Cassazione Civile, Sez. Lav., 28 agosto 2015, n. 17285

Risarcimento del danno da mancati riposi stabiliti dal regolamento CEE n. 3820 del 1985.


 

Presidente: MACIOCE LUIGI
Relatore: BUFFA FRANCESCO
Data pubblicazione: 28/08/2015

Fatto

1. La corte d’appello di Lecce, con sentenza del 19/4/11, confermando la sentenza del 11/12/09 del tribunale della stessa sede, ha condannato la Società Trasporti pubblici di Terra d’Otranto al pagamento delle somme indicate per ciascun lavoratore, oltre accessori e spese legali, a titolo di risarcimento del danno da mancati riposi stabiliti dal regolamento CEE n. 3820 del 1985, richiamato oggi dall’art. 174 del nuovo codice della strada (riposo minimo di 11 ore giornaliere e riposo settimanale di 45 ore consecutive), e non fruiti benché gli stessi fossero stati addetti per cinque giorni alla settimana alla guida di mezzi destinati al trasporto di passeggeri su percorsi più lunghi di 50 chilometri.
2. In particolare, la corte territoriale ha confermato la decisione del tribunale che -ritenendo peraltro che le soste inoperose fuori residenza intervallavano corse del turno e non potevano essere considerati riposo- aveva quantificato i mancati riposi sulla base di CTU espletata sulla base di documenti prodotti dalle parti (alcuni dei quali direttamente al consulente), traendo argomenti di prova dalla mancata ottemperanza all’ordine di esibizione di documenti disposta nei confronti del datore di lavoro; la corte ha quindi ritenuto presunto il danno subito dai lavoratori, qualificato come danno da usura psicofisica e non come danno biologico, liquidando il danno in via equitativa, utilizzando come parametro di riferimento la retribuzione prevista dalla contrattazione collettiva di settore per la maggiorazione del lavoro straordinario, notturno e festivo.
3. Avverso tale sentenza ricorre il datore per quattro motivi, cui resistono i lavoratori con controricorso. Le parti hanno presentato memorie.

Diritto

4. Con il primo motivo si deduce vizio di motivazione della sentenza impugnata sulla prova del diritto al risarcimento, per aver risarcito il mancato riposo in assenza di prova del danno.
5. Con il secondo motivo si deduce vizio di motivazione su ammissione di prove documentali tardive.
6. Con il terzo motivo si deduce vizio di motivazione sull’entità del danno, per aver quantificato il danno equitativamente in difetto di prova.
7. Con il quarto motivo si deduce vizio di motivazione sull’entità del danno, per aver quantificato il danno equitativamente utilizzando senza motivazione la retribuzione relativa allo straordinario.
8. E’ preliminare l’esame del secondo motivo, che attiene alle prove -asseritamente tardive- utilizzate per l’accertamento dei fatti.
9. Il motivo è inammissibile, in considerazione della novità della questione, che -come rilevato dai controricorrenti- non risulta esser stata proposta innanzi al giudice di merito nei termini di legge.
10. Con il primo motivo si deduce vizio di motivazione della sentenza impugnata sulle prove utilizzate a dimostrazione del danno, per non aver considerato che il CTI), sopperendo alle carenze probatorie dei ricorrenti, ha acquisito direttamente documenti dalle parti in violazione dei termini di produzione documentale, e per aver attribuito rilevanza alla mancata ottemperanza da parte del datore ad ordine di esibizione documentale, laddove l’onere della prova era a carico del lavoratore.
11. Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
Sotto il primo profilo, non viene specificato, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso, quali sarebbero stati i documenti irritualmente acquisiti nel corso del giudizio di primo grado, quale il loro contenuto, quale sìa stata l’influenza degli stessi sulla decisione, quale siano state specificamente le deduzioni sul punto dell’appellante e, per altro verso, quali i limiti alla acquisizione dei detti documenti ai fini della ricerca della verità materiale.
Da un lato, infatti, questa Corte ha costantemente ritenuto (anche ai sensi dell’art. 360 bis, comma 1, cod. proc. civ.: Cass. Sez. 6 -L, Ordinanza n. 17915 del 30/07/2010, Rv. 614538) che il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire ai giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (Sez. 3, Sentenza n. 13677 del 31/07/2012, Rv. 623452; Sez. L, Sentenza n. 21632 del 20/09/2013, Rv. 628683; Sez. L, Sentenza n. 15751 del 21/10/2003, Rv. 567559; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 48 del 03/01/2014, Rv. 629011).
Dall’altro lato, è consolidato il principio secondo il quale, nel rito del lavoro, il rigoroso sistema delle preclusioni che regola in egual modo sia l’ammissione delle prove costituite che di quelle costituende trova un contemperamento – ispirato alla esigenza della ricerca della “verità materiale”, cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento – nei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse (Sez. L, Sentenza n. 23882 del 09/11/2006, Rv. 593504). Ne deriva che, nel caso in cui il giudice abbia tenuto conto di documenti irritualmente prodotti da una parte, idonei a provare fatti dalla stessa dedotti ritualmente e sottoposti -pur tardivamente- al contraddittorio delle parti (come nella specie), la parte che intende censurare tale operato deve dedurre non solo l’irritualità della utilizzazione del materiale probatorio, ma anche la inutilità dei documenti ai fini della verità materiale, restando altrimenti priva di decisività la questione processuale sollevata.
12.11 motivo per il secondo profilo sollevato è infondato.
La giurisprudenza di legittimità ha infatti chiarito da un lato che il lavoratore, in caso di loro rilevanza, ha diritto di conseguire l’esibizione in giudizio, da parte del datore di lavoro, dei documenti relativi alle vicende del rapporto di lavoro (Sez. L, Sentenza n. 9961 del 26/04/2007, Rv. 596576) e, dall’altro lato, che rientra nei poteri discrezionali dei giudice -il cui esercizio non è sindacabile in sede di legittimità- il potere di ordinare alle parti o a terzi l’esibizione di documenti (Sez. L, Sentenza n. 5242 del 09/04/2001, Rv. 545759), e che discrezionale è anche il potere di desumere argomenti di prova dall’inosservanza dell’ordine di esibizione (sebbene per l’eventuale valutabilità del rifiuto di esibizione di documenti come ammissione del fatto sia necessario che vi siano elementi di prova concorrente: Sez. L, Sentenza n. 17076 del 27/08/2004, Rv. 577092).
Nella specie, a fronte della produzione da parte dei lavoratori dei turni di lavoro per dato periodo del rapporto (con correlativa prova documentale del supermento dei limiti legali prescritti per i riposi giornalieri e settimanali), il giudice di merito ha ordinato al datore di esibire i documenti relativi ad altre parte del periodo lavorato, presumendosi (in difetto di allegazione e prova contraria) che i turni di lavoro documentati dai lavoratori siano rimasti immutati, e, non avendo il datore ottemperato all’ordine di esibizione, il giudice ha tratto elementi di giudizio in ordine alla reiterazione nel tempo delle modalità di espletamento del lavoro (e quindi della violazione datoriale dei limiti legali). La sentenza impugnata, motivata adeguatamente sia in ordine ai presupposti per l’ordine di esibizione che in relazione alla valutazione delle conseguenze della mancata ottemperanza all’ordine, si sottrae dunque alle censure prospettate.
13.11 terzo motivo è infondato.
In linea generale (cfr., da ultimo, Cass. Sez. L, Sentenza n. 2886 del 10/02/2014, Rv.630472) il danno da stress, o usura psicofisica, si inscrive nella categoria unitaria del danno non patrimoniale causato da inadempimento contrattuale e, in linea generale, la sua risarcibilità presuppone la sussistenza di un pregiudizio concreto sofferto dal titolare dell’interesse leso, sul quale grava l’onere della relativa allegazione e prova, anche attraverso presunzioni semplici.
Con specifico riferimento al lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo, peraltro, questa Corte ha ritenuto (Sez. L, Sentenza n. 16398 del 20/08/2004, Rv.576013) di distinguere il danno da “usura psico-fisica”, conseguente alla mancata fruizione dei riposo dopo sei giorni di lavoro, dall’ulteriore danno alla salute o danno biologico, che si concretizza, invece, in una “infermità” dei lavoratore determinata dall’attività lavorativa usurante svolta in conseguenza di una continua attività lavorativa non seguita dai riposi settimanali e che nella prima ipotesi, a differenza che nella seconda ipotesi, il danno sull'”an” deve ritenersi presunto (così anche Sez. L, Sentenza n. 2455 del 04/03/2000, Rv.534580).
La soluzione si spiega in considerazione della circostanza che nella fattispecie l’interesse del lavoratore leso dall’inadempimento datoriale ha una diretta copertura costituzionale nell’art. 36 Cost., sicché la lesione dell’interesse espone direttamente il datore al risarcimento del danno non patrimoniale (a differenza di quanto avviene in altre diverse fattispecie -per le quali siffatta copertura non sussiste-, come in relazione al danno derivante dal mancato riconoscimento delle soste obbligatorie nella guida per una durata di almeno 15 minuti tra una corsa e quella successiva e, complessivamente, di almeno un’ora per turno giornaliero -previste del Regolamento n. 3820/85/CEE, nonché dall’ art. 14 del Regolamento O.I.L. n. 67 del 1939 e dall’art. 6, primo comma, lett. a) della legge 14 febbraio del 1958, n. 138-, esaminato dalla sentenza 2886/2014 su richiamata).
14.Nella specie, la sentenza impugnata, con motivazione congrua ed immune da errori logici e giuridici, ha ritenuto dimostrata documentalmente la violazione della disciplina dei riposi giornalieri e settimanali ed ha riconosciuto il danno da usura, quale danno non patrimoniale distinto da quello biologico ed inerente la violazione del diritto al riposo costituzionalmente protetto, quale danno prodottosi per la protrazione della maggior penosità del lavoro imposta dai turni assegnati in un lungo arco temporale (di anni) senza ricorso adeguato a riposi compensativi.
15.Secondo quanto accertato dalla corte territoriale, i lavoratori hanno documentalmente provato l’adibizione a turni di lavoro implicanti il superamento dei limiti legali previsti per la fruizione dei riposi giornalieri e settimanali; in tal modo, essi hanno provato l’inadempimento datoriale all’obbligo di sicurezza derivante dal contratto di lavoro.
In tale contesto, la fruizione da parte dei lavoratori dei riposi compensativi è fatto impeditivo della pretesa azionata in giudizio il cui onere, come correttamente ritenuto dalla sentenza impugnata, non può che gravare sul datore di lavoro (che nella specie non vi ha ottemperato, a ben vedere neppure allegando in modo specifico entità ed occasione della fruizione dei riposi detti).
16.Con il quarto motivo si deduce vizio di motivazione della sentenza impugnata vizio di motivazione sull’entità del danno, per aver quantificato il danno equitativamente utilizzando senza motivazione la retribuzione relativa allo straordinario.
17.11 motivo è infondato, avendo la corte adeguatamente motivato in ordine al criterio di liquidazione del danno prescelto, facendo corretto riferimento alla maggior penosità della prestazione lavorativa non accompagnata dai prescritti riposi giornalieri e settimanali e, correlativamente, al maggior valore economico della prestazione eccedente i limiti di legge, evocando il compenso previsto dalla contrattazione per l’ipotesi correttamente richiamabile proprio per la sua analogia con la fattispecie dei mancati riposi giornalieri- dello straordinario. La decisione è corretta e non è qui sindacabile, atteso quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, Sentenza n. 1529 del 26/01/2010, Rv. 611250), secondo la quale la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimatività, è suscettibile dì rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria. Del resto, la decisione non solo è immune dai vizi ora detti, ma è anche in linea con gli insegnamenti delle Sez. U (n. 1607 del 03/04/1989, Rv. 462388), secondo le quali, nel caso di prestazione dell’attività lavorativa di domenica, senza fruizione del riposo in altro giorno della settimana, il mancato riposo settimanale, con l’usura psicofisica che ne deriva, costituisce per il lavoratore – cui per tale prestazione dev’essere corrisposta la retribuzione giornaliera (in quanto la paga normale compensa solo sei giorni la settimana) – uno specifico titolo di risarcimento, che è autonomo rispetto al diritto alla maggiorazione per la penosità del lavoro domenicale; tale risarcimento, in mancanza di criteri legali o di principi di razionalità che ne impongano la liquidazione in una somma pari ad un’altra retribuzione giornaliera, dev’essere liquidato in concreto dal giudice del merito, alla stregua di una valutazione che – anche mercé l’utilizzazione di strumenti ed istituti previsti dalla contrattazione collettiva – tenga conto della gravosità delle varie prestazioni lavorative, non essendo il danno per il sacrificio del riposo settimanale determinabile in astratto.
18.Per tutto quanto detto il ricorso deve essere rigettato.
19.Le spese di lite seguono la soccombenza, con distrazione in favore dell’avv. Omissis che ha reso la dichiarazione di rito. La liquidazione è riportata in dispositivo e tiene conto del valore della causa e del numero di parti assistite. Le spese devono, peraltro, essere compensate per metà in relazione al carattere di novità della questione esaminata dalla Corte negli specifici termini prospettati.

P.Q.M.

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte di metà delle spese di lite che si liquidano per l’intero in € 2.400,00 per compensi ed € 100,00 per spese, oltre accessori come per legge e spese generali nella misura de! 15%, con distrazione in favore dell’avv. Omissis. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 2 aprile 2015.

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