Cassazione Civile, Sez. Lav., 18 febbraio 2016, n. 3212

Risarcita la dipendente dell’ufficio postale rapinato: telecamere non funzionanti e finestre non presidiate. Inadempimento obbligo datoriale di predisporre idonee misure di prevenzione ex art. 2087.


Presidente Macioce
Relatore Patti

Fatto

Con sentenza 22 dicembre 2009, la Corte d’appello di Roma rigettava l’appello di Poste Italiane s.p.a. avverso la sentenza di primo grado, che l’aveva condannata al pagamento, in favore della propria dipendente S.P. (coinvolta nella rapina a mano armata del 24 luglio 2000 all’interno dell’ufficio in Roma presso cui prestava servizio, da tempo privo di telecamere a circuito chiuso funzionanti, in esito alla quale rimaneva affetta da un disturbo posi-traumatico da stress) ed a titolo risarcitorio per danni biologico e morale dipendenti dall’accertato inadempimento all’obbligo datoriale di predisposizione di idonee misure di prevenzione ai sensi dell’art. 2087 c.c., delle somme rispettive di € 19.017,00 e di € 8.158,50. A motivo della decisione, la Corte territoriale riteneva, così come il primo giudice, l’inadempimento di Poste Italiane s.p.a. al proprio obbligo contrattuale di dotazione di idonee misure di protezione del luogo di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c., avendo lasciate non presidiate le finestre (al primo piano, prossime ad una sottostante pensilina di binario ferroviario della stazione Termini, non blindate né munite di sbarre, per giunta con le telecamere a circuito chiuso disattivate per lavori di ristrutturazione in corso) dalle quali i rapinatori avevano fatto irruzione nell’ufficio. Ed essa condivideva poi le risultanze della C.t.u. medico-legale rinnovata e la liquidazione dei danno sia biologico sia morale, senza sottrazione dai relativi importi delle prestazioni previdenziali erogate dall’Inail, per la collocazione dell’evento infortunistico nel regime previgente la novella del d.lg. 3812000.
Con atto notificato il 22 dicembre 2010, Poste Italiane s.p.a. ricorre per cassazione con unico motivo, cui resiste la lavoratrice con controricorso.

Diritto

Con unico motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma n. 3 c.p.c., per l’adozione di tutte le misure idonee a tutelare l’integrità fisica e le condizioni di lavoro sicure del personale dipendente, appropriate ad un ufficio postale a norma di regolamento interno, nella contestata adeguatezza di una migliore protezione delle finestre e di un sistema funzionante di videocontrollo e di allarme a contrastare, secondo la Corte territoriale, la possibilità dell’evento e nella doverosa responsabilità datoriale.
In via preliminare, deve essere esclusa l’eccepita inammissibilità del ricorso per tardività.
Esso è stato, infatti, ritualmente notificato nel termine annuale stabilito dall’art. 327 c.p.c. nel testo vigente ratione temporis, non applicandosi alla presente controversia il termine semestrale introdotto dall’art. 46, diciassettesimo comma 1. 6912009, applicabile ai giudizi instaurati dopo il 4 luglio 2009 a norma dell’art. 58, primo comma 1. cit. ed essendo il giudizio iniziato in data anteriore, in quanto introdotto con ricorso 30 gennaio 2003. Nel merito, il motivo è inammissibile.
Non è, infatti, configurabile la violazione di legge denunciata in difetto dei presupposti: non avendo il ricorrente proceduto, come pure avrebbe dovuto, ad una verifica di correttezza dell’attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva della norma, né alla sussunzione del fatto accertato dal giudice di merito nell’ipotesi normativa (Cass. 28 novembre 2007, n. 24756), neppure avendo specificato le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata motivatamente assunte in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina: così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla corte regolatrice di adempiere al proprio compito istituzionale di verifica del fondamento della violazione denunziata (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984). Essa si risolve piuttosto in una denuncia di vizio motivo, pure inammissibile, per la sottesa istanza di sostanziale revisione del giudizio di merito e quindi sollecitazione di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394): nella prospettiva fuorviante di una contrapposizione non consentita di un diverso convincimento soggettivo della parte alla ricostruzione dei fatti operata dal giudice, piuttosto che di una censura dei possibili vizi del percorso formativo del convincimento del giudice, libero di attingerlo dalle prove che gli paiano più attendibili, senza alcun obbligo di esplicita confutazione degli elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. 16 dicembre 2011, n- 27197; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694; Cass. 5 ottobre 2006, n. 21412); bene avendo deciso la Corte territoriale, sulla base di una motivazione giuridicamente corretta e logicamente congrua (a pgg. da 3 a 5 della sentenza).
Essa ha, infatti, coerentemente applicato i principi regolanti la materia, secondo cui il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale dei danno patito a seguito di infortunio sul lavoro ha l’onere di provare il fatto costituente l’inadempimento e il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento e il danno, ma non anche la colpa del datore di lavoro, nei cui confronti opera la presunzione posta dall’art. 1218 c.c., il superamento della quale comporta la prova di aver adottato tutte le cautele necessarie ad evitare il danno, in relazione alle specificità del caso ossia al tipo di operazione effettuata ed ai rischi intrinséci alla stessa, potendo al riguardo non risultare sufficiente la mera osservanza delle misure di protezione individuale imposte dalla legge (Cass. 11 aprile 2013, n. 8855; Cass. 19 luglio 2007, n. 16003): con estensione dell’obbligo dell’imprenditore di tutela dell’integrità fisiopsichica dei dipendenti all’adozione e al mantenimento, non solo di misure di tipo igienico – sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di detta integrità nell’ambiente od in costanza di lavoro in relazione ad attività anche non collegate direttamente allo stesso come le aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi, non essendo detti eventi coperti dalla tutela antinfortunistica prevista dal d.p.r. 1124/1965 e giustificandosi l’interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia dei rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), sia dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cod. civ.), cui deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro (Cass. 22 marzo 2002, n. 4129). E ciò è stato in particolare ritenuto proprio in riferimento ad una rapina ad un ufficio postale, imponendo l’art. 2087 c.c., siccome necessario, l’apprestamento di adeguati mezzi di tutela dell’integrità fisiopsichica dei lavoratori nei confronti dell’attività criminosa di terzi, nei casi in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia di attività esercitata, in ragione della movimentazione, anche contenuta, di somme di denaro, nonché delle plurime reiterazioni di rapine in un determinato arco temporale (da ultimo: Cass. 20 novembre 2015, n. 23793; Cass. 13 aprile 2015, n. 7405). Senza, infine, trascurare la circostanza che si tratta di un accertamento in fatto, di esclusiva competenza del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità (arg. ex Cass. 7 marzo 2006, n. 4840).
Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna Poste Italiane s.p.a. alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 100,00 per esborsi e € 3.500,00 per compenso professionale, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

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