Repertorio Salute

Cassazione Civile, Sez. Lav., 12 gennaio 2016, n. 287

La ratio decidendi si fonda “sugli obblighi del committente stabiliti dal d. lgs. n. 626 del 1994, nella cui disponibilità e controllo permane l’ambiente di lavoro (da intendersi secondo un criterio non meramente topografico: Cass. n. 11362 del 2009), di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la salute dei prestatori di lavoro, ancorché dipendenti dall’impresa appaltatrice, non limitandosi ad informarla adeguatamente, ma informando altresì i singoli lavoratori, predisponendo i mezzi idonei al raggiungimento dello scopo per tutti e per ciascuno di essi, e cooperando con l’appaltatrice per l’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro, sia all’attività appaltata (Cass. n. 21694 del 2011), risultando del tutto irrilevante il dato soggettivo dei rapporti giuridici tra i vari datori di lavoro (Cass. n. 45 del 2009).


Presidente: MACIOCE LUIGI
Relatore: AMENDOLA FABRIZIO
Data pubblicazione: 12/01/2016

Fatto

1. – Il 13 settembre 2002 il tagliaboschi W.S., dipendente di J.A. titolare della omonima ditta individuale, subì un infortunio sul lavoro nel quale perse la vita. Durante le operazioni di taglio di un abete rosso di 32 metri il datore di lavoro aveva mandato il dipendente sulla strada forestale più in basso per impedire ad eventuali passanti di entrare nella zona di rischio; una volta reciso il tronco dell’abete esso era precipitato su di un altro albero che, cadendo, aveva colpito al capo lo W.S..
In relazione a tale infortunio l’INAIL, che aveva erogato le prestazioni previste per legge in favore dei familiari superstiti, esercitò azione di regresso ex artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965 nei confronti del datore di lavoro J.A. innanzi al giudice del lavoro del Tribunale di Bolzano.
Instaurato il contraddittorio, su richiesta del convenuto venne chiamata in causa la F.Ili Omissis & Co. S.n.c., società che aveva subappaltato alla ditta individuale l’attività di taglio degli alberi nel bosco in cui aveva perso la vita lo W.S. e nei confronti della quale l’INAIL estese la domanda.
Il Tribunale di Bolzano respinse il ricorso dell’Istituto.
In seguito ad impugnazione della parte soccombente, la Corte d’Appello di Trento – sezione distaccata di Bolzano, con sentenza del 24 maggio 2010, riformando integralmente la decisione di prime cure, ha dichiarato la concorrente responsabilità di J.A. e della F.lli Omissis & Co. S.n.c. per l’infortunio sul lavoro oggetto di causa, con concorso di colpa dell’infortunato in ragione di un terzo, ed ha condannato le suddette parti in solido al pagamento in favore dell’Inail dell’importo di euro 142.705,98, oltre interessi e spese liquidate; ha altresì condannato la società a rifondere a J.A. “quanto lo stesso dovesse pagare all’INAIL oltre la metà degli importi, per capitale, interesse, spese” in ragione della sentenza.
La Corte territoriale – per quanto qui interessa – ha ritenuto la concorrente responsabilità della società appaltante richiamando l’art. 7, co. 2, del d. lgs. n. 626 del 1994 allora vigente che faceva obbligo ad appaltante ed appaltatore di “coopera(re) all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dei rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto” e “coordina(re) gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi … informandosi reciprocamente”>; ha argomentato che la “F.lli Omissis sarebbe stata tenuta, una volta affidato alla ditta A. il compito di tagliare alberi immediatamente sopra la trafficata strada forestale, a mettere a disposizione un proprio dipendente, perché la strada medesima potesse essere opportunamente sorvegliata, durante le operazioni di taglio, da due persone contemporaneamente, il che ad entrambi avrebbe permesso di posizionarsi al di fuori della cd. zona vietata”.
2, – Ricorre per cassazione avverso tale sentenza la F.lli Omissis & Co. S.n.c. affidandosi ad un articolato mezzo di impugnazione illustrato da memoria. Ha resistito con controricorso l’Inail. L’A. è rimasto intimato.

Diritto

3. — La società lamenta, con una prima intestazione della rubrica del motivo, “errata individuazione dei soggetti responsabili per la sicurezza: effetti giuridici della nomina del subappaltatore – funzioni di delega – requisiti soggettivi” e, con una seconda, “violazione dell’art. 7, comma 2, d. lgs. n. 626/1994 in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c.”.
Per il primo aspetto il ricorso contesta che la sentenza impugnata abbia riconosciuto la concorrente responsabilità della società nella causazione dell’evento dannoso; sostiene che, essendo la ditta individuale A.J. il solo datore di lavoro dello W.S., esclusivamente ad essa ditta poteva riferirsi l’adempimento dell’obbligazione di sicurezza; argomenta inoltre che, avendo la società provveduto “a nominare un soggetto (per l’appunto il subappaltatore) dotato di poteri consentanei all’autonoma organizzazione del lavoro nel cantiere” nonché “delle capacità tecnico-organizzative per espletare l’attività di taglia boschi”, andava riconosciuta “la responsabilità esclusiva della ditta A. nella causazione dell’evento lesivo”.
Sotto altro profilo ci si duole che i giudici di appello abbiano motivato il loro pronunciamento basandolo su accertamenti di fatto del giudizio penale a carico dell’A., nonostante la F.IIi Omissis fosse rimasta completamente estranea ad esso. Invocando l’art. 651 c.p.p. secondo cui il giudicato penale di condanna vincola, oltre all’imputato, anche il responsabile civile “che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale”, si assume che “la possibilità di invocare in sede civile il giudicato penale di condanna non solo nei confronti dell’imputato A., ma anche nei confronti della soc. F.lli Omissis, sarebbe stat(a) legittim(a) solo se quest’ultim(a) avesse partecipato o fosse stat(a) post(a) in condizione di partecipare al processo penale, con conseguente piena salvezza del suo diritto di difesa”.
Il ricorso non può trovare accoglimento.
3.1.— Il mezzo di gravame, per come è formulato il primo profilo di censura, presenta pregiudiziali connotati di inammissibilità perché privo di sufficienti caratteri di specificità e completezza nonché di concreta riferibilità alla decisione impugnata, in quanto, a causa della vaghezza dell’argomentare frutto dell’assemblaggio di proposizioni assolutamente generiche, non si è in grado di comprendere né di cosa esattamente il ricorrente si dolga, né quali disposizioni di legge si assumano violate, né sulla base di quale errata interpretazione sta censurata la decisione.
È invero del tutto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che i motivi del ricorso per cassazione debbono essere, oltre che specifici e completi, strettamente riferibili alla decisione impugnata, ciò che comporta l’esatta individuazione del capo di pronunzia che si intende censurare e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione (Cass. n. 20652 del 2009; Cass. n. 15952 dei 2007; Cass. n. 13259 del 2007; Cass. n. 5637 del 2006; Cass. n. 2312 del 2003).
In particolare si è precisato che il vizio di violazione e falsa applicazione di legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a dimostrare motivatamente in quale modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla Corte regolatrice di adempiere il suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione (in termini, da ultimo, Cass. n. 16760 del 2015; conformi: Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 1063 del 2005; Cass. n. 8106 del 2006).
Nella specie, al cospetto dell’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui la società committente ha violato l’allora vigente art. 7, co. 2, d. lgs. n. 626 del 1994 nella parte in cui obbliga appaltante ed appaltatore a “cooperare(re) all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dei rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto” ed a “coordina(re) gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi … informandosi reciprocamente”, parte ricorrente in alcun modo censura specificamente l’applicabilità di detta disposizione alla fattispecie concreta, limitandosi ad invocare un esonero di responsabilità per il solo fatto di non essere il datore di lavoro del dipendente deceduto e di avere affidato i lavori ad impresa idonea.
Con ciò mostrando di non cogliere l’effettiva ratio decidendi che si fonda sugli obblighi del committente stabiliti dal d. lgs. n. 626 del 1994, nella cui disponibilità e controllo permane l’ambiente di lavoro (da intendersi secondo un criterio non meramente topografico: Cass. n. 11362 del 2009), di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la salute dei prestatori di lavoro, ancorché dipendenti dall’impresa appaltatrice, non limitandosi ad informarla adeguatamente, ma informando altresì i singoli lavoratori, predisponendo i mezzi idonei al raggiungimento dello scopo per tutti e per ciascuno di essi, e cooperando con l’appaltatrice per l’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro, sia all’attività appaltata (Cass. n. 21694 del 2011), risultando del tutto irrilevante il dato soggettivo dei rapporti giuridici tra i vari datori di lavoro (Cass. n. 45 del 2009).
3.2.— Nella seconda parte in cui la doglianza è percepibile come specifica il motivo si palesa poi infondato, in quanto la Corte territoriale non ha affatto considerato la responsabilità concorrente della società appaltante sulla base di una sentenza penale passata in cosa giudicata all’esito di un giudizio ai quale la società non aveva partecipato, ma ha più semplicemente utilizzato le risultanze di quel processo per fondare il suo convincimento.
Ciò ben poteva fare sulla scorta di una consolidata giurisprudenza di legittimità che, in applicazione del principio della pressoché completa autonomia e separazione tra giudizio penale e giudizio civile, quale principio generale del nuovo codice di procedura penale, ha già statuito non solo che il giudice civile deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità (civile) con pienezza di cognizione, non essendo vincolato alle soluzioni e alle qualificazioni del giudice penale (Cass. n. 1095 del 2007), ma soprattutto che il giudice civile può legittimamente utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale e fondare la decisione su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, procedendo a tal fine al diretto esame del contenuto del materiale probatorio ovvero ricavandoli dalla sentenza, o se necessario, dagli atti del relativo processo in modo da accertare esattamente i fatti materiali sottoponendoli al proprio vaglio critico (tra le più recenti v. Cass. n. 11512 del 2013).
4. – Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza liquidate in favore del solo Inail come da dispositivo, non avendo invece svolto attività difensiva l’A.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese sostenute dall’INAIL liquidate in euro 7.100,00, di cui euro 100,00 per esborsi, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%.

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