Rendita da infortunio sul lavoro e mancato raggiungimento della soglia legale.
Presidente: MANNA ANTONIO
Relatore: BERRINO UMBERTO
Data pubblicazione: 21/03/2016
Fatto
Con sentenza del 13/5 – 24/8/2011 la Corte d’appello di Napoli ha rigettato l’impugnazione di P.E. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Nola che gli aveva respinto la domanda volta alla condanna dell’Inail alla costituzione di una rendita da infortunio sul lavoro del 5.4.1999 per invalidità permanente pari al 33-34%.
La Corte partenopea ha spiegato che all’esito della nuova perizia medico-legale svolta in sede di gravame era risultato confermato quanto accertato dal primo giudice in ordine al mancato raggiungimento della soglia legale dell’11% per il conseguimento della suddetta prestazione.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso P.E. con tre motivi.
Resiste con controricorso l’Inail.
Diritto
1. Col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 66-74-78 del DPR. N. 1124 del 30/6/1965 e delDM 12 luglio 2000, nonché il vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., assumendo l’erroneità della decisione della Corte territoriale in quanto basata sulla relazione del consulente che ha espletato la perizia medico-legale nel secondo grado di giudizio applicando in modo sbagliato i criteri di valutazione ai fini del riconoscimento dell’invocata rendita. Il ricorrente contesta, altresì, l’affermazione della Corte d’appello secondo la quale egli non aveva controdedotto nulla rispetto al mancato raggiungimento della soglia legale di riferimento dell’11% “ratione temporis” applicabile, assumendo, in contrario, che egli aveva reiterato in sede di gravame le richieste avanzate in fatto ed in diritto in prime cure a sostegno della domanda.
2. Col secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 61, 115, 116 e 445 c.p.c., 145 e 146 disp. att. c.p.c., 2697 c.c., 74 e 78 del D.P.R. n. 1124/65 e del D.M. 12/7/2000, nonché il vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. .
Il ricorrente, una volta premesso che le patologie certificate a suo carico erano due (ipoacusia monolaterale sinistra e disturbo post traumatico da stress) e che il primo consulente ne aveva, invece, riconosciuta una, sostiene che il consulente d’ufficio di secondo grado, nel valutare il danno complessivo e pur attribuendo alla seconda patologia 1-2 punti percentuali, non si era attenuto ai criteri per i danni composti di cui alla tabella INAIL.
Osserva la Corte che il primo ed il secondo motivo, che possono esaminarsi congiuntamente per ragioni di connessione, sono infondati.
Anzitutto, va premesso che la valutazione del grado di riduzione dell’attitudine lavorativa da infortunio sul lavoro importa un giudizio di ordine sanitario demandabile ad un consulente tecnico e non una questione di natura giuridica riservata al giudice (v. Cass. sez. 2, n. 230/1970). Analogamente, la valutazione del predetto grado di riduzione lavorativa alla luce di una tabella medico-legale, anziché di un’altra indicata dalla parte, che non rappresenta una fonte di diritto, si pone sul piano del giudizio di fatto e la rispondenza del metodo adottato ai principi della normativa infortunistica non si sottrae al sindacato giudiziale, pur permanendo la valutazione del caso concreto un tipico giudizio di fatto.
Al riguardo si è, infatti, precisato (Cass. sez. lav. n. 23970 del 16/11/2011) che “in tema di ipoacusia da rumore, l’accordo tra l’INAIL e i patronati concluso il primo agosto 1994 in riferimento ad un metodo più rigoroso di valutazione del grado di riduzione dell’attitudine al lavoro determinato dalla suddetta malattia, non rappresenta una fonte di diritto, ma si pone sul piano del giudizio di fatto e la rispondenza del metodo adottato ai principi della normativa infortunistica non si sottrae al sindacato giudiziale, pur permanendo la valutazione del caso concreto un tipico giudizio di fatto. Ove, poi, l’assicurato denunci l’erroneità della valutazione del grado inabilitante operata dall’istituto assicuratore, la sua verifica va operata con la stessa metodologia applicata al tempo della valutazione asseritamente errata, criterio che, peraltro, ha assunto dignità normativa con l’art. 9 del d.lgs. n. 38 del 2000. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto corretta l’adozione, da parte del ctu, del metodo Motta, in luogo di quello recepito nell’accordo INAIL-Patronati, neppure in uso al tempo della revisione dell’inabilità, rilevando in ogni caso che l’ “accordo” in questione prevede espressamente che, in caso di revisione, debba essere applicato lo stesso criterio valutativo, ossia la tabella usata in sede di costituzione originaria della rendita)!
In realtà, le censure si risolvono sostanzialmente in un mero dissenso diagnostico del giudizio espresso dal consulente d’ufficio di secondo grado e recepito dalla Corte d’appello con adeguata motivazione immune da rilievi di tipo logico-giuridico. Né la critica all’utilizzo di una tabella anziché di un’altra può equivalere, per quanto detto innanzi, a denunzia di discostamento dai canoni scientifici.
In effetti, allorquando il giudice di merito fondi, come nel caso in esame, la sua decisione sulle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, facendole proprie, perché i lamentati errori e lacune della consulenza determinino un vizio di motivazione della sentenza di merito, censurabile in sede di legittimità, è necessario che essi siano la conseguenza di errori dovuti alla documentata devianza dai canoni della scienza medica o di omissione degli accertamenti strumentali e diagnostici dai quali non si possa prescindere per la formulazione di una corretta diagnosi.
Orbene, sotto questo specifico aspetto, non è sufficiente, per la sussistenza del vizio di motivazione, la mera prospettazione di una semplice difformità tra le valutazioni del CTU e quella della parte circa l’entità e l’incidenza del dato patologico, poiché in mancanza degli errori e delle omissioni sopra specificate le censure di difetto di motivazione costituiscono un mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico e si traducono in una inammissibile richiesta di revisione del merito del convincimento del giudice (cfr. tra le tante Cass. n. 7341/2004, Cass. sez. lav. n. 16392 di 20/8/2004 e n. 17324 del 25/8/2005).
3. Col terzo motivo, dedotto ai sensi dell’alt. 360 n. 3 c.p.c. per violazione e falsa applicazione dell’alt. 324 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c., nonché per vizio di insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., il ricorrente contesta l’affermazione, contenuta nell’impugnata sentenza, sul formarsi del giudicato in ordine al periodo di invalidità temporanea assoluta di 40 giorni dal 9 aprile al 18 maggio del 1999, assumendo che in entrambi i gradi del giudizio aveva chiesto il riconoscimento di tale inabilità fino al 18/8/1999.
Tale motivo è inammissibile in quanto in relazione allo stesso fatto la questione è posta promiscuamente sia come vizio di violazione di legge che come vizio di merito. Infatti, come questa Corte ha già avuto occasione di statuire (Cass. sez. 1 n. 19443 del 23/9/2011) “in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 cod. proc. civ., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse.
Si è anche precisato (Cass. Sez. 3, n. 10295 del 7/5/2007) che tra le due relative censure di vizio di violazione di legge e di motivazione deducibili in sede di legittimità non vi possono essere giustapposizioni in quanto il ricorrente non può denunciare contemporaneamente la violazione di norme di diritto e il difetto di motivazione, attribuendo alla decisione impugnata un’errata applicazione delle norme di diritto, senza indicare la diversa prospettazione attraverso la quale si sarebbe giunti ad un giudizio sul fatto diverso da quello contemplato dalla norma di diritto applicata al caso concreto, perché la deduzione di questa deficienza verrebbe, nella realtà, a mascherare una richiesta di diversa ricostruzione dei fatti, non consentita in sede di legittimità.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Ai sensi dell’art. 152 disp. att. cod. proc. civ., il lavoratore resta esonerato dal pagamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità, atteso che il ricorso di primo grado risale al 21/3/2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
Così deciso in Roma il 2 dicembre 2015