Emarginazione ed isolamento del lavoratore da parte della banca: danno biologico.
Presidente: VENUTI PIETRO
Relatore: BERRINO UMBERTO
Data pubblicazione: 13/05/2016
Fatto
Con sentenza del 7/1 – 16/3/2010, la Corte d’appello di Roma – sezione lavoro ha rigettato l’impugnazione proposta dalla Banca Omissis s.p.a. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale della stessa sede che l’aveva condannata a risarcire al dipendente A.P. il danno biologico provocatogli per effetto dell’emarginazione lavorativa a cui l’aveva costretto dal 26 giugno del 2003, dopo aver confermato il provvedimento cautelare di assegnazione del medesimo ad una postazione di lavoro che gli evitasse l’isolamento dagli altri colleghi di lavoro.
Nel respingere il gravame la Corte territoriale ha spiegato che dalla relazione del consulente d’ufficio era emerso che l’isolamento in cui era stato posto il A.P. dalla datrice di lavoro poteva aver negativamente influito sul suo stato psichico e ciò aveva comportato, sia pure a livello di concausa efficiente, l’aggravamento della malattia determinata da crisi d’ansia dalla quale il dipendente era affetto, tanto che la decisione di quest’ultimo di sospendere la terapia, di per sé dannosa, era in qualche modo causalmente riconducibile proprio a quello stato psichico reso ancora più incerto dall’illegittimo comportamento datoriale. La stessa Corte ha aggiunto che la Banca, senza obiettive e documentate esigenze organizzative, aveva provveduto solo tardivamente ad una diversa sistemazione del proprio dipendente consona all’esito del provvedimento cautelare, per cui il complesso delle circostanze rendeva evidente la violazione dell’art. 2087 cod. civ.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso la Banca Omissis con un solo motivo, illustrato da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Resiste con controricorso A.P. .
Diritto
Con un solo motivo la ricorrente deduce il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in quanto la Corte di merito, nel respingere il gravame, avrebbe fornito una motivazione in aperto contrasto con gli accertamenti del consulente tecnico d’ufficio del secondo grado di giudizio, il quale aveva escluso che l’ambiente lavorativo in cui operava il A.P. avesse agito da concausa del danno alla salute del medesimo dipendente e, nel contempo, aveva ritenuto che la sospensione della terapia medica da parte di quest’ultimo era da considerare come idonea a determinare l’insorgenza della malattia.
Il motivo è infondato.
Invero, sia dalla lettura della sentenza impugnata che dalla riproduzione nello stesso ricorso di alcuni brani della perizia medico-legale eseguita in secondo grado non emerge alcuna contrapposizione tra le conclusioni cui è pervenuta la Corte di merito ed il giudizio tecnico espresso dall’ausiliare nominato d’ufficio allorquando il giudicante perviene ad affermare che il comprovato stato di isolamento aveva comportato, sia pure a livello di concausa, l’aggravamento della malattia diagnosticata al A.P.. Infatti, la Corte territoriale ha dato atto della conferma, da parte del consulente d’ufficio del secondo grado di giudizio, della diagnosi espressa dall’ausiliare di prime cure circa il fatto che l’isolamento in cui era stato posto l’ A.P. dalla datrice di lavoro poteva aver influito negativamente sullo stato psichico del lavoratore. Ciò trova riscontro nella riproduzione del giudizio del C.T.U, contenuta a pagina 12 del presente ricorso, con riferimento al punto in cui quest’ultimo afferma che “in linea generale ed in via di principio, sembra potersi dedurre la incompatibilità della postazione di lavoro con le condizioni di salute del signor A.P. nel periodo 2002-2003.” Egualmente il giudice d’appello ha dato atto della circostanza rappresentata dalla incognita della già menzionata sospensione della terapia da parte del medesimo lavoratore nello stesso periodo, ma ciò non gli ha impedito di affermare che la situazione lavorativa del A.P. aveva contribuito a causare o, comunque, ad aggravare l’evento, per cui non poteva non prevalere il principio di equivalenza delle concause lavorative nella produzione dell’evento dannoso in base alla norma di cui all’art. 41 cod. pen., applicabile anche alla materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. Giova ricordare che, al riguardo, questa Corte ha avuto modo di precisare (Cass. sez. lav, n. 13954 del 19/6/2014) che “in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, trova applicazione la regola contenuta nell’art. 41 cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, salvo che il nesso eziologico sia interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni.” (v. anche Cass. sez. lav. n. 1575 del 26/1/2010) D’altra parte la circostanza della sospensione della terapia decisa dal lavoratore, che l’odierna ricorrente tenta di ricondurre nell’alveo del nesso eziologico riguardante la malattia in esame, non risulta aver rappresentato, dalla lettura della sentenza impugnata, un fattore sopravveniente di per sé solo sufficiente a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni.
Anzi, la Corte d’appello, a conclusione dell’iter logico-giuridico adeguatamente illustrato, perviene ad affermare che la sospensione della terapia, dannosa per il lavoratore, era in qualche modo riconducibile proprio a quello stato psichico del dipendente reso incerto dall’accertato illegittimo comportamento datoriale.
In definitiva, le censure della ricorrente non scalfiscono la validità della “ratio decidendi” su cui riposa l’impugnata sentenza, a sua volta ancorata alla condivisione delle risultanze peritali di seconde cure ed alla corretta applicazione del summenzionato principio dell’equivalenza causale con riguardo alla riconducibilità dell’evento dannoso di cui trattasi alla situazione lavorativa del dipendente. In effetti, le doglianze sono formulate, come si è detto in precedenza, sulla base di un presupposto erroneo, quale la asserita, ma insussistente, discordanza tra le conclusioni del giudice d’appello e le risultanze peritali di secondo grado, finendosi per tradurre, in ultima analisi, in un inammissibile tentativo di rivisitazione del merito istruttorio adeguatamente vagliato dalla Corte territoriale.
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di € 3500,00 per compensi professionali e di C 100,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Così deciso in Roma il 3 febbraio 2016