” a rischio generico, ubiquitario, e indeterminabile, con la valutazione conseguente della insussistenza di colpa del datore di lavoro, [in quanto] rappresenta conoscenza scientifica consolidata, quindi tale da rientrare nella opinione comune da cui ormai la giurisprudenza ha tratto elementi univoci di conoscenza, che le malattie scaturenti dalla esposizione all’amianto (asbestosi, tumori polmonari, mesotelioma, etc.) insorgono e si evolvono solo nei soggetti che con l’amianto hanno avuto rapporto professionale o comunque collaterali a detta relazione»; d) essendo errati i presupposti della valutazione operata dal Giudice di appello, resta intaccata la validità della relativa conclusione (mancanza di probabilità “qualificata” dell’origine professionale della malattia); e) è, di conseguenza, «fallace il principio secondo cui la peculiarità di dose-indipendenza del mesotelioma pleurico attiene alla “dose” di fibre che possano determinare la patologia e detto parametro non può essere equiparato alla dose indipendenza di fibre nell’aria, [in quanto] il mesotelioma pleurico è un particolare tipo di patologia tumorale per cui ricade nella patogenesi generale di tutti i tumori … [per cui] la responsabilità (colpa) del datore di lavoro si concretizza nella omissione di ogni attività finalizzata ad attenuare (senza che a tal fine sia necessaria la eliminazione del rischio) la polverosità dell’amianto e/o nella mancata predisposizione di misure protettive idonee che hanno notevolmente scemato le probabilità della fisiologica pronta ed efficace risposta del soggetto, minandola sino alla impossibilità di far fronte a quella unica fibra che sempre genera il tumore», f) «nel quadro probatorio processuale tale ipotetica situazione prospettata nella decisione configurerebbe una fattispecie di non imputabilità dell’inadempimento scaturente dalla disposizione di cui all’art. 1218 cod. civ. – nell’ambito della responsabilità contrattuale ex art. 2087 cod. civ. -, il cui onere probatorio ricade a carico del datore di lavoro e nella vicenda processuale non è stato minimamente assolto».
II. Il ricorso come dinanzi proposto non appare meritevole di accoglimento.
Anzitutto deve respingersi l’eccezione formulata dalla controricorrente s.p.a. FINCANTIERI di preliminare inammissibilità del ricorso «perché privo dell’esatta individuazione dei capi della sentenza impugnata di cui si chiede la cassazione, della necessaria precisazione delle violazioni di legge nelle quali sarebbe incorsa la pronuncia di merito, dell’esposizione delle ragioni alla base dei vizi denunciati, nonché dell’indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che sarebbero in contrasto con le disposizioni di legge e/o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, per cui in sostanza le censure dei ricorrenti risultano incomprensibili impedendo l’immediata e pronta individuazione delle questioni giuridiche sottoposte all’esame della Corte».
Pervero, il ricorso in esame – se pure può considerarsi al limite della sua ammissibilità data la genericità delle argomentazioni addotte a sostegno delle censure in ordine alla denunciata violazione dell’art. 2087 cod. civ. (con la precisazione che la riscontrata genericità caratterizzante comunque, il ricorso non potrà non avere negativo rilievo nella valutazione circa la fondatezza di dette censure) – contiene (anche se sommariamente e confusamente) l’esposizione delle ragioni che illustrano in modo intellegibile la dedotta violazione della norma codicistica e pone, comunque, questa Corte in grado di orientarsi fra le argomentazioni in base alle quali è stata censurata la decisione di merito (cfr., ex plurimis, Cass. n. 5581/2003), sicché, sotto il cennato limitato profilo preliminare, il ricorso può ritenersi ammissibile.
III. Passando ora alla disamina della dedotta violazione dell’art. 2087 cod. civ., si rimarca che, in base a quanto statuito da questa Corte, il richiamato art. 2087 non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, con la conseguenza che incombe al lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso di derivazione causale del danno dalla violazione delle norme di sicurezza delle condizioni di lavoro; per cui, solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze, sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi (Cass. n. 10361/1997, Cass. n. 3234/1999, Cass. n. 1307/2000, Cass. n. 12467/2003, Cass. n. 12789/2003).
Sulla natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro e sull’onere del lavoratore di provarne l’inadempimento concordano gli stessi ricorrenti, che riportano per esteso brani di motivazione della sentenza n. 4721/1998 di questa Corte [ove viene affermato testualmente che «l’art. 2087 cod. civ., il quale sancisce come dovere fondamentale dell’imprenditore quello di provvedere alla tutela dell’integrità fisica del prestatore d’opera, ha un valore sussidiario rispetto alla normativa speciale dettata per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, in quanto presuppone che risultino insufficienti o inadeguate le misure all’uopo previste dalla detta normativa speciale» e ancora che «deve escludersi che l’art. 2087 cod. civ. sia riconducibile ad una forma di responsabilità oggettiva: il principio “nessuna imputazione di illecito se non a titolo di colpa” ha sicuramente avuto ingresso nel nostro ordinamento giuridico e ad esso deve costantemente riferirsi l’interprete in questa materia; deve negarsi la responsabilità ogni volta che la prestazione non era eseguibile e la diligenza richiesta non era esigibile: non può pretendersi l’adozione di accorgimenti per fronteggiare evenienze infortunistiche assolutamente impensabili ed eccezionali alla comune esperienza; occorre riferirsi a quei presidi che la tecnica pone normalmente a disposizione, non a congegni e dispositivi tecnici mai da alcuno applicati o addirittura inesistenti sul mercato: neppure può pretendersi che il datore di lavoro ricerchi a proprie spese nuove misure di prevenzione o compia sperimentazioni, ma che applichi le misure conosciute e necessarie secondo la comune esperienza e tenendo conto delle cognizioni tecniche acquisite dalla scienza» e viene processualmente riscontrato
sempre da Cass. n. 4721/1998 «il difetto di motivazione che discende dal confronto tra la doglianza e l’accertamento compiuto dalla impugnata sentenza» riportando, quindi, il relativo decìsum alla particolare fattispecie con riferimento al non corretto accertamento delle risultanze processuali da parte del giudice di merito e, pertanto, alla peculiarità della relativa valutazione, che – come per le sentenze nn. 8204/2003 e 12138/2003 sull’incensurabilità in sede di legittimità della valutazione delle risultanze probatorie del giudizio di merito in analoga materia – non può prevalere sulla statuizione dei principi di cui alla summenzionata giurisprudenza]. A detti principi, peraltro, si riporta anche la Corte di Appello di Genova, sicché non è dato ravvisare nella sentenza impugnata l’erronea o falsa applicazione degli artt. 2087 e 1217 cod. civ. lamentata dai ricorrenti.
In particolare, le censure che i ricorrenti muovono alla sentenza impugnata per non avere tenuto conto delle «deposizioni testimoniali», per non avere considerato che «l’onere probatorio a carico del datore di lavoro nella vicenda processuale non è stato minimamente assolto» e per non avere «ritenuto appaganti gli elementi probatori raccolti nei due processi del merito» – soltanto esclusivamente queste confuse affermazioni sono riferite nel ricorso in merito alla ripartizione dell’onere della prova ed alla valutazione delle risultanze probatorie – si connotano per la loro irrituale genericità e, segnatamente, per non avere allegato alcuna violazione da parte del  giudice di appello dei principi che, appunto, regolano la ripartizione dell’onere della prova e la valutazione delle risultanze probatorie.
In realtà i ricorrenti, al di là dell’asserita violazione di norme di legge (solo enunciate ma non convenientemente sviluppate in modo pertinente), censurano la sentenza impugnata per avere escluso la sussistenza di un nesso causale tra il danno letale provocato al loro dante causa e la nocività dell’ambiente di lavoro e, quindi, sostanzialmente prospettano vizi di motivazione della sentenza.
Al riguardo, la Corte di Appello – nel richiamare correttamente i principi giurisprudenziali summenzionati – ha affermato (vale qui ribadire sinteticamente quanto già riferito in “premessa”) che: a) il G. G. è stata riconosciuta una invalidità del 100% dopo il 10 maggio 1995 e il decesso è avvenuto l’11 maggio 1996; b) secondo la c.t.u. deve ritenersi probabile che l’ingestione di una fibra di amianto causante il mesotelioma sia avvenuta in un periodo dal 1945 al 1965; c) occorre dimostrare – per determinare la responsabilità della società datrice di lavoro – non solo che la malattia sia stata cagionata da inalazione di fibre di amianto nell’ambiente di lavoro, ma che vi sia stata colpa della società che abbia trascurato di adeguare i sistemi di sicurezza della “nuova” pericolosità dell’ambiente a causa dell’”uso” dell’amianto; d) la probabilità di assorbimento della fibra deve essere “qualificata” nel senso che deve essere provata la colpa della società, non sussistendo un principio di responsabilità oggettiva; e) non vi è stata la prova non solo della colpa, ma anche del nesso causale tra omissione e evento letale.
Queste valutazioni del Giudice di appello in ordine alla valutazione delle risultanze processuali costituiscono valutazioni “di merito” e, come tali, censurabili in sede di legittimità solo per vizi di motivazione: vizi nella specie non sussistenti in quanto la Corte di Appello ha dato compiuta ragione del decìsum con motivazione esaustiva ed immune da errori logici e giuridici.
A tale riguardo si evidenzia [anche con riferimento al principio di “autosufficienza del ricorso” che costituisce un canone al quale la giurisprudenza di questa Corte si è sempre attenuta in modo sostanzialmente rigoroso e che i ricorrenti non hanno nella specie sicuramente osservato (Cass. n. 10041/2001, Cass. n. 22655/2001)] che i ricorrenti non hanno sollevato specifiche doglianze sulla mancata ammissione dei mezzi di prova e sulla valutazione delle risultanze processuali – in base alle quali la Corte genovese ha ritenuto che non fosse stata data la prova della sussistenza di una colpa qualificata della società e comunque del nesso causale tra omissione e evento letale —, per cui anche per tale decisiva ragione si rivelano infondate le censure dei ricorrenti, in quanto la decisione della causa è stata assunta (giova ribadirlo) in base alla valutazione delle risultanze processuali – considerate nel loro complesso – ritualmente acquisite, sicché sono da ritenere inammissibili le doglianze relative ai pretesi ‘Vizi di motivazione”, in relazione ai quali occorre precisare che il vizio di omessa o errata motivazione deducibile in sede di legittimità sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulti dalla sentenza, sia riscontrabile il deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può, invece, consistere in un apprezzamento in senso difforme da quello preteso dalla parte perchè l’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. non conferisce alla Corte il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le risultanze processuali, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le stesse, quelle ritenute più idonee per la decisione.
Nella specie non si evince, dalla disamina della sentenza impugnata, resistenza di un errato o deficiente esame di punti decisivi della controversia dato che la Corte di Appello di Genova, con esaustiva motivazione, ha correttamente deciso in merito alla ripartizione dell’onere probatorio effettivamente a carico delle parti (in conformità alla surriferita giurisprudenza di questa Corte) ed alla completa valutazione delle risultanze processuali.
In ogni caso – a riprova dell’infondatezza delle censure proposte nella specie dai ricorrenti – vale rilevare che: a) il difetto di motivazione, nel senso d’insufficienza di essa, può riscontrarsi soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice e quale risulta dalla sentenza stessa emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero l’obiettiva deficienza, nel complesso di essa, del procedimento logico che abbia indotto il giudice, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, – come per le censure mosse nella specie dai ricorrenti – quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati (Cass. n. 2114/1995); b) il vizio di motivazione sussiste unicamente quando le motivazioni del giudice non consentano di ripercorrere l’iter logico da questi seguito o esibiscano al loro interno un insanabile contrasto ovvero quando nel ragionamento sviluppato nella sentenza sia mancato l’esame di punti decisivi della controversia (Cass. n. 3928/2000) – irregolarità queste che non connotano di certo la sentenza impugnata c) per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fíne di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi – come sicuramente ha fatto la Corte di Appello di Genova – le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass.n. 13342/1999).
E’ da aggiungere, infine, che – avendo il Giudice di appello, in base alla statuizione a mente della quale «per la malattia che aveva causato la morte del G. conseguiva l’assicurabilità e l’indennizzo da parte dell’I.N.A.I.L., ma non la colpa dell’azienda e 1’esistenza del nesso causale tra il comportamento della FINCANTIERI e l’insorgenza del mesotelioma», motivatamente escluso che potessero derivare conseguenze dall’asserita (e non provata) violazione dell’art. 21 del d.P.R. n. 303/1956 – si conferma l’infondatezza dell’impugnativa anche su tale punto pure con riferimento a quanto ritenuto con orientamento giurisprudenziale consolidato (e che nella specie deve trovare ulteriore conferma) che ove una sentenza si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario – per giungere alla cassazione della pronunzia – non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia avuto esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo stesso dell’impugnazione:
questa, infatti, è intesa alla cassazione della sentenza nella sua interezza, o in un suo singolo capo, id est di tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altra sorreggano: è, sufficiente, pertanto, che anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero che – come nella specie – sia respinta la censura relativa anche ad una sola delle dette ragioni, perché il motivo di impugnazione debba essere respinto integralmente, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni (Cass. n. 5149/2001).
IV In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto da S.B. G.G., F.G.e F.G. – nella qualità di eredi di G.G. – deve essere respinto.
Ricorrono giusti motivi per dichiarare compensate tra tutte le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese del presente giudizio.
Cosi deciso, in Roma, il giorno 26 gennaio 2005.

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