Cassazione Civile, Sez. Lav., 30 giugno 2016, n. 13465

Infortunio collettivo nello stabilimento molitorio: esplosione di polveri ed incendio. Art. 2087 c.c.


Presidente: D’ANTONIO ENRICA
Relatore: CAVALLARO LUIGI
Data pubblicazione: 30/06/2016

Fatto

Con sentenza depositata il 13.11.2014, la Corte d’appello di Ancona, decidendo in sede di rinvio, condannava M.A. s.r.l. a pagare all’INAIL la somma di 3.525.071,81 oltre accessori, quale costo dell’infortunio collettivo occorso il 12.6.1989 presso lo stabilimento molitorio di Guardiagrele.
La Corte, per quel che qui rileva, riteneva che, pur non potendosi ricostruire con ragionevole certezza la causa dell’innesco che aveva portato all’esplosione delle polveri e al successivo incendio (a causa dei quali erano deceduti cinque lavoratori, mentre altri otto erano rimasti gravemente feriti), nondimeno poteva rimproverarsi all’azienda di non aver adottato tutte le misure idonee a ridurre le conseguenze dell’esplosione, le quali, benché all’epoca dei fatti non ancora imposte con norma di legge, erano tuttavia conosciute per essere state pubblicate dall’International Standard Organization (ISO) e fatte oggetto di raccomandazione da fonti tedesche e statunitensi.
Avverso questa statuizione ricorre M.A. s.r.l. con ricorso affidato a due motivi. Resiste l’INAIL con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

Con il primo motivo, la società ricorrente deduce nullità della sentenza per violazione degli artt. 132 c.p.c, e 111 Cost, per avere la Corte territoriale affermato la sua responsabilità sulla base di una motivazione contraddittoria, illogica e conseguentemente mancante: ad avviso di parte ricorrente, infatti, sussisterebbe nell’argomentare dei giudici di merito un duplice salto motivazionale, consistente, per un verso, nell’aver equiparato a “mezzi di prevenzione noti e realizzabili” le “prove sperimentali” utili a individuare i parametri necessari per dimensionare adeguatamente i sistemi di sfogo dell’esplosione delle polveri e, per un altro verso, nell’aver derivato dalla esperibilìtà di codeste prove sperimentali che l’evento dannoso fosse prevedibile ed evitabile.
Il motivo è inammissibile. Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che, a seguito della riformulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. ad opera dell’art. 54, d.l. n. 83/2012 (conv. con I. n. 134/2012), l’unica anomalia motivazionale denunciabile per cassazione è quella che attiene all’esistenza della motivazione in sé e sempre che il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere cioè dal confronto con le risultanze processuali, vale a dire la mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, la motivazione apparente, la motivazione contenente un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e la motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, rimanendo esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione (Cass. S.U. n. 8053/2014).
Nel caso di specie, per contro, parte ricorrente pretende di censurare la sentenza impugnata non già per un’intima contraddittorietà della motivazione che dovrebbe rivelarne la sostanziale apparenza, quanto piuttosto perché non ne condivide il giudizio, in primo luogo, in ordine alla sussunzione tra i “mezzi di prevenzione” delle prove sperimentali utili a dimensionare i sistemi di sfogo dell’esplosione e, in secondo luogo, alla configurabilità di un nesso causale tra la mancata effettuazione di codeste prove sperimentali e la possibilità di evitare l’evento dannoso verificatosi in concreto. E tanto basta per rilevare l’inammissibilità del motivo, giacché nelle affermazioni censurate da parte ricorrente è dato rinvenire nient’altro che quella motivazione che in ipotesi si predicava come “mancante”, ossia il procedimento di sussunzione effettuato dalla Corte di merito, la cui censura, se del caso, è possibile solo per falsa applicazione di legge.
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta nullità della sentenza per violazione degli arti. 132 c.p.c. e 111 Cost. e violazione dell’alt. 2087 c.c., per avere la Corte di merito affermato la sua responsabilità nella causazione dell’evento ad onta del consolidato orientamento dì questa Corte di legittimità secondo cui la verificazione del danno non è di per sé sola sufficiente a far scattare a carico dell’imprenditore l’onere probatorio di aver adottato ogni sorta di misura idonea ad evitare l’evento, presupponendo detta prova la dimostrazione del nesso di causalità fra la mancata adozione di determinate misure di sicurezza (specifiche o generiche) e il danno medesimo e non potendo la rimproverabilità di tale omissione estendersi ad ogni ipotetica misura di prevenzione, venendo altrimenti a configurarsi un’ipotesi di responsabilità oggettiva non prevista dall’art. 2087 cit.
Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato. E’ inammissibile nella parte concernente la presunta nullità della sentenza per violazione degli artt. 132 c.p.c. e 111 Cost., non potendo al riguardo che ripetersi le medesime considerazioni dianzi svolte a proposito del primo motivo di ricorso. E’ infondato nella parte concernente la violazione dell’art. 2087 c.c., avendo questa Corte recentemente ribadito che l’osservanza del generico obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro anche l’adozione di misure di sicurezza innominate, ossia di comportamenti specifici che, pur non dettati dalla legge o altra fonte equiparata, siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standards di sicurezza normalmente osservati o trovino comunque riferimento in altre fonti analoghe (Cass. n. 34 del 2016), ed avendo la Corte di merito accertato che l’effettuazione delle prove sperimentali di cui alla norma ISO 6184/1 (e delle analoghe contenute nella Raccomandazione VDI 3673 del Verein Deutscher Ingenieure nella NFPA 68 – Guide for explosion venting) avrebbe consentito di dimensionare le aperture di sfogo del silos in cui ebbe a verificarsi il sinistro in modo che, in caso di esplosione, si sviluppasse una pressione di esplosione ridotta e dalle conseguenze più limitate.
Vale piuttosto la pena di ribadire, anzitutto, che l’art. 2087 c.c., come tutte le clausole generali, ha una funzione di adeguamento permanente dell’ordinamento alla sottostante realtà socio-economica, onde vale a supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio, possedendo una funzione sussidiaria rispetto a quest’ultima e di adeguamento di essa al caso concreto (cfr, Cass. n. 5048 del 1988 e, nello stesso senso, Cass. n. 4012 del 1998): il che equivale a dire non solo che il datore di lavoro è tenuto all’adozione di tutte le misure di prevenzione previste dall’ordinamento positivo, ma altresì che per giudicare della sua diligenza occorre applicare il criterio della massima sicurezza tecnologicamente possibile (v. ancora Cass. n. 4012 del 1998, sulla scorta di Corte cost. n. 399 del 1996), dovendo egli conformare il proprio operato ad un canone che tenga conto delle caratteristiche de! lavoro, dell’esperienza e della tecnica, e senza alcun abbassamento della soglia di prevenzione rispetto agli standard eventualmente non adeguati praticati in una determinata cerchia di imprenditori.
In secondo luogo, va rimarcato che, per quanto sia vero che il nesso di causalità tra l’omissione della misura di sicurezza e l’evento dannoso deve escludersi quando, in relazione alle concrete circostanze del caso, lo scopo cautelare della norma non aveva alcuna possibilità di essere attuato (c.d. irrilevanza del comportamento alternativo lecito: v. in tal senso Cass. n. 15715 del 2012), non è meno vero che la Corte ha accertato in fatto che, se l’esplosione fosse rimasta confinata per effetto di un adeguato dimensionamento delle aperture di sfogo, gli eventi indennizzati non si sarebbero verificati. E poiché il nesso di causalità di cui dianzi s’è detto va costruito in relazione all’evento concretamente verificatosi, nel senso che sussiste quando quest’ultimo costituisce concretizzazione del rischio astrattamente creato con la violazione della regola di diligenza, anche sotto tale profilo la sentenza impugnata resiste alle censure rivoltele.
Il ricorso, pertanto, va conclusivamente rigettato. L’eccezionale complessità degli accertamenti oggetto dei precedenti gradi di merito e il loro esito contrastante giustificano la compensazione delle spese anche del presente giudizio di legittimità. Sussistono invece i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P. Q. M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma l-quater, d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 5.4.2016.

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