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Cassazione Civile, Sez. Lav., 13 luglio 2016, n. 14316

Infortunio con la pressa. Nessun risarcimento se il lavoratore non è regolare.


Presidente: NOBILE VITTORIO
Relatore: BRONZINI GIUSEPPE
Data pubblicazione: 13/07/2016

Fatto

A.P. conveniva la ditta M. s.n.c. di Mi. A.&. L. avanti il Tribunale del lavoro chiedendo il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno conseguente all’Infortunio sul lavoro occorsogli il 18.5.2002. La società convenuta chiamava in garanzia la compagnia assicuratrice Assicurazioni generali Italia spa. Il Tribunale acquisiti documenti, espletate prove testimoniali e disposta una consulenza tecnica, ritenuto il concorso di colpa del lavoratore nella misura del 30%, condannava la ditta convenuta al risarcimento del danno liquidato nelle somme di euro 168.143,60, euro 4.620,00 ed euro 1.911,00; respingeva invece la domanda di manleva della convenuta nei confronti della chiamata in causa. La Corte di appello con sentenza del 18.8.2013 rigettava l’appello della ditta M.; la Corte osservava che il A.P. , all’epoca dipendente esclusivamente di fatto in quanto regolarizzato solo in seguito, per un blocco improvviso del meccanismo di apertura e di chiusura della morsa, mentre stava eseguendo una lavorazione alla pressa meccanica rimaneva con la mano destra imprigionata tra le due leve della detta pressa. Per le lesioni subite gli erano state amputate le prime quattro dita della mano destra; emergeva che l’incidente era stato causato dal blocco del pulsante di sicurezza attuato per consentire all’operatore di avere una mano libera, prassi costante nell’azienda non solo da parte del A.P., ma anche da parte di altri lavoratori ed applicata (e tollerata) dagli stessi titolari. Pertanto la Corte di appello riteneva che sussistesse responsabilità del datore di lavoro (alla luce dell’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità) che conosceva e tollerava tale prassi, pur nel concorso di colpa del lavoratore. Non poteva ritenersi fondata la domanda di garanzia nei confronti delle Assicurazioni generali Italia perché la polizza stipulata tra le parti si riferiva ai lavoratori in regola con gli obblighi di assicurazione di legge mentre A.P. era stato regolarizzato solo in virtù di una sanatoria del 2002, che non aveva alcun effetto retroattivo sui rapporti privati.
Inoltre la polizza era precedente all’emanazione del decreto- legge di sanatoria.
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la ditta M. con due motivi; resiste il A.P. con controricorso, nonché le Assicurazioni generali Italia spa con controricorso.

Diritto

Con il primo motivo si allega la violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., difetto di motivazione. La sentenza impugnata aveva ribadito le argomentazioni del Giudice di primo grado senza approfondire le censure svolte nell’atto di appello e senza considerare gli elementi di prova che portavano ad escludere ogni responsabilità della parte oggi ricorrente; ci si era basati su quanto emerso nel giudizio penale senza considerare che le deposizioni testimoniali in sede civile avevano precisato lo svolgimento dei fatti.
Il motivo, con il quale in sostanza si censurano carenze di motivazione della sentenza impugnata, appare inammissibile in quanto non coerente con la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c. applicabile ratìone temporis (essendo la sentenza impugnata stata depositata il 18.9.2013) non rilevando che si siano fatte valere violazioni di norme di diritto che in realtà si sostanziano nella prospettazione di vizi motivazionali. Va ricordato sul punto l’orientamento di questa Corte che si condivide e cui si intende dare continuità secondo il quale l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’alt. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (Cass. SSUU n. 8053/2014 ). Il ” fatto” di cui si discute è già stato ampiamente esaminato dai Giudici di appello che hanno ritenuto di dover privilegiare le risultanze del processo penale, secondo una valutazione discrezionale ampiamente motivata dai Giudici di merito in relazione al fatto che dopo il deposito dei verbali la parte oggi ricorrente non aveva chiesto ulteriori mezzi di prova ex art. 420 c.p.c. (o sviluppato nuove argomentazioni con l’atto di appello). Pertanto è stato rispettato il cosiddetto “minimo costituzionale” nel valutare il “fatto” di cui si discute e cioè la responsabilità della parte ricorrente nella causazione dell’evento (pur con un concorso di responsabilità del A.P.).
Con il secondo motivo si allega la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 115 e 116 c.p.c), nonché il difetto di motivazione. Non era stato considerato l’elemento per cui le Assicurazioni generali Italia in contratto avevano assunto la copertura assicurativa per 15 dipendenti ed al momento dell’Infortunio la M. non aveva più di 15 dipendenti compreso il A.P..
Il motivo appare inammissibile per le ragioni già evidenziate prospettando carenze motivazionali non proponibili più alla stregua della nuova formulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. Il fatto, e cioè l’allegata copertura assicurativa da parte delle Assicurazioni generali Italia, è già stato ampiamente congruamente esaminato dalla Corte di appello che ha ritenuto decisivo che il A.P. non dovesse essere incluso nella copertura lavorando in nero e non operando retroattivamente, per giunta in rapporti interprivati, l’avvenuta regolarizzazione in sanatoria. Peraltro con chiarezza questo tipo di argomentazione, che appare logicamente ineccepibile e coerente con il dato contrattuale, esclude che possa aver significato alcuno il numero di dipendenti assicurati, posto che ovviamente il contratto necessariamente contemplava dipendenti non “in nero”.
Deve quindi dichiararsi inammissibile il ricorso. Le spese di lite- liquidate al dispositivo per ciascuna parte contro ricorrente- seguono la soccombenza.
La Corte ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.

P.Q.M.

La Corte:
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 100,00 per esborsi, nonché in euro 4.000,00 per compensi oltre spese generali al 15% ed accessori come per legge per ciascuna delle parti contro-ricorrenti.
La Corte ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 28.4.2016

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