Cassazione Civile, Sez. Lav., 13 maggio 2016, n. 9913

Fratture multiple al portiere dello stabile. “Occasione di lavoro”: esposizione al rischio insito in attività accessorie o strumentali allo svolgimento dell’attività stessa.


Presidente Bronzini
Relatore Boghetich

Fatto

Con sentenza depositata il 10 luglio 2013 la Corte di appello di Roma accoglieva l’impugnazione promossa da A.G. e, in parziale riforma della sentenza del Tribunale del medesimo luogo, condannava il datore di lavoro Fondazione Enasarco al pagamento di euro 161.274,53 a titolo di danno differenziale per l’infortunio subito il 3 aprile 2003 durante l’espletamento delle mansioni di portiere.
Avverso la detta sentenza la Fondazione ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c..
Le parti intimate, A.G. e Inail, non hanno svolto attività difensiva.

Diritto

1. – Con le prime due censure, la Fondazione denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. ed erronea valutazione nonché travisamento dei fatti da parte della Corte di appello, che non avrebbe considerato come dall’istruttoria sia emerso che tra gli ordinari compiti dell’A. non rientrava affatto la pulizia del locale ove si è verificato l’incidente e che la Fondazione non solo aveva informato i propri dipendenti addetti alla custodia degli stabili sui pericoli specifici legati a determinanti ambienti ma aveva anche proibiti all’A. di accedere al locale in oggetto.
2. – Con il terzo motivo la Fondazione deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c. nonché omesso esame di fatti decisivi avendo, la Corte territoriale, omesso l’esame di alcune circostanze relative al luogo dell’evento e alle modalità comportamentali del lavoratore che, se correttamente interpretate alla luce del concetto di rischio elettivo interruttivo del nesso causale tra infortunio e condotta, avrebbero portato all’esclusione di responsabilità del datore di lavoro.
3. – Con il quarto motivo la Fondazione ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 345 c.p.c. avendo la Corte territoriale proceduto a rinnovare la consulenza tecnica di ufficio nonostante l’A. avesse integralmente condiviso, nel corso del giudizio di primo grado, le conclusioni tratte dall’ausiliario del giudice.
4. – Con il quinto motivo la Fondazione deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 13 del D.Lgs. n. 38 del 2000 ed omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, avendo la Corte ritenuto fondata la domanda di danno esclusivamente in base alle “risultanze della consulenza di ufficio” e, inoltre, ha proceduto alla liquidazione del danno non patrimoniale sulla base di tabelle di derivazione giurisprudenziale, omettendo la considerazione delle tabelle utilizzate dall’Inail (tabelle approvate con d.m. 12.7.2000).
5. – Con il sesto motivo la Fondazione deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. avendo, la Corte territoriale, liquidato il danno morale seppur non provato dal lavoratore.
6. – I primi tre motivi, che in quanto connessi possono essere esaminati congiuntamente, risultano in parte inammissibili e in parte infondati.
6.1. – La sentenza impugnata, infatti, ha correttamente applicato i principi ripetutamente affermati da questa Corte di legittimità in materia di “occasione di lavoro” e di estensione della stessa anche alle ipotesi di “rischio improprio”.
Preliminarmente, la parte ricorrente sollecita una rivisitazione nel merito delle prove testimoniali acquisite agli atti, deducendo la violazione di norme di diritto nonché il vizio di motivazione per avere la sentenza impugnata travisato le dichiarazioni rilasciate dall’A. all’ispettore Inail nonché il contenuto delle deposizioni (riportate per stralci) dei testimoni G. , B. , V. (valutate, dalla Corte di appello, in maniera illogica, non emergendo dalle stesse che – tra i compiti ordinari dell’A. – fosse ricompresa la pulizia del locale ove è avvenuto l’incidente).
Il ricorrente chiede, invero, al giudice di legittimità di esaminare il contenuto delle dichiarazioni dei testimoni e di verificare l’esistenza di fatti decisivi sui quali la motivazione è mancata, ovvero è stata insufficiente o illogica.
Va, peraltro, rilevato che le norme (artt. 2697 ss. c.c.) poste dal Libro VI, Titolo II, del codice civile regolano le materie: a) dell’onere della prova; b) dell’astratta idoneità di ciascuno dei mezzi in esse presi in considerazione all’assolvimento di tale onere in relazione a specifiche esigenze; c) della forma che ciascuno di essi deve assumere. La materia della valutazione dei risultati ottenuti mediante l’esperimento dei mezzi di prova, è, viceversa, disciplinata dagli artt. 115 e 116 c.p.c. e l’erroneità su tali profili ridonda quale vizio ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. (ex multis, Cass. 2707/2004).
L’illustrazione delle doglianze sull’apprezzamento delle risultanze testimoniali si risolve, dunque, nella proposizione di un mezzo d’impugnazione, ex art. 360 n. 5, c.p.c., inammissibile alla stregua della riforma operata dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (c.d. “decreto crescita”) convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, riforma applicabile ai ricorsi contro le sentenze depositate, come nella specie, dopo il giorno 11 settembre 2012.
Trova, dunque, applicazione il nuovo testo dell’art. 360, secondo comma, n. 5, c.p.c., come sostituito dall’art. 54, comma 1, lett. b), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, il quale prevede che la sentenza può essere impugnata per Cassazione “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, le Sezioni Unite hanno chiarito che la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012 deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.
Pertanto, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
6.2. – Tanto premesso, deve rilevarsi che secondo l’orientamento dominante di questa Corte e che il Collegio condivide – ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio subito dall’assicurato, per “occasione di lavoro” devono intendersi tutte le condizioni, comprese quelle ambientali e socio – economiche, in cui l’attività lavorativa si svolge e nelle quali è insito un rischio di danno per il lavoratore, indipendentemente dal fatto che tale danno provenga dall’apparato produttivo o dipenda da terzi o da fatti e situazioni proprie del lavoratore, col solo limite, in quest’ultimo caso, del c.d. rischio elettivo, ossia derivante da una scelta volontaria del lavoratore diretta a soddisfare esigenze personali (ex plurimis, Cass. n. 2942/2002; di recente, Cass. n. 12779/2012).
Secondo tale orientamento, dunque, l’evento verificatosi “in occasione di lavoro” travalica in senso ampliativo i limiti concettuali della “causa di lavoro”, afferendo nella sua lata accezione ad ogni fatto comunque ricollegabile al rischio specifico connesso all’attività lavorativa cui il soggetto è preposto; il sinistro indennizzabile ai sensi del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 2 non può essere circoscritto nei limiti dell’evento di esclusiva derivazione eziologica materiale dalla lavorazione specifica espletata dall’assicurato, ma va riferito ad ogni accadimento infortunistico che all’occasione di lavoro sia ascrivibile in concreto, pur se astrattamente possibile in danno di ogni comune soggetto, in quanto configurarle anche al di fuori dell’attività lavorativa tutelata ed afferente ai normali rischi della vita quotidiana privata; pertanto l’evento infortunistico verificatosi in occasione di lavoro non va considerato sotto il profilo della mera oggettività materiale dello stesso, ma, ai fini della sua indennizzabilità, deve essere esaminato in relazione a tutte le circostanze di tempo e di luogo connesse all’attività lavorativa espletata, potendo in siffatto contesto particolare assumere connotati peculiari tali da qualificarlo diversamente dagli accadimenti comuni e farlo rientrare nell’ambito della previsione della normativa di tutela, con l’unico limite della sua ricollegabilità a mere esigenze personali del tutto esulanti dall’ambiente e dalla prestazione di lavoro(c.d. rischio elettivo) (in questo senso cfr. Cass. n. 12652 del 1998, e, più di recente, Cass. n. 14287/2004; Cass. n. 16417/2005).
Questa Corte ha, inoltre, ripetutamente affermato il principio secondo cui “l’indennizzabilità dell’infortunio subito dall’assicurato sussiste anche nell’ipotesi di rischio improprio, non intrinsecamente connesso, cioè, allo svolgimento delle mansioni tipiche del lavoro svolto dal dipendente, ma insito in un’attività prodromica e strumentale allo svolgimento delle suddette mansioni e, comunque, ricollegabile a soddisfacimento di esigenze lavorative, a nulla rilevando l’eventuale carattere meramente occasionale di detto rischio, atteso che è estraneo alla nozione legislativa di occasione di lavoro il carattere di normalità o tipicità del rischio protetto”. (v., fra le altre, Cass. 16417/2005, Cass. n. 14287/2004, Cass. n. 4433/2000, Cass. n. 1944/2002, quest’ultima in un caso di caduta dalle scale mentre la lavoratrice si recava a timbrare il cartellino delle presenze).
È stato altresì precisato che “la nozione di occasione di lavoro di cui all’art. 2 d.p.r. n. 1124 del 1965 implica la rilevanza di ogni esposizione a rischio ricollegabile allo svolgimento dell’attività lavorativa in modo diretto o indiretto (con il limite del c.d. rischio elettivo) e, quindi, anche della esposizione al rischio insito in attività accessorie o strumentali allo svolgimento della suddetta attività, ivi compresi gli spostamenti spaziali compiuti dal lavoratore all’interno dell’azienda..” (v. fra le altre, Cass. 7-5-2002 n. 6511, Cass. 22-4-2002 n. 5841).
6.3. – La sentenza impugnata ha correttamente interpretato ed applicato i suddetti principi.
Invero, con motivazione esente da vizi logici, la Corte territoriale ha descritto sinteticamente il luogo dell’evento (“la chiostrina… era priva di balaustra”), ed ha rilevato come la Fondazione non avesse provato di avere espressamente vietato all’A. dl recarsi in detto locale, “non potendo certo valere” ha aggiunto “al riguardo la semplice partecipazione del lavoratore ai corsi antiinfortunistici organizzati dal datore di lavoro nei quali, naturalmente, venivano date indicazioni di carattere del tutto generale ai portieri”. Ha, inoltre, aggiunto che “l’A. era in possesso delle chiavi in oggetto e che egli, in occasione del sinistro, stava svolgendo una normale attività di pulizia – a seguito della segnalazione di infiltrazioni di acqua piovana nel garage da parte di una inquilina – rientrante quindi negli ordinari compiti del suo lavoro”. Ha, poi, riportato la deposizione del teste V. , di cui ha indicato la qualità (ossia collega del lavoratore, addetta ad uno stabile di proprietà della Fondazione adiacente quello dove è avvenuto il sinistro), confermativa dell’inclusione, tra le incombenze del portiere, della pulizia del locale in oggetto, circostanza confermata – come ha rilevato la Corte territoriale – anche dall’e dichiarazioni rilasciate dall’A. all’ispettore Inail.
7. – Il quarto motivo è infondato, avendo, la sentenza impugnata, premesso che uno dei motivi di appello dell’A. verteva sull’erronea determinazione dell’invalidità permanente ed avendo proceduto, del tutto logicamente, la Corte territoriale a rinnovare le operazioni peritali.
8. – In ordine al quinto motivo, il D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13 ha previsto – per eventi verificatisi o denunciati dopo il 9 agosto 2000, data dell’entrata in vigore del D.M. approvativo delle tabelle, ai sensi del cit. D.Lgs. n. 38, art. 13, comma 2 – l’estensione della copertura assicurativa obbligatoria dell’Inail anche al danno biologico. L’INAIL, invero, accerta e liquida sia il danno patrimoniale collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica sia il danno biologico patito dal lavoratore alla propria integrità psico-fisica, applicando tabelle medico-legali diverse da quelle usate in ambito di responsabilità civile ed è, pertanto, fisiologico che menomazioni identiche comportino l’attribuzione di percentuali di invalidità permanente diverse, a seconda che siano valutate con le tabelle INAIL piuttosto che con i criteri della responsabilità civile. L’Inail, infatti, è tenuto a valutare il grado di invalidità permanente patito dall’assicurato, in conseguenza di un infortunio, in base alla tabella Allegata sub (1) al D.M. 12 luglio 2000. Quando, invece, si tratta di stimare dal punto di vista medico legale il grado percentuale di invalidità permanente causato da un infortunio, non esistono criteri prestabiliti dalla legge, eccezion fatta per il solo caso di danni derivanti dalla circolazione stradale e che abbiano causati postumi non superiori al 9% (art. 139 cod. ass.e D.M. 3 luglio 2003). Il medico legale, pertanto, nel campo della responsabilità aquiliana può in teoria stimare il danno alla persona avvalendosi di qualunque criterio medico legale che sia condiviso nella comunità scientifica (cfr., da ultimo, Cass. n. 13555/2013).
La Corte territoriale ha dato applicazione a tale orientamento consolidato ed ha utilizzato, ai fini della liquidazione della percentuale di invalidità riscontrata dal consulente tecnico d’ufficio, le tabelle aggiornate in uso presso il Tribunale di Roma. Il motivo è, pertanto, infondato.
9. – In ordine al danno morale, la sentenza impugnata parte correttamente dal noto arresto delle Sezioni Unite di questa Corte del 2008 (Cass. n. 26972/2008) che ha affermato il principio della tendenziale unicità della categoria del danno non patrimoniale con conseguente inammissibilità della sua suddivisione in varie “sottocategorie” che possono condurre ad una moltiplicazione delle voci di danno, liquidate in relazione alla medesima situazione di sofferenza individuale. Peraltro, la più recente giurisprudenza (cfr. Cass. n. 23793/2015, Cass. n. 11851/2015, che qui si condivide), in sostanziale contrario avviso rispetto a Cass. S.U. n. 26972/2008, ammette un’autonoma risarcibilità del danno morale – ove ricollegabile alla violazione di un interesse costituzionalmente tutelato – distinto da quello biologico (seppur con esclusivo riguardo alle lesioni di non lieve entità).
Nel caso di specie, in ogni caso, la Corte territoriale ha correttamente liquidato, oltre al danno biologico connesso alla percentuale di inabilità permanente riportata, altresì il danno morale come riparazione delle sofferenze psichiche riguardate nella loro perdurante protrazione nel tempo. La sentenza ha, invero, dato atto della gravità del fatto (fratture in più punti che hanno determinato una invalidità permanente pari al 38%) e della “lunga durata della inabilità temporanea assoluta e permanente” nonché “degli interventi chirurgici ai quali egli (l’A. ) è stato sottoposto”, dimostrando, pertanto, di riconoscere una componente di danno non patrimoniale correlata alle sofferenze psichiche subite durante il ricovero, con prognosi riservata, a seguito dell’infortunio e protratte durante i numerosi ricoveri e visite di controllo (di cui la Corte ha dato atto a pag. 2 della sentenza).
10. – In conclusione, il ricorso è da rigettarsi. Nulla sulle spese in considerazione della mancata costituzione degli intimati.
11. – Per essere il giudizio di legittimità pendente alla data del 31 gennaio 2013 (per essere stato il ricorso notificato alla controparte in epoca successiva al discrimine temporale del 30 gennaio 2013; v., in tema, fra le prime decisioni, Cass. SU. 3774/2014), sussistono, ratione temporis, i presupposti previsti dall’art.13 comma 1-quater del d.P.R. n.115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della legge n.228 del 2012 (legge di stabilità 2013) per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, del citato articolo 13.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.

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