Operaio scivola sul pavimento dell’officina. Domanda per il riconoscimento della rendita da infortunio.
Presidente: MACIOCE LUIGI
Relatore: BLASUTTO DANIELA
Data pubblicazione: 21/12/2015
Fatto
La Corte di appello di Potenza, con sentenza depositata il 6 giugno 2010 ha confermato la sentenza con cui era stata respinta la domanda proposta da B.D. nei confronti. dell’INAIL e del datore di lavoro, soc. SATA (Società Automobilistiche Tecnologiche Avanzate s.p.a.), diretta al riconoscimento di una rendita per l’infortunio sul lavoro occorso il 21.7.1997.
La Corte distrettuale ha, innanzitutto, confermato la declaratoria di difetto di legittimazione passiva della soc. Sata, avendo la domanda ad oggetto unicamente il riconoscimento di una prestazione previdenziale e non l’accertamento della responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c..
Quanto ai postumi dell’infortunio lavorativo, ha ritenuto condivisibili le conclusioni espresse dal C.t.u. nominato in secondo grado, fondate sull’esame dei dati anamnestici, clinici e strumentali, oltre che sull’obiettività clinica rilevata durante la visita peritale. Secondo tali conclusioni, nell’infortunio il lavoratore riportò “contusione del ginocchio sx già operato di meniscectomia mediale”; tale menomazione fu “ritenuta abbisognevole di riposo per soli giorni tre”, senza postumi invalidanti di carattere permanente, mentre “la lesione inveterata del legamento crociato anteriore e condromalacia di 2° grado del condilo mediale del femore” erano ascrivibili a “patologia extralavorativa, non in nesso di causalità con l’evento infortunistico del 21.7.97”.
Propone ricorso per cassazione il B.D. con un motivo. Resistono l’INAIL e la soc. SATA con controricorso.
Diritto
Preliminarmente, è inammissibile il ricorso nei confronti della soc. SATA, che è stata estromessa dal giudizio con statuizione non specificamente impugnata.
Né la società è stata solo evocata per “denuntiatio litis”, poiché se ne chiede la condanna nelle conclusioni del ricorso.
Con unico motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 74 e 79 d.P.R. 1124/1965, nonché vizio di motivazione per avere la Corte di appello rigettato la domanda per mancanza di nesso di causalità tra patologia sofferta dal ricorrente (lesione del legamento ginocchio sx) e l’infortunio occorso il 21.7.97, quando il ricorrente scivolò sul pavimento dell’officina reso viscido dalla presenza di olio. Si assume che la Corte di appello avrebbe omesso di indagare sul tipo di lavoro svolto dal ricorrente in qualità di operaio della SATA, onde stabilire se egli “avesse potuto subire una lesione del legamento crociato anteriore del ginocchio sinistro nello svolgimento della sua attività lavorativa”, non potendosi condividere quanto ritenuto dal C.t.u. secondo cui la rottura traumatica del legamento crociato anteriore, parziale o completa, avviene a seguito di traumi che si verificano nel corso di accese competizioni atletiche, cioè mediante torsione del ginocchio, che nella specie non vi era stata.
Il motivo è infondato.
Quanto alla denunciata violazione di legge, non si coglie nel ricorso alcuna specifica censura che attenga all’interpretazione o applicazione delle norme di legge menzionate nella rubrica del motivo; sul punto il ricorso è del tutto generico. Parimenti, priva di specificità (art 366, primo comma, n. 4 c.p.c.) è la censura che attiene alla c.tu., non essendo stata denunciata alcuna palese devianza delle conclusioni espresse dal Consulente d’ufficio – circa il carattere extralavorativo della rottura traumatica del legamento crociato anteriore – dalle nozioni correnti della scienza medica, né l’omissione di quegli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non possa prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi. Al di fuori di tale ambito, difatti, la censura sull’indagine peritale costituisce mero dissenso diagnostico che si traduce in un’inammissibile critica del convincimento del giudice (Cass. n. 1652 del 2012). La giurisprudenza di questa Corte è del tutto consolidata al riguardo (cfr. ex multis, Cass. n. 569 del 2011; n. 8654 del 2008, 9988 del 2009, n. 15796 del 2004).
A ciò aggiungasi che, nel caso in esame, la parte ha del tutto omesso di riportare nel ricorso per cassazione il testo della c.tu. medico-legale, almeno nei passaggi salienti e non condivisi, limitandosi ad opporre le proprie critiche. Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, la parte ricorrente che lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma, avuto riguardo al carattere limitato del giudizio di cassazione, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di motivazione (Cass. n. 16368 del 2014, n. 13845 del 2007). La sola contestazione dell’esattezza delle conclusioni dell’espletata consulenza mediante la pura e semplice contrapposizione ad esse delle diverse valutazioni espresse dal consulente tecnico di parte non è sufficiente, di per sé, ad evidenziare alcun errore delle prime – con conseguente insufficienze della motivazione della sentenza che ad esse si sia limitata a riferirsi -, ma solo la diversità dei giudizi formulati dagli esperti (cfr. Cass. n. 7078 del 2006).
Pertanto, il ricorso va respinto.
Alla fattispecie è applicabile la disciplina delle spese di cui all’art. 42 comma 11 d.l. 30.9.2003 n. 269, conv.- con modificazioni – nella legge n. 326 del 24.11.2003, trattandosi di procedimento avviato successivamente al 2 ottobre 2003.
L’art. 152 disp. att. cod. proc. civ., nel testo modificato dall’art. 42, comma 11 del d.l. n. 269 del 2003, convertito nella legge n. 326 del 2003, dispone che “L’interessato che, con riferimento all’anno precedente a quello di instaurazione del giudizio, si trova nelle condizioni indicate nel presente articolo formula apposita dichiarazione sostitutiva di certificazione nelle conclusioni dell’atto introduttivo e si impegna a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti dei limiti di reddito verificatesi nell’anno precedente”. Tale norma si interpreta nel senso che l’onere autocertificativo imposto alla parte ricorrente deve essere assolto con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado ed esplica la sua efficacia, senza necessità di ulteriore reiterazione, anche nelle fasi successive, valendo, fino all’esito definitivo del processo, l’impegno di comunicare le variazioni reddituali eventualmente rilevanti che facciano venire meno le condizioni di esonero (cfr. ex plurimis, Cass. 16284 del 2011; v. pure (ex multis, Cass. 10875/2009; Cass. 17197/2010; Cass. 13367/2011).
L’odierno ricorrente non allega di avere provveduto al suddetto onere autocertificativo; pertanto, difetta uno dei presupposti per l’esonero dal pagamento delle spese di cui all’art. 152 disp. att. c.p.c.. Di conseguenza, le spese sono regolate secondo il principio della soccombenza e vengono liquidate nella misura indicata in dispositivo, in favore di ciascuna parte resistente (INAIL e soc. SATA) per esborsi e compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi delTart. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, e accessori di legge.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in € 100,00 per esborsi ed € 2.500,00 per compensi in favore di ciascuna delle parti controricorrenti, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 19 novembre 2015