Repertorio Salute

Cassazione Civile, Sez. Lav., 14 settembre 2015, n. 18039

Deprecabile la condotta tenuta dal primario del reparto, condotta caratterizzata da atteggiamenti minacciosi nei confronti del personale. Ma si tratta di semplice clima di tensione, provocato anche dal fatto che i due medici ambivano alla stessa posizione di primario.


 

Presidente: VENUTI PIETRO
Relatore: VENUTI PIETRO
Data pubblicazione: 14/09/2015

Fatto

Il Tribunale di Taranto, in accoglimento della domanda proposta nei confronti dell’Azienda Unità Sanitaria Locale Taranto/1 dal dott. G.M., il quale aveva lamentato atteggiamenti persecutori e vessatori, costituenti mobbing, posti in essere nei suoi confronti dal primario del reparto di nefrologia dove egli svolgeva le funzioni di dirigente medico specialista in nefrologia, condannava la predetta Azienda al risarcimento dei danni biologici e morali, per complessivi € 22.500,00.
La Corte d’appello di Lecce, con sentenza depositata in data 8 gennaio 2009, in accoglimento del gravame proposto dall’Azienda, rigettava la domanda.
Ha affermato la Corte anzidetta, per quanto ancora rileva in questa sede, che dalla documentazione prodotta dal dipendente, relativa ai rapporti professionali intercorsi con il primario, non risultavano elementi tali da configurare il dedotto comportamento vessatorio. Si era piuttosto creata nel reparto una situazione di indubbia tensione, determinata dal fatto che l’attuale ricorrente aspirava al conferimento del posto di primario, assegnato ad altra persona, alla quale, secondo lo stesso ricorrente, era riconducibile la condotta di mobbing posta in essere nei suoi confronti.
Ad avviso del giudice d’appello, in questa chiave andavano letti gli elementi addotti a sostegno della condotta vessatoria. In particolare, quanto ai turni di lavoro ai quali il dott. G.M. era stato addetto per un certo periodo, essi non potevano essere considerati particolarmente afflittivi, non essendo peraltro documentato l’orario di lavoro svolto dagli altri medici e non essendo stata dimostrata la possibilità che potesse essere disposta una diversa distribuzione del personale. Quanto alle ferie, in un primo tempo negate, esse erano state successivamente autorizzate nel volgere di qualche giorno, ciò che faceva ritenere che si fosse trattato di un disguido.
Anche la prova testimoniale – disposta d’ufficio dal giudice – non aveva fornito elementi in grado di dimostrare che nei confronti del dott. G.M. fosse stato posto in essere un atteggiamento persecutorio.
Peraltro, ha rilevato la Corte territoriale, per potere addebitare al datore di lavoro le conseguenze di carattere risarcitorio per fatti commessi da un suo dipendente, era necessario che lo stesso datore di lavoro fosse a conoscenza della situazione illecita venutasi a creare nell’ambiente lavorativo e che il medesimo non avesse assunto provvedimenti atti a rimuoverla.
Nella specie non ricorrevano tali elementi, essendo peraltro la vicenda in esame maturata in una struttura complessa e di rilevanti dimensioni, sicché non poteva nemmeno presumersi che l’Azienda ne fosse a conoscenza.
Contro questa sentenza ricorre per cassazione il dott. G.M. sulla base di tre motivi. L’Azienda resiste con controricorso.

Diritto

1. Con il primo motivo è denunciata omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, nella versione anteriore a quella attuale, applicabile ratione temporis.
Si deduce che la Corte di merito ha omesso di considerare gran parte dei documenti prodotti, dai quali risultava chiaramente il comportamento vessatorio e persecutorio posto in essere dal primario del reparto nei suoi confronti.
In particolare la Corte anzidetta non ha considerato: la relazione ispettiva dell’INAIL del 2003, da cui risultavano gli atteggiamenti minacciosi che il primario del reparto era solito attuare nei confronti del personale del reparto, compreso il ricorrente; la mancata concessione al medesimo delle ferie, se non a condizione che fossero state chieste da lui personalmente; il mancato deposito, a seguito dell’ordinanza del giudice di primo grado, dei turni lavorativi da parte dell’Azienda; taluni documenti comprovanti il demansionamento del ricorrente e la condanna del primario di nefrologia, con sentenza del 4 giugno 1991, per oltraggio a pubblico ufficiale nei suoi confronti; la mancata autorizzazione alla partecipazione a corsi di aggiornamento professionale; il trasferimento del ricorrente al Pronto soccorso dell’Ospedale S.G. M., con conseguente dequalificazione del medesimo; le certificazioni mediche e la consulenza tecnica d’ufficio attestanti la grave sindrome depressiva conseguente ai comportamenti vessatori posti in essere nei suoi confronti; il licenziamento per superamento del periodo di comporto, dichiarato illegittimo con ordinanza ex art. 700 cod. proc. civ. del 18 luglio 2005; la inattendibilità dei testi escussi, i quali essendo “direttamente dipendenti dal Mobbizzante”, erano facilmente suscettibili di condizionamenti; l’inerzia del datore di lavoro che, pur essendo a conoscenza della grave situazione conflittuale esistente nel reparto di nefrologia, ha omesso di adottare ogni misura idonea a prevenire i fatti in questione.
2. Con il secondo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione di plurime disposizioni di legge, errata valutazione dei fatti di causa e delle prove, contraddittorietà della motivazione.
Si rileva che il giudice d’appello, ritenendo che la documentazione prodotta non fosse sufficiente a dimostrare il carattere vessatorio della condotta posta in essere nei confronti del ricorrente, avrebbe dovuto far ricorso alla prova per presunzioni e ritenere che la molteplicità e la reiterazione dei fatti denunciati integravano detto carattere.
Si ribadisce la responsabilità dell’Azienda, quale datrice di lavoro, per i fatti commessi dal primario del reparto di nefrologia e si richiamano anche qui le condotte asseritamente persecutorie evidenziate con il primo motivo, esponendo-‘sostanzialmente le medesime argomentazioni.
3. Il terzo motivo denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2059, 2087, 2103 cod. civ.,2, 32, 41 Cost.
Si deduce che la Corte di merito ha omesso di pronunciarsi sulla domanda di annullamento del provvedimento, disposto dall’Azienda in data 9 ottobre 2002, di destinazione temporanea del ricorrente presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale S.G. M., provvedimento da cui è derivata non solo la sua dequalificazione, in quanto dirigente medico nefrologo, ma altresì un gravissimo danno alla sua salute, con conseguenze risarcitorie.
Si aggiunge che la sentenza impugnata ha incentrato l’indagine solo sulla sussistenza del presunto mobbing, omettendo di “considerare e valutare se ogni azione ed ogni singolo comportamento posto in essere nei confronti del G.M. integrasse gli estremi del danno biologico e morale, all’uopo qualificando la domanda, sulla base della prospettazione dei fatti”.
4. I primi due motivi, che per ragione di connessione vanno trattati congiuntamente, non sono fondati.
Deve premettersi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono pertanto rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio” (cfr. Cass. 17 febbraio 2009 n. 3785; Cass. 6 agosto 2014 n. 17698 e, in precedenza, in termini sostanzialmente analoghi, Cass. 9 settembre 2008 n. 22893; Cass. 6 marzo 2006 n. 4774).
Nella fattispecie in esame la Corte di merito, valutando nel complesso il materiale probatorio acquisito ed in particolare le dichiarazioni rese dai testi e la documentazione prodotta dal ricorrente, ha dato sufficientemente conto della decisione adottata, con una motivazione congrua, coerente e priva di vizi logico-giuridici, pervenendo alla conclusione che gli elementi acquisiti non consentivano di ritenere provata la sussistenza della fattispecie del mobbing.
Il ricorrente ha contestato tali conclusioni, rilevando che la Corte territoriale avrebbe erroneamente valutato le risultanze processuali ed avrebbe omesso di esaminare taluni documenti decisivi per il giudizio. Ed ha prospettato una diversa lettura degli atti di causa, rimettendo in discussione, l’apprezzamento dei fatti operato dal giudice di merito, contrapponendone uno difforme
Senonchè, come ripetutamente affermato da questa Corte, il ricorso per cassazione non introduce un terzo giudizio di merito tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia dei vizi previsti dall’art. 360 cod. proc. civ.
In altre parole, non è consentito alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.
Non può pertanto la sentenza impugnata essere censurata per vizio di motivazione qualora esso prospetti che gli elementi valutati dal giudice erano suscettibili di una diversa lettura, conforme alle attese e deduzioni della parte, risolvendosi in tal caso il motivo di ricorso in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.
Né può essere imputato alla Corte di merito l’omesso esame di documenti decisivi per il giudizio, risultando viceversa che la documentazione prodotta dal ricorrente è stata presa in esame e valutata, senza che da ciò fossero emersi, secondo l’apprezzamento sovrano del giudice di merito, non censurabile in questa sede, elementi comprovanti la fondatezza della pretesa.
Quanto, in particolare, alla relazione ispettiva dell’INAIL, più volta citata dal ricorrente, se è vero che essa non risulta richiamata nella sentenza impugnata, ciò è all’evidenza da attribuire al fatto che dalla stessa il giudice d’appello non ha tratto elementi che potessero in qualche modo, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, comprovare la sussistenza di una condotta vessatoria e persecutoria nei confronti del ricorrente, non potendosi considerare tale la circostanza – risultante da detta relazione – che il primario del reparto di nefrologia in più occasioni abbia tenuto atteggiamenti minacciosi nei confronti dei dipendenti dello stesso reparto e che nel reparto anzidetto vi fosse una “una situazione di conflittualità” tra il primario e il personale ivi operante, compreso il ricorrente.
Non assumono rilevanza, ai fini della decisione, i fatti di cui alla “sentenza penale di primo grado” richiamata dal ricorrente, dalla quale risulterebbero frasi minacciose ed ingiuriose proferite dal primario del reparto nei confronti del G.M.: da un lato si tratta di episodi risalenti al 1991, di gran lunga anteriori rispetto ai fatti per cui è controversia; dall’altro, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, la sentenza suddetta non risulta specificamente indicata tra i documenti prodotti unitamente al ricorso, onde ne è precluso l’esame.
Infine, la prova presuntiva, che il ricorrente ritiene sussistente nella specie, comporta una discrezionalità valutativa del giudice di merito, al quale spetta in via esclusiva accertare la sussistenza di elementi gravi, precisi e concordanti (art. 2729 cod. civ.), valutazione questa non censurabile in sede di legittimità.
5. Il terzo motivo è inammissibile sotto un duplice profilo.
In primo luogo, tale censura avrebbe dovuto essere proposta non già sotto il profilo di violazione di norme di diritto e di vizio di motivazione (art. 360, primo comma, nn. 3 e 5 cod. proc. civ.), bensì sotto quello di omessa pronunzia, ai sensi del n. 4 dello stesso articolo.
Come più volte affermato da questa Corte l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello – così come, in genere, l’omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio – risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360 n.3 cod. proc. civ. o del vizio di motivazione ex art. 360 n.5. cod. proc. civ., in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa, ma attraverso la specifica deduzione del relativo error in procedendo – ovverosia della violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art.360 n. 4 cod. proc. civ. -, la quale soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità – in tal caso giudice anche del fatto processuale – di effettuare l’esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell’atto di appello. La mancata deduzione del vizio nei termini indicati, evidenziando il difetto di identificazione del preteso errore del giudice del merito e impedendo il riscontro ex actis dell’assunta omissione, rende, pertanto, inamrriissibile il motivo (Cass. n. 1755/06; Cass. 1196/07; Cass. 22759/04).
In secondo luogo, non risultando la questione qui dedotta in alcun modo trattata dalla sentenza impugnata, il ricorrente avrebbe dovuto riportare puntualmente nel ricorso per cassazione i termini in cui la domanda è stata riproposta in appello (cfr. art. 346 cod. proc. civ.), indicando i motivi per i quali essa era stata rigettata dal giudice di primo grado e le censure al riguardo proposte, che il giudice d’appello ha del tutto omesso di prendere in considerazione.
6. In conclusione il ricorso deve essere rigettato.
7. L’esito contrastante dei giudizi di merito giustifica la compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio. Così deciso in Roma in data 11 giugno 2015.

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