Repertorio Salute

Cassazione Civile, Sez. Lav., 30 marzo 2010, n. 7663

Ricorso di una dipendente delle Poste italiane, nei cui locali, privi di dispositivi di sicurezza o di sorveglianza all’ingresso, era avvenuta una rapina: la ricorrente affermava di avere subito uno shock, di essersi assentata dal lavoro per malattia e che, essendo inconsapevole del proprio stato di gravidanza, successivamente certificato, si era sottoposta a cure psichiatriche, assumendo psicofarmaci in dosi massicce, sicché, dato il rischio di effetti dannosi a carico del feto dovuti agli psicofarmaci assunti, decideva di interrompere la gravidanza.
Respinto il ricorso in primo e secondo grado, la lavoratrice propone ricorso in Cassazione – Rigetto.
“La Corte di Appello di Campobasso…è pervenuta alla motivata conclusione “…che le Poste avevano dotato l’Agenzia di (OMISSIS) delle misure di sicurezza e, specificamente, delle misure antirapina espressamente previste nel proprio regolamento interno ed estese a tutti gli uffici di analoghe dimensioni e dislocazioni.
Ha supportato tale conclusione, osservando che dette misure erano, ad ogni modo, compatibili con quelle di protezioni previste dall’art. 2087 c.c. dovendosi avere riguardo alle caratteristiche dell’attività dell’impresa e delle mansioni svolte dal lavoratore, nonché alle condizioni dell’ambiente esterno a quello di lavoro, sicché vi sia una apprezzabile probabilità, oggettivamente valutabile, di verificazione del rischio lamentato, (v. Cass. 06.02.1998 n. 1241).
Ha richiamato, a sostegno di tale assunto, la giurisprudenza di questa Corte, la quale ha puntualizzato che l’ambito di applicazione dell’art. 2087 c.c., pur se ampio, non può essere dilatato fino a comprendervi ogni ipotesi di danno e non può essere esteso a tutti quei casi in cui il danno non si sarebbe verificato in presenza di migliori e diversi accorgimenti atti ad impedirne la verificazione, perché in tal modo si perverrebbe alla enunciazione di un vero e proprio principio di responsabilità oggettiva.”

“Sulla base di siffatte premesse non può fondatamente contestarsi il convincimento del Giudice di appello, secondo cui la società aveva improntata la propria condotta a tali principi, “giacché aveva tenuto conto delle piccole dimensioni dell’Ufficio postale in esame, della dotazione di denaro assai scarsa, e, soprattutto, della densità criminale del (OMISSIS), notoriamente tra le più basse d’Italia, nonché della scarsa incidenza di rapine nell’Ufficio in esame”, fattori, questi ultimi, che escludevano una “ragionevole probabilità di verificazione” di eventi criminosi, tali da indurre all’adozione di misure particolarmente incisive di mezzi di protezione.”


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAVAGNANI Erminio – Presidente
Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere
Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere
Dott. STILE Paolo – rel. Consigliere
Dott. CURZIO Pietro – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza

sul ricorso proposto da:
P.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OTRANTO 47, presso lo studio dell’avvocato ROMEO FRANCESCO, rappresentata e difesa dall’avvocato POTENTE RENATO, giusta delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresentata e difende, giusta delega a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 151/2005 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO, depositata il 12/07/2005 R.G.N. 177/04;
udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del 27/01/2010 dal Consigliere Dott. STILE Paolo;
udito l’Avvocato GIOVANNI G. GENTILE per delega PESSI ROBERTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con ricorso del 12.03.2002 P.A. esponeva di essere dipendente delle Poste italiane dal 25.07.1983 e destinata dall’1.07.1996 presso l’Agenzia di base di (OMISSIS), nei cui locali, privi di dispositivi di sicurezza o di sorveglianza all’ingresso, il (OMISSIS) veniva commessa una rapina. Aggiungeva di avere subito uno shock, di essersi assentata dal lavoro per malattia e che, essendo inconsapevole del proprio stato di gravidanza, successivamente certificato, si era sottoposta a cure psichiatriche, assumendo psicofarmaci in dosi massicce, sicché, dato il rischio di effetti dannosi a carico del feto dovuti agli psicofarmaci assunti, decideva di interrompere la gravidanza.

Soggiungeva di essere stata distaccata presso l’Agenzia n. (OMISSIS) a far data dal 30.09.1996 quindi, di essere stata nuovamente trasferita all’Agenzia di (OMISSIS) a far data dal di’ 8.07.1997 ed ancora di avere adito il Tribunale di Campobasso in via cautelare, il quale, in sede di gravame, dichiarava l’illegittimità del trasferimento.

La ricorrente deduceva la violazione, da parte del datore di lavoro, dell’art. 2087 c.c. per mancata predisposizione delle misure di sicurezza presso i locali dell’Agenzia di Matrice idonei ad evitare danni ai lavoratori, discendenti da azioni violente di terzi, con conseguente responsabilità del datore di lavoro per la malattia da cui era stata colpita a seguito della rapina, nonché per essere stata costretta ad interrompere la gravidanza.

Deduceva, altresì, il proprio diritto al risarcimento del danno a seguito dell’illegittimo trasferimento per violazione dell’art. 2087 c.c. non essendo il proprio stato di salute compatibile con la prestazione di lavoro nel luogo ove era stata commessa la rapina.

La società Poste Italiane si costituiva, eccependo la nullità del ricorso per la genericità delle voci di danno.
Deduceva, inoltre, la sua infondatezza, atteso che l’Ufficio di (OMISSIS) era dotato delle misure di sicurezza standard per gli uffici di minore entità (allarme notturno, sbarre alle finestre, pulsante antirapina collegato con le Forze dell’Ordine) e non sussistendo, quindi, alcuna responsabilità datoriale.
Deduceva, ancora, come non potesse, comunque, configurarsi un danno morale non potendo ipotizzarsi la commissione di reati da parte datoriale; non esistesse comunque un nesso causale con l’interruzione della gravidanza; non si potesse parlare di trasferimento della ricorrente da (OMISSIS), trattandosi di riassegnazione alla sede di appartenenza dopo un periodo di assegnazione provvisoria a (OMISSIS); non vi fosse illegittimità della condotta datoriale, desumibile dai provvedimenti emessi dal Tribunale di Campobasso avendo detti provvedimenti natura cautelare. Il Tribunale rigettava la domanda.

Avverso tale decisione proponeva appello la P., cui resisteva la società.

Con sentenza dell’8 aprile – 12 luglio 2005, l’adita Corte di Appello di Campobasso, rilevato, sulla base del materiale probatorio acquisito, che nessuna forma di negligenza aveva contraddistinto il comportamento della società nella organizzazione dell’agenzia e che non poteva ritenersi illegittimo l’intervenuto spostamento di sede della P., rigettava l’impugnazione con conferma della sentenza impugnata.

Per la cassazione di tale pronuncia ricorre P.A. con quattro motivi.

Resiste la Poste Italiane S.p.A. con controricorso.

Diritto

Con il primo motivo di ricorso la P., denunciando violazione e/o errata applicazione degli artt. 112 e 116 c.p.c. nonché omessa, insufficiente, errata e contraddittoria motivazione circa fatti non contestati e costituenti un punto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), lamenta che la Corte d’Appello, nella sentenza impugnata, abbia ritenuto corretta la valutazione compiuta dal Giudice di prime cure, secondo cui la sede dell’Agenzia Poste di (OMISSIS) era dotata, dal 1996, di adeguati dispositivi di sicurezza e, precisamente, di allarme notturno, di sbarre alle finestre, di pulsante di emergenza collegato alle Forze dell’Ordine, e, pur in mancanza di sistemi di controllo all’ingresso e vetrate blindate che dividessero la zona riservata agli impiegati da quella destinata al pubblico, vi erano due pulsanti antirapina, uno nel bagno e l’altro vicino alla cassaforte.

Con il secondo motivo, la ricorrente, denunciando violazione ed errata e contraddittoria applicazione degli artt. 2087, 2059, 1175, 1375 c.c. e dell’art. 32 Cost. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), insiste nel sostenere l’inadeguatezza delle misure di sicurezza adottate, tenuto anche conto che l’ufficio di Matrice aveva subito tre rapine e che, al momento di quella oggetto di causarla P. era sola al lavoro.

Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2059 c.c. ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), lamenta che il Giudice di Appello, non ritenendo sussistente una violazione dell’art. 2087 c.c., abbia stabilito la irrilevanza di qualsiasi danno dalla stessa conseguito successivamente al verificarsi dell’evento criminoso. Con il quarto motivo, infine, la ricorrente, denunciando insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), lamenta che la Corte di Appello abbia ritenuto che il provvedimento di trasferimento fosse legittimo perché – al momento della emanazione dello stesso – dalla certificazione medica non poteva dedursi la persistenza di uno stato patologico e che era irrilevante che il Tribunale di Campobasso, in sede di reclamo, avesse evidenziato l’illegittimità del provvedimento stesso.

I primi tre motivi di ricorso, da trattarsi congiuntamente, in quanto strettamente connessi, sono infondati, essendosi la Corte di merito fatto carico delle censure mosse alla sentenza di primo grado e riprodotte, altresì, nel presente giudizio.
E così, a proposito dell’adeguatezza del sistema di protezione dell’ufficio di (OMISSIS) ove la P. lavorava, la Corte di Appello di Campobasso, premettendo che la rapina all’UP di (OMISSIS) era avvenuta nel 1996, cioè prima della privatizzazione di Poste Italiane, e che l’attività dell’odierna resistente non era, comunque, assimilabile a quella degli Istituti di Credito, è pervenuta alla motivata conclusione “…che le Poste avevano dotato l’Agenzia di (OMISSIS) delle misure di sicurezza e, specificamente, delle misure antirapina espressamente previste nel proprio regolamento interno ed estese a tutti gli uffici di analoghe dimensioni e dislocazioni.

Ha supportato tale conclusione, osservando che dette misure erano, ad ogni modo, compatibili con quelle di protezioni previste dall’art. 2087 c.c. dovendosi avere riguardo alle caratteristiche dell’attività dell’impresa e delle mansioni svolte dal lavoratore, nonché alle condizioni dell’ambiente esterno a quello di lavoro, sicché vi sia una apprezzabile probabilità, oggettivamente valutabile, di verificazione del rischio lamentato, (v. Cass. 06.02.1998 n. 1241).

Ha richiamato, a sostegno di tale assunto, la giurisprudenza di questa Corte, la quale ha puntualizzato che l’ambito di applicazione dell’art. 2087 c.c., pur se ampio, non può essere dilatato fino a comprendervi ogni ipotesi di danno e non può essere esteso a tutti quei casi in cui il danno non si sarebbe verificato in presenza di migliori e diversi accorgimenti atti ad impedirne la verificazione, perché in tal modo si perverrebbe alla enunciazione di un vero e proprio principio di responsabilità oggettiva. (v. Cass. 05.12.2001 n. 15350).

In questa prospettiva, pertanto, il datore di lavoro deve dimostrare di avere predisposto le misure idonee a garantire la sicurezza, tenendo conto delle peculiari condizioni dell’ambiente di lavoro, secondo un criterio di “apprezzabile probabilità, oggettivamente valutabile” della verificazione del rischio, sicché questo sia prevedibile d evitabile alla stregua della comune diligenza. (Cass. 20.04.1998 n. 4012; Cass. 03.09.1997 n. 8422; Cass. 06.09.1998 n. 5048)
Sulla base di siffatte premesse non può fondatamente contestarsi il convincimento del Giudice di appello, secondo cui la società aveva improntata la propria condotta a tali principi, “giacché aveva tenuto conto delle piccole dimensioni dell’Ufficio postale in esame, della dotazione di denaro assai scarsa, e, soprattutto, della densità criminale del (OMISSIS), notoriamente tra le più basse d’Italia, nonché della scarsa incidenza di rapine nell’Ufficio in esame”, fattori, questi ultimi, che escludevano una “ragionevole probabilità di verificazione” di eventi criminosi, tali da indurre all’adozione di misure particolarmente incisive di mezzi di protezione.

I mezzi di protezione – ha osservato, ancora, la Corte territoriale – erano stati comunque predisposti, anche in relazione alla specifica ipotesi della rapina, “giacché i due pulsanti di emergenza, collegati con le Forze dell’Ordine, avrebbero dovuto indurre un eventuale rapinatore a considerare il rischio di vedere sopraggiungere le Forze dell’Ordine durante la rapina, ove il pulsante fosse stato tempestivamente azionato, ovvero subito dopo essersi dato alla fuga, qualora gli addetti fossero riusciti ad azionare il pulsante solo dopo la partenza dei rapinatori”.

Quanto alla presunta inidoneità dei mezzi di protezione, la ricorrente afferma poi che il Giudice avrebbe dovuto valutare adeguatamente la circostanza che nell’ufficio di Matrice non presentasse, all’epoca in cui si era verificata quella subita dalla P., le vetrate antiproiettili.

Sul punto, la sentenza impugnata ha affermato che andava respinta la tesi dell’appellante laddove sosteneva che vi fosse l’obbligo giuridico delle Poste di munire quell’ufficio di vetrate antiproiettile, giacché tale obbligo non era imposto da alcuna norma ovvero da alcun CCNL né discendeva dai criteri di normale diligenza e prevedibilità, a cui occorre fare riferimento nell’applicazione dell’art. 2087 c.c., attesa la scarsissima densità criminale del luogo, la scarsissima rilevanza economica di quell’ufficio, nonché la scarsissima probabilità, valutabile ex ante della verificazione di una rapina.

Infondato è anche il quarto motivo di ricorso con cui la P., denunciando insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5), lamenta che la Corte di Appello, confermando la sentenza resa dal Giudice di primo grado, non abbia ritenuto rilevante ai fini della decisione quanto statuito dallo stesso Tribunale in sede di reclamo, proposto dalla ricorrente avverso l’ordinanza emessa dal Pretore di Campobasso, con la quale si rigettava il ricorso avverso il provvedimento di trasferimento: una maggiore attenzione delle circostanze considerate nella pronuncia a sé favorevole, in sede di reclamo, avrebbe dovuto condurre ad una diversa decisione.
Invero, del tutto correttamente il Giudice di appello, nell’affrontare detta questione, anch’essa sottoposta alla sua cognizione, dopo avere ricostruito la vicenda pervenendo, sulla base di una attenta analisi degli elementi probatori acquisiti, alla contestata pronuncia, ha osservato che non poteva pervenirsi a diversa conclusione sulla scorta del fatto che il Tribunale, in sede di reclamo avverso il provvedimento cautelare sollecitato dalla P. a seguito di quel trasferimento, avesse ritenuto l’illegittimità del trasferimento, avendo quel provvedimento natura cautelare e, come tale, privo di incidenza sul giudizio definitivo da assumere in sede di merito.

Così argomentando la Corte territoriale si è uniformata ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui, anche nel quadro del processo civile riformato dalla novella 26 novembre 1990, n. 353 e successive modificazioni, il provvedimento d’urgenza, adottato secondo il rito cautelare uniforme previsto dall’art. 669 bis c.p.c. e segg., continua ad essere caratterizzato, oltre che dalla sua strumentalità, dalla provvisorietà e dal difetto di decisorietà, essendo destinato, data la sua natura interinale, ad essere assorbito o superato dagli altri provvedimenti che possano essere adottati nel corso del giudizio, essendo inidoneo a produrre effetti sostanziali o processuali sulla vicenda sottoposta all’esame del giudice (Cass. 17 marzo 2003 n. 3898). Per quanto esposto il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 16,00 oltre Euro 1.500,00 per onorari ed oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2010

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