Cassazione Civile, Sez. Lav., 20 luglio 2016, n. 14940

Infortunio mortale di un operatore di una pala caricatrice. Risarcimento del danno.


Presidente: BRONZINI GIUSEPPE
Relatore: DORONZO ADRIANA
Data pubblicazione: 20/07/2016

Fatto

I Le pregresse fasi processuali: il primo processo conclusosi con la sentenza della Corte di cassazione dell’8 marzo 2006, n. 4980.
1. – Il 6 dicembre 1993 A.U., dipendente della Z. S.r.l., morì mentre era addetto in qualità di operatore ad una pala caricatrice a causa del brusco innalzamento del braccio operatore della macchina, che causava lo schiacciamento del cranio del giovane contro il tettuccio della macchina e il suo decesso.
2. – Dagli atti di causa, come concordemente riassunti dalle parti, risulta che dopo il processo penale, conclusosi con la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, il Pretore del lavoro di Forlì, adito da A.S., madre di A.U., e da I.U., fratello del deceduto, riconobbe alla madre £. 40 milioni (oltre alla somma di £ 100 milioni già ricevuta titolo di acconto all’esito del processo penale) attribuendole una percentuale del 20% di invalidità derivante dalle malattie riscontratele da una c.t.u. e in collegamento causale con il decesso dei figlio; ad I.U. riconobbe £. 80 milioni.
3. – La sentenza fu impugnata dalla A.S. e dall’I.U. (oltre che dalla Z. S.r.l. con appello incidentale) e, con sentenza n. 246/2003, il Tribunale di Fori), accolse solo l’appello della A.S. e condannò la società a pagarle la maggior somma di € 233.369,14, al netto del l’acconto già versato, a titolo di liquidazione del danno biologico iure proprio e a titolo di danno morale.
4. – Con la stessa sentenza il Tribunale dichiarò inammissibile il motivo d’appello relativo al danno morale e al danno biologico azionato iure hereditatis dalla A.S., sul presupposto, quanto al primo, che si trattava di domanda proposta solo in via subordinata per il caso di mancato riconoscimento del danno morale iure proprio, e, quanto al secondo, che si trattava di domanda nuova (peraltro, infondata poiché il danno biologico iure hereditario presuppone l’esistenza di un lasso temporale tra l’infortunio e il decesso). Rigettò gli altri motivi di appello.
5. – Contro la sentenza la A.S. propose ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi. Propose altresì ricorso anche I.U. sulla base di due motivi.
6. – Con sentenza dell’8 marzo 2006, n. 4980, questa Corte dichiarò inammissibile il ricorso di I.U..
Giudicò Invece infondati i primi quattro motivi di ricorso della A.S. e inammissibile il quinto motivo. In particolare, per quel che interessa in questa sede, rigettò il terzo motivo di ricorso, con il quale la A.S. aveva denunciato la violazione e/o falsa applicazione degli art. 2, 3 e 29 Cost. e degli art. 1223, 1226, 2056, 2057 e 2059 c.c., nonché vizio di motivazione, lamentandosi che il Tribunale aveva considerato nuove le domande di danno morale e biologico “jure hereditario”, senza considerare che tali domande erano da ritenersi comprese nella originaria domanda di risarcimento di tutti i danni conseguenti ai decesso del congiunto e deducendosi, di conseguenza, la spettanza del relativo risarcimento, eventualmente previo espletamento di c.t.u.
7. -1 giudici di legittimità ritennero quanto segue: <<Quanto ai danno morale “jure hereditario”, il Giudice di merito, con accertamento rimasto privo di adeguata e specifica censura, ha rilevato che la relativa domanda era stata avanzata solo in subordine, per il caso di mancato riconoscimento del danno biologico “jure proprio”, sicché correttamente non si è proceduto ad alcuna liquidazione essendosi invece riconosciuto il risarcimento invocato in via principale.
Riguardo alla domanda di danno biologico “jure hereditario”, che il Tribunale ha qualificato come domanda proposta per la prima volta in appello, in assenza di autorizzazione alla “emendatio” nel corso del giudizio di primo grado ai sensi dell’art. 420 c.p.c.. deve escludersi che la stessa potesse considerarsi ricompresa nella generica domanda di risarcimento di tutti i danni subiti a causa dell’infortunio, attesa fa diversa natura delle due azioni, una – quella “jure proprio” – avente la sua fonte nella responsabilità extracontrattuale “ex” art. 2043 c.c. e l’altra – quella “jure hereditario” – derivante invece dalla responsabilità contrattuale del datore di lavoro nei confronti del loro dante causa”.

II Il presente giudizio: le pregresse fasi di merito.
1. – Con separati ricorsi la A.S. e l’A.U. adirono nuovamente il Tribunale di Forlì e chiesero il risarcimento del danno <<“iure successionis” e “iure hereditario” definito in vario modo come pregiudizio tanatologico ovvero catastrofale o da agonia del de cuius, più precisamente del “pregiudizio biologico e/o morale e/o esistenziale patiti dal de cuius” ed entrati pertanto nel suo patrimonio, nonché per il danno esistenziale, iure proprio, conseguente all’irreversibile lesione del rapporto parentale.
2. – Entrambe le parti proposero separati e successivi ricorsi, in cui precisarono ulteriormente le domande e rettificarono in aumento le somme richieste. I ricorsi furono tutti riuniti e decisi con sentenza depositata in data 19 giugno 2008, con cui Tribunale rigettò I ricorsi e compensò le spese di lite.
3. – Contro la sentenza gli odierni ricorrenti proposero appello chiedendo (come si legge nell’odierno ricorso per cassazione) che la Z. S.r.l. fosse condannata al risarcimento del 1) danno tanatologico o catastrofale o da agonia, da quantificarsi in € 200.000,00 o in € 300.000,00 ove attualizzata, da ripartirsi secondo le quote successorie tra i due ricorrenti; in subordine, chiesero che si riconoscesse loro 2) Il danno morale subiettivo ed esistenziale, da quantificarsi nella misura di un terzo degli importi suindicati, e, in ulteriore subordine, 3) il danno morale subiettivo patito dal defunto ed ereditato dai congiunti prossimi da quantificare in misura pari a € 100.000,00; chiesero altresì il risarcimento del danno esistenziale da lesione irreversibile del rapporto parentale, da quantificarsi in € 150.000,00 per ciascuno dei ricorrenti.
4. – Con la sentenza del 3 maggio 2011, qui impugnata, la Corte d’appello di Bologna ha rigettato l’impugnazione sulla base delle seguenti ragioni: quanto al danno esistenziale da lesione del rapporto parentale, ha ritenuto già proposta la domanda nel precedente giudizio, in cui si erano richiesti “tutti danni, patrimoniali e non”, sicché la stessa era inammissibile perché coperta dal giudicato, sul presupposto peraltro che non sussiste un’autonoma categoria dì danno “esistenziale”, richiamando sul punto la sentenza delle Sezioni Unite del 2008, n. 26972. Quanto invece alla domanda di risarcimento del danno cosiddetto catastrofale, ha condiviso il ragionamento del primo giudice secondo cui non era stata formulata alcuna allegazione circa i presunti specifici patimenti della vittima nel lasso temporale intercorrente tra l’evento infortunoso e l’exitus, né la specifica circostanza dell’esistenza di un lasso temprale tra l’infortunio ed il decesso era mai emersa o era stata dedotta. Al contrario, con la sentenza penale del Tribunale di Alessandria si era accertato che la morte del giovane A.U. era stata Immediata a seguito delle lesioni da schiacciamento del capo e tale circostanza non era mai stata contestata dagli eredi. Infine, ha compensato le spese del processo.

III L’odierno ricorso per cassazione.
1. – Contro la sentenza, l’I.U. e la A.S. hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi. Ha resistito con controricorso la Z. S.r.l., che a sua volta ha spiegato ricorso incidentale affidato a due motivi. Fissata l’udienza di discussione, in vista della quale le parti hanno depositato memorie difensive ex art. 378 c.p.c., su esplicita richiesta dei ricorrenti, la causa è stata rinviata a nuovo ruolo in attesa della decisione delle Sezioni unite investite con ordinanza interlocutoria del 4/3/2014, n. 5056, della questione relativa alla risarcibilità del danno da perdita della vita. A seguito del deposito della sentenza delle Sezioni Unite n. 15350 del 22 luglio 2015, è stata fissata la nuova udienza di discussione. Anche per questa udienza le parti hanno depositato memorie.

Diritto

I Sintesi ed analisi dei motivi di ricorso di A.S. e I.U..
1. – Con il primo motivo di ricorso, i ricorrenti denunciano la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2059 cod.civ. in relazione al principio dell’integrale risarcimento del danno non patrimoniale, che deve ricomprendere anche il danno esistenziale, da compromissione del rapporto parentale e da lesione del diritti assoluti e fondamentali, previsti dagli artt. 7 e 9 della Carta di Nizza, 3, 29 e 30 della Costituzione.
Il motivo è inammissibile, oltre che Infondato.
1.1. – Una prima ragione di ragione di inammissibilità sta nel fatto che, nell’illustrare il motivo, le parti hanno trascritto quasi integralmente la sentenza d’appello, inserendovi con gli stessi caratteri grafici e tutto racchiuso dalle medesime virgolette senza soluzione di continuità, considerazioni e tesi difensive, trascrizioni di parti degli atti relativi alle precedenti fasi del giudizio (atto di appello) e brani di sentenze emesse da altre autorità giudiziarie in altre controversie (Corte d’appello di Torino, Tribunale di Modena, Corte di cassazione n. 12273 del 2011), in un unico contesto argomentativo che non consente di cogliere le specifiche critiche mosse alla sentenza impugnata.
Ora, è affermazione ricorrente di questa Corte che è inammissibile, per violazione del criterio della specificità e autosufficienza, il ricorso per cassazione confezionato mediante l’assemblaggio di parti eterogenee del materiale di causa quando ciò renda incomprensibile il mezzo processuale, perché privo di una corretta ed essenziale narrazione dei fatti processuali (ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c.), della sintetica esposizione della soluzione accolta dal giudice di merito, nonché dell’illustrazione dell’errore da quest’ultimo commesso e delle ragioni che lo facciano considerare tale, addossando in tal modo alla S.C. il compito, ad essa non spettante, di sceverare da una pluralità di elementi quelli rilevanti ai fini del decidere (in tal senso, Cass. Sez. un., 11 aprile 2012, n.5698, e da ultimo, Cass., ord. 30 ottobre 2015, n. 22185; Cass., 18 settembre 2015, n. 18363).
1.2. – Vi è poi un’ulteriore ragione di inammissibilità data dal fatto che i ricorrenti non indicano quale affermazione della Corte territoriale sia in contrasto con le norme richiamate in rubrica, o con la interpretazione che di esse ne danno la giurisprudenza consolidata o la dottrina. Non è infatti sufficiente per la corretta deduzione del vizio di violazione di legge previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., che la parte indichi le norme asseritamente violate, ma è necessario, a pena di inammissibilità, che il vizio sia dedotto mediante specifiche argomentazioni, intese a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbono ritenersi in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (Cass., ord. 15 gennaio 2015, n. 635; Cass., 16 gennaio 2007, n. 828).
1.3 – Il motivo è in ogni caso infondato alla luce della ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo cui il danno esistenziale non costituisce un’autonoma componente distinta dal danno non patrimoniale: il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. preclude un risarcimento separato e autonomo per ogni tipo di sofferenza patita dalla persona, ivi compreso il danno qualificabile come “edonistico” per la perdita del rapporto parentale, il quale deve essere valutato unitamente al risarcimento del danno morale “iure proprio”, fermo l’obbligo del giudice di tener conto nel caso concreto di tutte le peculiari modalità di manifestazione del danno non patrimoniale, cosi da assicurare la personalizzazione della liquidazione (Cass., 8 luglio 2014, n. 15491; v. pure Cass., 23 settembre 2013, n. 21716). Obbligo che, secondo quanto in seguito si dirà, è stato assolto dai giudici del merito.
2. – Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., la sentenza per “violazione e/o falsa applicazione in tema di valutazione di giudicato esterno, dell’art. 2059 c.c., quanto all’espressione ”danni non patrimoniali”, che non sarebbero stati intesi in relazione ai canoni giuridici-semantici dell’epoca in cui è stato proposto ricorso. Assumono infatti che nel momento in cui è stato introdotto il primo giudizio, ossia nel 1996, l’espressione “danni non patrimoniali” era sostanzialmente equivalente a quella di “danno morale”, dovendosi escludere che in essa potesse intendersi ricompreso anche il danno esistenziale, categoria all’epoca priva di giuridica autonomia.
2.1. – Il motivo è infondato. È infatti sufficiente leggere la sentenza di questa Corte, resa tra le medesime parti e ritenuta dal giudice di merito come preclusiva dì ogni altra domanda afferente alla liquidazione del danno non patrimoniale, per cogliere l’infondatezza del motivo alla luce del petitum e della causa petendi come delineati dagli stessi ricorrenti nei precedenti giudizi; nel giudizio per cassazione, con il secondo motivo gli odierni ricorrenti hanno lamentato la insufficiente determinazione del danno biologico “jure proprio” senza tener conto “degli effetti del decesso sulla sfera esistenziale e dei rapporti parentali” [così la sentenza della Corte di cassazione n. 4980/2006), nonché nel terzo motivo in cui esse si sono dolute dal fatto che il tribunale abbia ritenuto “nuove” le domande di danno morale e biologico iure hereditatis, che invece dovevano ritenersi comprese nella originaria domanda di risarcimento di tutti i danni conseguenti al decesso del congiunto. Emerge dunque evidente come la questione del “danno esistenziale” è già entrata nel processo, definito con la citata sentenza della Corte di cassazione. Inoltre, deve ricordarsi che i mutamenti della giurisprudenza non costituiscono ius superveniens (Cass., 12 gennaio 2007, n.565) ed essi pertanto non possono essere censurati sotto il profilo della violazione dell’art. 360, comma I, n. 3 c.p.c.
2.2. – In realtà, il giudice del merito ha proceduto ad una corretta interpretazione del ricorso proposto originariamente e del giudicato formatosi nel precedente giudizio, ritenendo la domanda comprensiva di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali, subiti iure proprio dai familiari superstiti per la perdita del congiunto, seguita da una liquidazione del danno che ha tenuto conto di tutte le varie componenti: ”é ben vero che il danno morale, per sua natura, è collegato intimamente alla entità ed intensità della sofferenza, sicché qualunque criterio di liquidazione, puramente indicativo tabellare, deve essere personalizzato e adeguato al caso concreto; nella specie, peraltro, la valutazione operata dal tribunale è stata tutt’altro che astratta e simbolica, avendo tenuto conto delle concrete modalità dell’Importo e della gravità della colpa del datore di lavoro, nonché delle conseguenze evidenziate dalla consulenza medico legale. Analoghe considerazioni valgono per la liquidazione del danno biologico (jure proprio) avendo il Giudice di merito proceduto ad una specifica considerazione dei danno permanente derivante dalle patologie psichiche suddette, anche in relazione a complicanze di tipo “relazionale” quali la soggezione ad attacchi di panico e la agorafobia” (così la sentenza n. 4980/2006 di questa Corte).
Ne consegue che l’interpretazione fornita dalla Corte di merito al giudicato è corretta, né sotto tale profilo è stata adeguatamente censurata.
3. -1 successivi motivi di ricorso, in quanto attengono al risarcimento del danno da perdita della vita, vanno sintetizzati e trattati congiuntamente.
Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2059 cod.civ. in relazione al cosiddetto danno tanatologia). Assumono infatti che il danno da perdita della vita deve essere considerato indennizzabile ex se, rappresentando “una voce autonoma di danno risarcibile in quanto trattasi di un diritto di credito che si determina istantaneamente, cioè nel momento stesso della lesione mortale, senza che rilevi la distinzione tra morte immediata o immediata ed è accordagli agli eredi o successori verso i responsabili.
4. – Con il quarto motivo denunciano la violazione di legge in ordine all’onere della prova dello stato di coscienza del soggetto deceduto, e censurano la decisione del giudice di merito che ha erroneamente ritenuto insussistente il diritto morale del defunto trasmissibile agli eredi in difetto di prova certa sullo stato di coscienza, ponendo l’onere della prova di tale circostanza a carico di essi danneggiati.
5. – Con il quinto motivo denunciano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2059 c.c. in relazione al danno morale del defunto come danno catastrofale, ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod.proc.civ., autonomamente risarcibile a prescindere dalle allegazioni di uno specifico patimento da parte della vittima e distinto dal danno biologico e dalla lesione o compromissione del danno parentale.
6. – I motivi sono infondati alla luce della recente pronuncia delle Sezioni unite di questa Corte di cassazione del 22 luglio 2015, n. 15350. Risolvendo il contrasto giurisprudenziale segnalato nell’ordinanza interlocutoria del 4 marzo 2014, le Sezioni Unite hanno ritenuto di dare continuità al risalente e costante orientamento delle stesse Sezioni unite (Cass., sez. Un., 22 dicembre 1925, n. 3475) ribadito da ultimo nella sentenza n. 26972/2008, riaffermando che non può essere invocato un diritto al risarcimento del danno iure hereditatis nel caso di morte del congiunto immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni.
6.1. – Il Supremo consesso ha infatti (ri)affermato che il bene giuridico “vita” costituisce un bene autonomo, fruibile solo in natura da parte del titolare ed è insuscettibile di essere reintegrato per equivalente. La morte, quindi, non rappresenta la massima offesa possibile del diverso bene “salute”, pregiudicato dalla lesione dalla quale sia derivata la morte. E, poiché una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessariamente rapportata ad un soggetto legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, la risarcibilità deriva (non dalla natura personalissima del diritto leso, ma) dall’assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo. E’ quello che la dottrina definisce l’argomento “epicureo “, condiviso anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 372/1994, che ha escluso la contrarietà a Costituzione di questa interpretazione degli articoli 2043 e 2059 cod.civ., in forza della quale non sono risarcibili iure hereditatis i danni derivanti dalla violazione del diritto alla vita potendo giustificarsi, sulla base del sistema della responsabilità civile, solo le perdite derivanti dalla violazione del diritto alla salute che si verificano a causa delle lesioni nel periodo intercorrente tra le stesse e la morte.
6.2. – La stessa Corte ha poi richiamato la giurisprudenza della Corte costituzionale (Corte Cost, n. 132/1985, n. 369/1996, n. 148/1999) la quale ha più volte ribadito che il principio dell’integrale risarcibilità di tutti i danni non ha copertura costituzionale ed è dunque compatibile con l’esclusione del credito risarcitorio conseguente alla stessa struttura della responsabilità civile, dalla quale deriva che il danno risarcibile deve consistere in una perdita che richiede l’esistenza di un soggetto che tale perdita subisce.
6.3. – Da queste affermazione di principio questo Collegio non intende discostarsi, non ravvisando nella difesa dei ricorrenti elementi di novità tali da indurre ad un ripensamento e, quindi, ad una nuova rimessione della questione alle Sezioni Unite, come previsto dall’alt. 374 comma comma 3°, cod.proc.civ.
7. – Nella seconda memoria difensiva ex art. 378 cod.proc.civ. i ricorrenti hanno invocato la “diretta applicazione della giurisprudenza” della Corte europea dei diritti dell’uomo, assumendo che l’interpretazione fornita dalla Suprema Corte è in contrasto con l’art. 2 delta Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, “Diritto alla vita”, secondo cui “il diritto di ogni persona alla vita è protetto dalla legge.» (art. 2, CEDU).
7.1. – Non è questa la sede per dirimere la questione della diretta applicabilità o non, nel diritto interno, delle norme della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ritenuta ammissibile da parte della dottrina e della giurisprudenza, soprattutto amministrativa (v.Cons. Stato, Sez. IV, sentenza del 2 marzo 2010, n. 1220), – a seguito della entrata in vigore il 1° dicembre 2009 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, che avrebbe “comunitarizzato” la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, in forza dell’art. 6 TUE – , ma ripetutamente esclusa dalla giurisprudenza costituzionale. A partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la Corte Costituzionale è invero costante nel ritenere che le norme della Cedu, nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente Istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione), integrano, quali «norme interposte», solo il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39/2008, n. 39 del 2008; da ultimo, Corte Cost. n. 242/2012). Ne consegue che ove si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della Cedu, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo – non potendo a ciò rimediare tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante – egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento all’indicato parametro. A sua volta, la Corte Costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo sindacare l’interpretazione della Cedu data dalla Corte europea, resta legittimata a verificare se, così interpretata, la norma della Convenzione – la quale si colloca pur sempre a un livello sub-costituzionale – si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: “operazioni volte non già all’affermazione della primazia dell’ordinamento nazionale, ma alla integrazione delle tutele” (in tal senso, Corte Cost., n. 242/2012).
7.2. – Che si opti per l’una o per l’altra tesi, ciò che rileva in questa sede è che l’art. 2 Cedu è una norma di carattere generale diretta a tutelare ogni possibile componente del bene vita, in modo che la stessa possa svolgersi in modo dignitoso e riceva adeguata tutela dagli stati membri, ma non detta specifiche prescrizioni in ordine all’ambito ed ai modi in cui tale tutela debba esplicarsi, e (meno che mai) impone necessariamente anche il riconoscimento della tutela risarcitoria in caso di perdita della vita immediatamente conseguente a lesioni derivanti da fatto illecito.
7.3. – Lo Stato italiano tutela il bene “vita” in numerosissimi settori, primo fra tutti quello penale, cui è connesso il diritto al risarcimento del danno ex art. 185, comma 2°, cod.pen. in favore del soggetti direttamente lesi dal reato, nonché attraverso la previsione di leggi speciali (in tema di danno da emotrasfusioni, di tutela delle vittime del terrorismo, o di altri eventi catastrofali ritenuti di particolare gravità) che impongono, spesso proprio in relazione alla irrisarcibilità del danno secondo il nostro sistema della responsabilità civile, un intervento sostitutivo o solidaristico dello Stato attraverso la previsione di un equo indennizzo che ristori il sacrificio dei privato. Si tratta, tuttavia, di interventi settoriali che, se da un lato offrono conferma della protezione da parte dell’ordinamento interno del “diritto alla vita” come consacrato nel citato art. 2, dall’altro, non consentono, proprio per la specialità e tassatività di tali interventi, di affermare un principio di carattere generale che imponga un sovvertimento del nostro sistema della responsabilità civile, legato al concetto di perdita-conseguenza della lesione della situazione giuridica soggettiva e non invece all’evento lesivo in sé considerato, e obblighi alla riparazione per equivalente di ogni perdita derivante dal reato, anche quando manchi un soggetto al quale la perdita sia riferita (cosi, Cass., sez. Un., n. 15350/2015, cit).
7.4. – Infine, è opportuno rammentare che, come è stato osservato da autorevole dottrina, i diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione europea sono entrati nel diritto comunitario grazie alla giurisprudenza della Corte di giustizia, la quale – a partire dalle sentenze del 12 novembre 1969, causa 26/69 (Stauder) e del 17 dicembre 1970, causa 11/70 (Internationale Handelsgesellschaft) – ha dichiarato che i diritti fondamentali sono tutelati da principi generali del diritto comunitario, informati, tra l’altro, alla suddetta Convenzione europea. Tuttavia tali principi – e, quindi, la stessa Convenzione europea – sono vigenti solo nei limiti del diritto materiale del diritto comunitario, e oggi dell’Unione europea. Essi, cioè, “obbligano gli Stati membri (nonché le istituzioni, organi e organismi dell’Unione) solo per quanto riguarda il loro operato nelle materie che rientrano già nell’ambito di tate diritto, come la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi, o le regole sulla concorrenza ecc. Al di fuori di tali materie, per esempio rispetto a certe situazioni esclusivamente interne agii Stati membri (e sulle quali non sussiste una normativa dell’Unione), i diritti fondamentali, compresi quelli contemplati dalla Convenzione europea, restano estranei al diritto dell’Unione e alle competenze di quest’ultima”. E tanto è avvalorato anche dal rilievo empirico che, ad eccezione della giurisprudenza portoghese, tutta la giurisprudenza europea è attestata, nella materia de qua, sulla stessa linea di quella italiana.
– Quest’ultima considerazione consente anche di superare l’ulteriore obiezione dei ricorrenti, i quali ritengono doversi dare applicazione alla giurisprudenza della Corte di giustizia,- che in numerose cause ed in applicazione delle direttive europee in materia di assicurazione responsabilità civile degli autoveicoli include anche il pregiudizio alla vita, – ovvero doversi disporre la “rimessione degli atti” gli atti per la manifesta violazione da parte del diritto nazionale di norme dei trattati internazionali. La competenza pregiudiziale o di rinvio è attribuita alla Corte di giustizia dall’alt. 267 TFUE riguardo ad una questione relativa all’interpretazione di una disposizione del diritto dell’unione o alla validità di un atto dell’unione, la cui soluzione sia necessaria affinché il giudice nazionale possa decidere la causa: condizioni questi che non sussistono nel caso in esame, in mancanza dell’esatta individuazione della disposizione europea che si presume violata.
8. – E’ invece inammissibile la censura, affrontata nel quarto motivo di ricorso, concernente l’onere della prova circa l’esistenza di un apprezzabile lasso di tempo tra l’infortunio e il decesso del congiunto, che secondo i ricorrenti sarebbe stato illegittimamente posto a loro carico dal giudice del merito. Premesso che l’onere della prova spetta a colui che invoca il risarcimento (v. Cass., 19402 del 22/08/2013), la parte difetta di interesse alla questione, non avendo censurato l’ulteriore ratio decidendi della Corte territoriale, che ha ritenuto in ogni caso provata l’immediatezza della morte del lavoratore a seguito delle lesioni da schiacciamento del capo.
Ed invero, qualora, invero, la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali “rationes decidendi, neppure sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass., Sez. Un., Sentenza del 29/03/2013, n. 7931).
9. – Il rigetto del ricorso principale comporta l’assorbimento del primo motivo del ricorso incidentale, con il quale la società denuncia la “violazione e falsa applicazione dei precetti di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c., e difetto e insufficienza di motivazione ex art. 360, n. 5 c.p.c., con riferimento alla mancata trattazione delle eccezioni preliminari di giudicato o, in subordine, di prescrizione, nonché di improcedibilità dei ricorsi n. 191/2007 e 204/2007 innanzi al Giudice di Forlì, opposte quale motivo di inammissibilità degli avversi ricorsi, in prime e seconde cure”.
Il ricorso incidentale per cassazione della parte totalmente vittoriosa, che investa questioni pregiudiziali processuali o preliminari di merito, ha natura di ricorso condizionato. Ne consegue che il loro esame postula la proposizione di un’impugnazione che sia ammissibile in presenza di un interesse della parte, che sorge solo in presenza della fondatezza del ricorso principale; in caso contrario, il ricorrente incidentale manca di interesse alla pronuncia sulla propria impugnazione, poiché il suo eventuale accoglimento non potrebbe procurargli un risultato più favorevole di quello derivante dal rigetto del ricorso principale (Cass. Sez. Un., Sentenza n. 23019 del 31/10/2007).
10. – Con il secondo motivo del ricorso incidentale la Z. s.r.l. denuncia la sentenza per insufficiente o errata motivazione, nonché per violazione dell’art. 91 c.p.c., relativamente alla statuizione di compensazione delle spese di lite.
La denuncia è fondata sulla genericità delle “presunte ragioni di equità”, che nella specie non ricorrerebbero considerato il contegno processuale delle parti non improntato alla lealtà e probità e caratterizzato piuttosto da un inammissibile frazionamento delle domande.
Il motivo è infondato. Alla controversia in esame trova applicazione ratione temporis l’art. 92 cod.proc.civ. nel testo modificato dall’art. 2, comma 1° lett. a) della legge 28 dicembre 2005, n. 263, applicabile ai procedimenti instaurati dopo il 1 marzo 2006 (i ricorsi sono stati depositati il 18 settembre 2006 ed il 29 novembre 2006), il quale prevede che il giudice possa compensare in tutto o in parte le spese di lite in caso di soccombenza reciproca, oppure ove concorrano altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione. La Corte d’appello ha ritenuto di giustificare la compensazione attraverso il richiamo a “ragioni di equità”, che benché non specificamente enunciate sono comunque ravvisabili nell’intero contesto motivazionale e nella vicenda umana che ha dato causa alla lite. A ciò deve aggiungersi l’obbiettiva controvertibilità della questione relativa al danno da morte, oggetto di rimessione alle Sezioni unite e decisa solo nel corso dei giudizio di cassazione.
In definitiva, per le considerazioni su svolte, entrambi i ricorsi devono essere rigettati. Le ragioni esposte in ordine al rigetto del secondo motivo del ricorso incidentale della Z. s.r.l. giustificano la compensazione delle spese anche del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte, sui ricorsi riuniti, li rigetta e compensa le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 23 marzo 2016

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