Cassazione Civile, Sez. Lav., 11 gennaio 2016, n. 207

Tumore prostatico per esposizione a sostanze chimiche in conceria.


Presidente: MACIOCE LUIGI
Relatore: BLASUTTO DANIELA
Data pubblicazione: 11/01/2016

Fatto

La Corte di appello dell’Aquila, con sentenza pubblicata il 13 gennaio 2009, riformando la pronuncia di primo grado, in accoglimento dell’appello proposto dall’INAIL, ha rigettato la domanda proposta da B.G. diretta al riconoscimento di una rendita da malattia professionale.
L’assicurato aveva prospettato che causa o concausa del tumore prostatico che lo aveva colpito era costituita dall’esposizione alle sostanze chimiche con cui era venuto a contatto nel corso della sua attività lavorativa in conceria. A seguito della rinnovazione delle operazioni peritali, disposta dalla Corte di appello, il C.t.u. nominato aveva evidenziato, quanto alla eziopatogenesi del tumore alla prostata, che per il settore conciario non risulta affermata l’incidenza della sostanza tossica fondamentale ivi utilizzata, ossia il cromo trivalente o esavalente, mentre il cadmio è soltanto uno dei tanti, non obbligati, costituenti di determinate fasi di trattamento della lavorazione del cuoio.
Per la cassazione di tale sentenza B.G. propone ricorso affidato ad un motivo. Resiste l’INAIL con controricorso.

Diritto

Con unico motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 3 d.P.R. n. 1124/1965, nonché degli artt. 113, 420, 434 e 437 c.p.c., art 41 c.p., nonché vizio di motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.), per non avere la Corte di appello tenuto conto delle documentate censure espresse dall’appellato alla c.t.u. espletata in secondo grado, affetta da carenza scientifica e devianza dai canoni fondamentali della scienza medico-legale. In particolare, si richiama il tenore della c.t.u. di primo grado che aveva evidenziato come l’esposizione al cadmio, quale fattore di rischio tabellato, comporti presunzione di origine professionale della malattia. Si denuncia la mancata considerazione dei dati ufficiali rinvenibili sui siti delle divisioni urologiche di importanti università e istituzioni scientifiche, elencati in ricorso e già menzionati nella memoria di costituzione in appello, atti ad evidenziare il cadmio tra i fattori cancerogeni del tumore prostatico.
Il motivo, a prescindere dalla genericità del quesito di diritto (prescritto ex art. 366 bis c.p.c., applicabile alla fattispecie “ratione temporis”) vertente sulla denunciata devianza dai canoni fondamentali della scienza medico-legale, è comunque inammissibile per diverse ragioni.
Innanzitutto, esso non coglie il “decisum” della sentenza impugnata (art. 366, primo comma, n. 4 c.p.c.), la quale ha evidenziato, condividendo le considerazioni medico-legali del C.t.u., come il ricorrente non potesse ritenersi esposto, in modo etiologicamente efficiente, al cadmio, poiché la tipologia delle lavorazioni del cuoio non contempla l’utilizzo di tale componente, se non in via eventuale e per determinate fasi, a differenza del cromo trivalente ed esavalente che invece costituisce la sostanza base di tali lavorazioni; il ricorso per cassazione si incentra sull’esposizione del ricorrente al cadmio, sostanza rispetto alla quale – con accertamento di fatto che non risulta specificamente censurato – è stata esclusa un’esposizione significativa al rischio.
A ciò va aggiunto che non è riportato il contenuto della relazione peritale espletata in appello; il ricorso difetta dunque delle indicazioni documentali occorrenti ai fini della decisione (art. 366, primo comma, n. 6 c.p.c.).
E’ poi determinante osservare che dalla sentenza impugnata risulta che la Corte di appello ebbe a convocare il C.t.u. a chiarimenti a seguito delle controdeduzioni critiche mosse dall’appellato alla relazione peritale e riprodotte a sostegno del ricorso per cassazione (v. pag. 4, ult. cpv, ric. e succ.). Il ricorrente si duole della mancata considerazione, in sentenza, di tali rilievi critici laddove risulta “per tabulas” che a tali rilievi replicò lo stesso C.t.u. convocato a chiarimenti. Il ricorrente omette del tutto di riportare in ricorso i chiarimenti resi dal Consulente d’ufficio, ai quali si è conformato il Giudice di appello, nuovamente incorrendo nella violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c..
Il ricorso è dunque inammissibile.
Alla fattispecie è applicabile la disciplina delle spese di cui all’art. 42 comma 11 d.l. 30.9.2003 n. 269, conv.- con modificazioni – nella legge n. 326 del 24.11.2003, trattandosi di procedimento avviato successivamente al 2 ottobre 2003.
L’art. 152 disp. att. cod. proc. dv., nel testo modificato dall’art. 42, comma 11 del d.l. n. 269 del 2003, convertito nella legge n. 326 del 2003, dispone che “L’interessato che, con riferimento all’anno precedente a quello di instaurazione del giudizio, si trova nelle condizioni indicate nel presente articolo formula apposita dichiarazione sostitutiva di certificazione nelle conclusioni dell’atto introduttivo e si impegna a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti dei limiti di reddito verificatesi nell’anno precedente”. Tale norma si interpreta nel senso che l’onere autocertificativo imposto alla parte ricorrente deve essere assolto con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado ed esplica la sua efficacia, senza necessità di ulteriore reiterazione, anche nelle fasi successive, valendo, fino all’esito definitivo del processo, l’impegno di comunicare le variazioni reddituali eventualmente rilevanti che facciano venire meno le condizioni di esonero (cfr. ex plurimis, Cass. 16284 del 2011; v. pure (ex multis, Cass. 10875/2009; Cass. 17197/2010; Cass. 13367/2011).
L’odierno ricorrente non allega di avere provveduto al suddetto onere autocertificativo; pertanto, difetta uno dei presupposti per l’esonero dal pagamento delle spese di cui all’art. 152 disp. att. c.p.c.. Di conseguenza, le spese
sono regolate secondo il principio della soccombenza e vengono liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, e accessori di legge.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 2.000,00 per compensi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 19 novembre 2015

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