Repertorio Salute

Cassazione Civile, Sez. Lav., 22 febbraio 2016, n. 3424

Rapine alle Poste. Malattia psichica e responsabilità datoriale per mancanza di misure idonee.


Presidente: MACIOCE LUIGI
Relatore: AMENDOLA FABRIZIO
Data pubblicazione: 22/02/2016

Fatto

1. – Con ricorso al Tribunale di Pisa V.T., premesso di esser dipendente di Poste Italiane Spa, esponeva che, prima nel luglio 1995 e poi nell’aprile 1998, quale direttore dell’ufficio postale di G. aveva subito due rapine restando in entrambe le occasioni in balia dei rapinatori armati di pistola; deduceva che da tali eventi era derivata una malattia psichica e denunciava la responsabilità datoriale per violazione dell’art. 2087 c.c., per avere omesso di dotare l’ufficio postale di G. di appropriate difese in grado di proteggere i dipendenti durante lo svolgimento del servizio; concludeva per la condanna della società al risarcimento del danno per lesione del diritto alla salute.
Instaurato il contraddittorio, il giudice monocratico condannava Poste Italiane Spa al risarcimento del danno subito dal V.T. determinato, a seguito di CTU, nella misura complessiva di euro 17.500,00, oltre accessori e spese.
Con sentenza del 5 marzo 2010, la Corte di Appello di Firenze ha respinto l’appello della società, confermando la responsabilità datoriale per violazione dell’art. 2087 c.c. non avendo provveduto a dotare l’ufficio postale di G. “di qualsivoglia dispositivo di sicurezza funzionale alla protezione del personale addetto durante l’orario di servizio”, neanche dopo la prima rapina a mano armata del luglio 1995. Condivideva altresì la liquidazione del danno non patrimoniale effettuata dal primo giudice sulla scorta di una consulenza tecnica d’ufficio ed applicando le tabelle in uso nell’ufficio giudiziario.
2. — Per la cassazione di tale sentenza Poste Italiane Spa ha proposto ricorso con 3 motivi. L’intimato ha resistito con controricorso.

Diritto

3. — I motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati.
Con il primo si denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. nonché vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla dichiarata sussistenza della responsabilità del datore di lavoro; si sostiene che la società Poste Italiane avrebbe assolto a tutti gli obblighi di legge sulla medesima incombenti, in quanto le ridotte dimensioni dell’ufficio di G. e la scarsa dotazione di denaro escludevano che l’evento rapina avesse un grado di probabilità apprezzabile ai fini della configurabilità di un obbligo da parte della datrice di lavoro di apprestare particolari misure di sicurezza, ulteriori rispetto a quelle già apprestate.
Con il secondo mezzo di impugnazione si deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. nonché ancora omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in quanto il V.T. avrebbe dovuto provare che, con l’adozione delle misure di sicurezza invocate, non si sarebbero verificate le rapine.
Con il terzo motivo si eccepisce violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. nonché di numerose norme processuali, oltre ad omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, in quanto la Corte avrebbe condiviso l’elaborato peritale, nonostante la consulenza tecnica d’ufficio non avesse compiuto alcun esame specifico circa la derivazione causale della patologia del V.T. dagli eventi delittuosi.
4. — Il ricorso non può trovare accoglimento.
4.1.— In ordine ai primi due motivi, esaminabili congiuntamente per reciproca inferenza, il Collegio reputa gli stessi infondati.
Ancora di recente questa Corte Suprema ha avuto modo di statuire proprio in riferimento a rapine presso uffici postali (v. Cass. n.23793 del 2015 e n. 7405 del 2015), che l’art. 2087 c.c. rende necessario l’apprestamento di adeguati mezzi di tutela dell’Integrità psicofisica dei lavoratori nei confronti dell’attività criminosa di terzi nei casi in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia di attività esercitata, in ragione della movimentazione, anche contenuta, di somme di denaro, nonché delle plurime reiterazioni di rapine in un determinato arco temporale.
Nello specifico, questa Corte ha cassato la sentenza che aveva negato il nesso causale tra la verificazione degli eventi criminosi e la mancata adozione di qualsivoglia misura specificamente diretta ad impedire, prevenire o comunque rendere più difficoltoso il realizzarsi di rapine ai danni di un ufficio postale di ridotte dimensioni, presso il quale non vi era alcun sistema di allarme rivolto all’esterno, ma solo una protezione del banco cassa con vetro antisfondamento (Cass. n. 7405/15 cit.), come pure ha respinto il ricorso delle Poste in un caso in cui gli unici accorgimenti contro il rischio di rapine erano costituiti da sbarre alle finestre, pareti esterne a spessore rinforzato ed istruzioni affinché il personale dell’ufficio non opponesse resistenza alcuna (Cass. n. 23793/15).
Analoga è la situazione che è stata accertata dai giudici di merito nella vicenda in esame, secondo cui la società non aveva provveduto a dotare l’ufficio postale di G. “di qualsivoglia dispositivo di sicurezza funzionale alla protezione del personale addetto durante l’orario di servizio”, neanche dopo la prima rapina a mano armata del luglio 1995, “tali non essendo, di certo, le inferriate alle finestre ed il maggiore spessore dei muri esterni, volti ad evitare intrusioni durante la chiusura al pubblico dell’ufficio”.
Ciò posto, va ribadito che è dovere del datore di lavoro apprestare tutte le misure di sicurezza previste dalla normativa di riferimento o comunque esigibili secondo la tecnologia del momento, il che non significa che tali mezzi debbano essere certamente in grado di impedire il verificarsi di episodi criminosi a danno del dipendente, bensì che gli stessi siano idonei, secondo criteri di comune esperienza, a svolgere una funzione almeno dissuasiva e, quindi, preventiva e protettiva.
Inoltre, se è vero che dall’art. 2087 c.c. non può evincersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere automatica la responsabilità del datore di lavoro ogni qual volta si verifichi un danno, nondimeno nel caso di specie i giudici di merito hanno in concreto individuato (v. pag. 5 della sentenza impugnata) svariati accorgimenti suggeriti dalla tecnica al giorno d’oggi disponibile al fine di prevenire il rischio di rapine, evidenziando che nessuno di essi era stato adottato presso l’ufficio postale di G..
In definitiva, poiché si tratta di accertamento di fatto (argomenta ex Cass. n. 4840 del 2006), sorretto da motivazione adeguata e coerente con i principi innanzi espressi, la sentenza si sottrae alle censure che le vengono mosse.
4.2.— Circa il terzo motivo, con cui si critica l’adesione della decisione impugnata alla consulenza tecnica d’ufficio espletata in primo grado in ordine al nesso causale tra la patologia accertata e le rapine, occorre preliminarmente rammentare che, nel caso in cui il giudice respinga o accolga la domanda avvalendosi del parere di un consulente tecnico d’ufficio, tanto più quando è richiesto un accertamento di situazioni rilevabili solo con l’ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche (come avviene con la consulenza medico-legale), questa Corte ha più volte ribadito che il giudice del merito non è tenuto a giustificare diffusamente le ragioni della propria adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, ove manchino contrarie argomentazioni delle parti o esse non siano specifiche, potendo, in tal caso, limitarsi a riconoscere quelle conclusioni come giustificate dalle indagini svolte dall’esperto e dalle spiegazioni contenute nella relativa relazione, mentre occorre una più puntuale motivazione allorquando le critiche mosse alla consulenza siano specifiche e tali, se fondate, da condurre ad una decisione diversa da quella adottata (cfr., ex plurimis, Cass. n. 1660 del 2014; n. 25862 del 2011; n. 10688 del 2008; n. 4797 del 2007; n. 26694 del 2006; n. 10668 del 2005).
Inoltre, dal punto di vista processuale, il vizio di difetto di motivazione per criticata adesione alle risultanze di una consulenza tecnica d’ufficio non può prescindere dall’osservanza degli oneri imposti dall’art. 366, co. 1, n. 6, c.p.c., secondo cui il ricorso per cassazione tra l’altro deve contenere, “a pena di inammissibilità”, “la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”, nonché dall’art. 369, co. 2, n. 4, c.p.c., secondo cui, insieme con il ricorso per cassazione debbono essere depositati tra l’altro, “a pena di improcedibilità”, “gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”. Per assolvere al requisito di ammissibilità di natura contenutistica (v. Cass. SS. UU. n. 28547 del 2008) occorre sia che il documento venga specificamente indicato nel ricorso, con la riproduzione quanto meno del contenuto rilevante (Cass. n. 17168 del 2012), sia che si dettagli in quale sede processuale risulti prodotto, “poiché indicare un documento significa necessariamente, oltre che specificare gli elementi che valgono ad individuarlo, dire dove nel processo è rintracciabile” (cfr. Cass. SS. UU. n. 7161 del 2010). Pertanto, nel caso in cui il motivo del ricorso per cassazione si fondi sulle contestazioni delle risultanze di una consulenza tecnica d’ufficio, per rispettare il canone dell’autosufficienza è necessario che il contenuto della stessa, quanto meno nelle sue parti rilevanti, sia riportato in ricorso (Cass. n. 1652 del 2012), oltre a precisare dove la stessa sia reperibile e dove sia stata prodotta.
Alla stregua dei principi innanzi espressi il terzo motivo di gravame risulta inammissibile, sia perché non riporta i contenuti rilevanti della CTU contestata, sia perché non indica specificamente dove la stessa sia reperibile e dove sia stata prodotta, di talché non è possibile verificare se i rilievi mossi alla medesima siano decisivi, neppure sotto il profilo della contestata liquidazione del danno morale, tenuto altresì conto che la Corte territoriale ha confermato la liquidazione del danno non patrimoniale subito dal danneggiato effettuata dal giudice di prime cure applicando le tabelle in uso nell’ufficio giudiziario.
5. — Conclusivamente il ricorso va respinto.
Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 3.100,00, di cui euro 100.00 per esborsi, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 15 dicembre

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