Cassazione Civile, Sez. Lav., 14 dicembre 2015, n. 25154

Esposizione all’amianto e beneficio. Esposizione ultradecennale.


Presidente: MAMMONE GIOVANNI
Relatore: DORONZO ADRIANA
Data pubblicazione: 14/12/2015

Fatto

L- Con sentenza emessa in data 16 maggio 2012, la Corte d’appello di Bologna, in parziale accoglimento dell’appello proposto dall’INPS avverso la sentenza resa dal Tribunale della stessa sede, ha rigettato la domanda proposta da G.M., lavoratore alle dipendenze della Eridania s.p.a., avente ad oggetto il riconoscimento della maggiorazione contributiva prevista dall’art. 13, comma 8°, 1. n. 257/1992 e successive modifiche, in conseguenza dell’esposizione all’amianto subita durante l’attività lavorativa nei periodi indicati in ricorso.
2. – La Corte territoriale, per quel che rileva in questa sede, ha ritenuto che l’esposizione all’amianto accertata per il G.M. si era protratta per un periodo inferiore al decennio (circa tre anni e mezzo), coincidente con il periodo di svolgimento delle mansioni di operaio addetto alla conduzione essiccatoio polpe, mentre per il periodo in cui egli era stato addetto alla conduzione impianti di depurazione delle acque, al servizio qualità ambiente e sicurezza e, poi, all’imballaggio dello zucchero e al magazzino, non vi era stata esposizione rilevante ai fini del riconoscimento del beneficio richiesto.
2. – Contro la sentenza, il lavoratore propone ricorso per cassazione sostenuto da quattro motivi illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c., cui resiste con controricorso l’INPS. Non svolgono attività difensiva l’INAIL e gli altri lavoratori, originari ricorrenti, Omissis.

Diritto

1- Con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, n. 5., c.p.c.) e/o nullità della sentenza per apparente e/o contraddittoria motivazione (art. 360, n. 4, c.p.c.)”.
In sintesi, lamenta che il giudice di appello non avrebbe motivato adeguatamente il rigetto della sua pretesa, limitandosi ad una pedissequa trascrizione delle conclusioni del c.t.u., peraltro del tutto difformi da quelle raggiunte dal c.tu. nominato in primo grado, che aveva ritenuto sussistente la sua esposizione qualificata all’amianto per oltre quattordici anni 14. Inoltre la c.t.u. dell’appello aveva considerato solo il periodo in cui egli era stato addetto alla campagna (ovvero due o tre mesi all’anno), e non anche i periodi di “intercampagna” (di circa nove mesi all’anno), in cui si svolgevano lavori di manutenzione, e particolarmente non aveva considerato che nel biennio 1985-1986 erano stati effettuati massicci interventi di smantellamento della fabbrica con perdite di fibre di amianto. Pone a sostegno della censura le prove testimoniali raccolte in giudizio, da cui, secondo la sua tesi, sarebbe emerso che l’attività di manutenzione della macchine coibentate in amianto, con elevata presenza di polveri di amianto, era fatta tutto l’anno quando si verificavano dei guasti, mentre quella ordinaria era fatta nei periodi intermedi tra le campagne saccarifere. Inoltre, era apodittica l’affermazione del c.t.u. (e della Corte) secondo cui non vi sarebbe stata esposizione durante lo svolgimento delle mansioni di addetto alle condutture o al servizio ambiente. Dall’intero quadro probatorio (costituito dalle dichiarazioni dei testi, da altre c.t.u. svolte in giudizi analoghi, dalla c.tu. svolta nel primo grado, dalle fotografie prodotte) emergeva la prova certa della presenza di amianto in dosi massicce e lo svolgimento dell’attività di manutenzione, fortemente produttiva di fibre di amianto, anche dopo il 1991. Quanto ai chiarimenti resi dal consulente tecnico d’ufficio, essi erano intervenuti a notevole distanza di tempo – così violando “l’immediatezza del contraddittorio” – ed erano stati resi sulla falsariga della consulenza.
2. – Con il secondo motivo il G.M. censura la sentenza per violazione degli artt. 111 Cost., 134 e 196 c.p.c. e si duole dell’omessa motivazione da parte della Corte territoriale delle ragioni per le quali aveva rinnovato la c.tu.
3. — Con il terzo motivo censura la sentenza per la violazione dell’art. 1218 c.c., e assume che, a fronte dell’obbligazione del datore di lavoro di assicurare al lavoratore tutte le misure atte ad evitare danni alla sua sicurezza e alla sua salute, fondata sull’art. 2087 c.c. e dunque di natura contrattuale, l’onere a carico del lavoratore è solo quello di provare il suo fatto costitutivo, ossia la prestazione lavorativa a contatto con polveri di amianto, spettando al datore di lavoro provare “i fatti impeditivi che non hanno consentito una corretta controprestazione il lavoratore non ha dunque alcun onere di provare la sua esposizione qualificata all’amianto, e ciò anche in considerazione delle raccomandazioni e delle direttive della Comunità europea. Ma, anche a voler seguire gli “aggiustamenti normativi” con riguardo all’onere della prova in materia previdenziale e di accertamento di malattie professionali a carico del lavoratore, la giurisprudenza di questa Corte ne aveva temperato il rigore, richiedendo la prova in termini di “ragionevole certezza”, ovvero di “rilevante grado di probabilità”.
4. – Con il quarto motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 13, comma 8°, 1. n. 257/1992 e successive modificazioni. Ritiene che la legge, anche nell’ambito di una lettura comunitariamente orientata, richiede quale unico presupposto per il riconoscimento dei benefici richiesti il rischio morbigeno ultradecennale, senza alcun riferimento a limiti quantitativi o qualitativi.
5. – I motivi, che si affrontano congiuntamente per l’evidente connessione che li avvince, sono infondati, oltre a presentare profili di inammissibilità.
7. – Questa Corte ha chiarito in numerose decisioni (cfr. tra le tante Cass., 11 luglio 2002, n. 10114; Cass. 10 agosto 2005, n. 16118; Cass., 6 febbraio 2007, n. 2580, ed ivi ampi richiami; Cass., ord. 30 luglio 2010, n. 17916; Cass., ord. 29 maggio 20914, n. 12127) che l’attribuzione dell’eccezionale beneficio di cui alla legge 27 marzo 1992, n. 257, art. 13, comma 8, nel testo risultante dalle modifiche apportate dal D.L. 5 giugno 1993, n. 169, art. 1, comma 1, e dalla successiva legge di conversione 4 agosto 1993, n. 271, presuppone l’assegnazione ultradecennale del lavoratore a mansioni comportanti, per il lavoratore medesimo, un effettivo e personale rischio morbigeno, a causa della presenza nei luoghi di lavoro di una concentrazione di fibre di amianto superiore ai valori limite indicati nella legislazione di prevenzione di cui al D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, artt. 24 e 31 e successive modifiche.
È la stessa legge n. 257 del 1992 a dare fondamento normativo all’esigenza di una esposizione superiore a una determinata “soglia” stabilendo con specifica disposizione (art. 3 poi sostituito dalla L. 24 aprile 1998, n. 128, art. 16 – che richiama e in parte modifica i valori indicati nel D.Lgs. n. 277 del 1991) il limite di concentrazione al disotto del quale le fibre di amianto devono considerarsi “respirabili” nell’ambiente di lavoro e mostrando così di ritenere insufficiente, agli effetti del beneficio da attribuire ai lavoratori “esposti all’amianto” (che non abbiano contratto malattia professionale), la presenza della sostanza in quantità tale da non superare il limite anzidetto e da non rappresentare per tale ragione un concreto pericolo per la salute.
La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 5/2000, ha ritenuto non fondata la questione di costituzionalità dell’art. 13, comma 8°- sollevata anche sotto il profilo che la mancata determinazione del fattore rischio, cioè della misura di esposizione rilevante, avrebbe portato, in violazione dell’art. 3 Cost. a trattare in maniera uniforme situazioni di concreto pericolo e non – proprio in base ad una interpretazione della norma secondo cui, per la rilevanza l’acquisizione del beneficio previdenziale, l’esposizione all’amianto in concentrazione media annua non inferiore a 100 fibre/litro, come valore medio su otto ore al giorno, concentrazione che corrisponde a quella di 0,1 fibre per centimetro cubo espressa, con diversa unità di misura, dal D.Lgs. n. 277 del 1991, art. 24 (cfr. ad es. Cass. n. 400/2007, cit.; Cass., 26 febbraio 2009, n. 4650; Cass., n. 17916/2010, cit.).
In definitiva, la circostanza che il legislatore del 2003 abbia espressamente fatto riferimento ad una precisa soglia di esposizione alle fibre di amianto si pone nel solco della previsione di una soglia di esposizione quantitativamente precisata, già ritenuta in via interpretativa (Cass., 11 gennaio 2007, n. 400; v. pure Cass., 13 luglio 2007, n. 15751).
8. — Appare inoltre opportuno premettere che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’accertamento della sussistenza di una esposizione significativa nei sensi sopra precisati deve essere compiuto dal giudice di merito avendo riguardo alla singola collocazione lavorativa, verificando cioè, nel rispetto del criterio di ripartizione dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c., se colui che ha fatto richiesta del beneficio abbia non solo indicato e provato la specifica lavorazione praticata, ma abbia anche dimostrato che l’ambiente nel quale questa si svolgeva presentava una concentrazione di polveri di amianto superiore ai valori limiti sopra indicati (vedi Cass., 10 agosto 2005, n. 16118; Cass., 15 gennaio 2009, n. 852, in motivazione; Cass., 23 gennaio 2003, n. 997).
Questi principi, cui la Corte territoriale si è pienamente uniformata, non sono scalfiti dalle pur diffuse argomentazioni del ricorrente, secondo cui il lavoratore non avrebbe l’onere di provare la sua esposizione qualificata all’amianto, dovendo tale onere ricadere sul datore di lavoro quale conseguenza dell’inadempimento dell’obbligo di assicurare tutte le provvidenze idonee ad impedire danni alla sicurezza del lavoratore ed in forza del regime di ripartizione degli oneri probatori previsto dall’art. 1218 c.c.
Questa tesi trascura di considerare che l’oggetto della pretesa azionata è un beneficio previdenziale, specificamente il diritto ad ottenere la rivalutazione del intero periodo lavorativo ai fini delle prestazioni pensionistiche in conseguenza dell’esposizione all’amianto. Il rapporto su cui è fondata tale pretesa è, parimenti, di natura previdenziale, distinto dal rapporto di lavoro che lega il lavoratore al datore di lavoro: conseguentemente, l’affermazione o la negazione del diritto alla rivalutazione contributiva prescinde dalla responsabilità di quest’ultimo per l’inadempimento degli obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, in virtù del principio di autonomia del rapporto previdenziale rispetto al rapporto di lavoro e dell’autonomo status, quello appunto previdenziale, che la legge attribuisce al lavoratore, in quanto titolare di un diritto personale fondamentale. Il riferimento all’art. 1218 c.c. contenuto nel terzo motivo del ricorso, con le conseguenze che da esso trae il ricorrente, non è dunque conferente.
9. – Neppure gli altri motivi di ricorso meritano accoglimento.
Essi, nella parte in cui denunciano violazioni di legge, non rispettano le modalità di deduzione elaborate dalla giurisprudenza di questa Corte, la quale richiede che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche mediante specifiche argomentazioni, intese motivatamente a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbono ritenersi in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (da ultimo, Cass., ord. 15 gennaio 2015, n. 635; Cass., ord. 26 giugno 2013, n. 16038). Nella specie, non si rinvengono nell’illustrazione dei motivi le specifiche affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie.
10. – Quanto ai vizi motivazionali, deve ricordarsi che il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione.
Tali vizi non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’imo o all’altro mezzo di prova, mentre alla Corte di Cassazione non è conferito il potere di riesaminare e valutare
autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l’apprezzamento dei fatti (cfr. ex plurimis: Cass., 18 marzo 2011, n.6288; Cass., del 23/12/2009, n.27162; Cass. 2 luglio 2008 n. 18119; Cass. 11 luglio 2007 n. 15489).
11 – Il giudice del merito ha ritenuto insussistente la prova di una esposizione qualificata del ricorrente in ragione delle mansioni svolte e degli accertamenti compiuti dal consulente tecnico d’ufficio, il quale, alla stregua dei dati acquisiti, esposti nella relazione e negli altri atti allegati all’elaborato peritale, è pervenuto alla conclusione che i limiti di legge stabiliti con il decreto legislativo n. 277/1991, rapportati ad un livello di azione di 0,1 fibre per centimetro cubo, non siano stati superati in relazione alla posizione del singolo lavoratore. Tale accertamento, che appare compiuto e coerente sul piano logico-giuridico, è incensurabile in sede di legittimità, avendo il giudice accolto le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio e dei chiarimenti da questo resi, facendoli propri (pag. 19) e così assolvendo l’obbligo di motivazione con l’indicazione della fonte dell’apprezzamento espresso, senza che occorra la confutazione dettagliata delle contrarie argomentazioni della parte, da ritenersi implicitamente disattese (Cass. 29 agosto 2005, n. 17420). Peraltro, la parte non ha indicato specifiche carenze o deficienze diagnostiche riscontrabili nella perizia, affermazioni illogiche o scientificamente errate in essa contenute, né ha individuato omissioni di accertamenti strumentali imprescindibili per la formulazione di una corretta conclusione tecnica, non essendo sufficiente la mera prospettazione di una difformità tra le valutazioni del consulente e quelle auspicate dalla parte. Al di fuori di tale ambito, infatti, la censura di difetto di motivazione costituisce un mero dissenso diagnostico, non attinente a vizi del processo logico, che si traduce in una inammissibile richiesta di revisione nel merito del convincimento del giudice (Cass. 21 agosto 2007, n. 17779; Cass. 17 aprile 2004 n. 7341; Cass. 28 ottobre 2003 n. 16223).
Deve aggiungersi che le conclusioni del c.t.u. cui ha aderito il giudice del merito sono state raggiunte all’esito dell’esame di ampia documentazione (libretti di lavoro e curricula professionali, documenti emessi da enti pubblici), da cui è risultata l’inesistenza di un rischio amianto presso alcuni reparti e per alcune specifiche mansioni, ricoperte dal ricorrente. Peraltro non sembra superfluo evidenziare che nel presente giudizio non è in discussione la presenza di amianto nello stabilimento e nello svolgimento delle attività di manutenzione degli impianti, quanto piuttosto il raggiungimento ed il superamento del valore soglia, di cui non è stata raggiunta la prova con un elevato grado di probabilità.
12. – Quanto all’omessa esposizione, da parte del giudice d’appello, delle ragioni per le quali ha ritenuto di disporre il rinnovo della consulenza tecnica d’ufficio, è decisiva la considerazione che la consulenza tecnica non è un mezzo di prova, bensì un mezzo istruttorio sottratto alla disponibilità delle parti e affidato al prudente apprezzamento del giudice, al quale spetta decidere sulla esaustività degli accertamenti già compiuti e valutare l’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative di quelle già espletate, ovvero di sentire a chiarimenti il consulente, nonché di procedere alla rinnovazione delle indagini con la nomina di altri consulenti; e l’esercizio di tale potere (così come il suo mancato esercizio) non può essere sindacato in sede di legittimità sotto il profilo del difetto di motivazione salvo che non vengano individuati gli specifici passaggi della sentenza idonei ad inficiarne, anche per derivazione dal ragionamento del consulente, la logicità (v. Cass., ord. 29 maggio 2013, n. 13497).
Peraltro, la confutazione delle contestazioni formulate nei confronti della disposta consulenza d’ufficio è implicita nel giudizio di piena attendibilità ed esaustività dell’elaborato tecnico – che la Corte di merito ha espresso tenendo conto anche dei chiarimenti resi dal c.t.u. a fronte dei rilievi critici degli appellati (v. pag. 20 e 21 sentenza) – e di tale giudizio il giudice di appello ha dato congrua giustificazione (con ciò sottraendosi alla censura di illogicità) riferendo della correttezza della metodica seguita dal proprio ausiliare e concludendo nel senso della non percorribilità dell’ipotesi di una esposizione qualificata al rischio di inalazione di fibre di amianto.
Deve aggiungersi che, con riguardo ai documenti o alle deposizioni testimoniali che la Corte non avrebbe esaminato, la relativa censura viola il principio di autosufficienza, in difetto della trascrizione integrale (o quanto meno nelle parti salienti) dei documenti, nonché della specifica indicazione dei verbali di causa in cui le deposizioni testimoniali sarebbero state raccolte, documenti e verbali che la parte non deposita unitamente al ricorso né fornisce precise indicazioni per il facile reperimento nel presente giudizio (Cass. 3 gennaio 2014, n. 48; Cass., 30 luglio 2010, n. 17915; Cass., Sez. Un., 3 novembre 2011, n. 22726).
13. – In definitiva, il ricorso deve essere rigettato. Poiché il giudizio è iniziato il 3 giugno 2002, ovvero in epoca precedente alla modifica dell’art. 152 disp. att. c.p.c., introdotta con il decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, art. 42, convertito in legge 24 novembre 2003, n. 326, ed in vigore dal 2 ottobre 2003, non deve adottarsi alcun provvedimento sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2015.

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