Cassazione Civile, Sez. Lav., 30 novembre 2015, n. 24365

Carenza di prova da parte del lavoratore delle condizioni di lavoro eccedenti la normale tollerabilità.


Presidente: AMOROSO GIOVANNI
Relatore: LORITO MATILDE
Data pubblicazione: 30/11/2015

Fatto

S.E. si rivolgeva al Tribunale di Roma in funzione di giudice del lavoro ed esponeva: di aver lavorato alle dipendenze del CONI – Comitato Olimpico Nazionale Italiano – dal 1955; di essere stato nominato nel luglio 1988 Responsabile dell’Ufficio Sviluppo Relazioni Esterne; di aver profuso, al fine di attendere ai compiti affidatigli, energie lavorative del tutto eccedenti rispetto ai limiti di ragionevolezza, anche a causa della inadeguatezza della struttura organizzativa messa a disposizione dell’ente; di essere stato nominato nell’estate 2000 Segretario Generale della Delegazione Italiana ai Giochi Olimpici di Sidney 2000 e di essere stato colpito nel settembre di quell’anno da ischemia cerebrale; di aver ripreso servizio nel marzo 2001, ma di aver subito una progressiva privazione delle alte funzioni a lui ascritte. Deduceva che tale comportamento, integrante una tipica azione di mobbing, gli aveva arrecato ulteriori sofferenze causandogli, sul piano fisico, un infarto del miocardio oltre ad una grave depressione, e sul piano esistenziale, una piena compromissione delle proprie abitudini di vita, inducendolo a rassegnare le dimissioni per giusta causa.
Conveniva pertanto, in giudizio il CONI chiedendone la condanna al risarcimento del danno biologico, morale, esistenziale, da perdita di chance di sopravvivenza e professionale, ed in via gradata, al pagamento delle indennità previste dagli artt. 38 e 39 c.c.n.l. giornalisti applicato al rapporto inter partes.
Espletata attività istruttoria, il giudice adito, in parziale accoglimento del ricorso, condannava l’ente convenuto – con riferimento al periodo successivo al rientro dalla malattia – al risarcimento del danno alla salute nella misura di euro 15.000,00 e del danno morale in quella di euro 7.500,00, respingendo le ulteriori domande.
Detta pronuncia veniva parzialmente riformata dalla Corte d’appello di Roma, adita dal lavoratore, che condannava il CONI al risarcimento del danno da demansionamento per il periodo 5/3/01-16/1/02, liquidando il risarcimento del danno biologico e morale nel maggiore importo rispettivamente di euro 49.261,31 e di euro 24.630,65 e respingendo le ulteriori pretese azionate.
Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione lo S.E. affidato a tre motivi, resistiti con controricorso dal CONI.
Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ex art.378 c.p.c.

Diritto

1. Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 2697, 2727, 2728, 2729 c.c. nonché dell’art.17 d.lgs. n.66/03 e degli artt.115-116 c.p.c. in relazione all’art.360 n.3 c.p.c.
Si lamenta che la Corte territoriale abbia denegato riconoscimento alla domanda risarcitoria formulata in relazione all’evento invalidante occorso in data 22/9/00, in violazione dei canoni sanciti dalla disposizione codicistica di cui all’art. 2087 c.c., volta a sanzionare, alla luce delle garanzie costituzionali poste a tutela del lavoratore, l’omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservarne l’integrità psicofisica, tenuto conto della concreta realtà aziendale e delle possibilità di acquisire cognizione dell’esistenza di fattori rischio in una determinata contingenza storica. Si deduce che erroneamente sia stato rilevato l’inadempimento all’onere probatorio gravante sulla parte ricorrente in ordine alla sussistenza delle condizioni di lavoro eccedenti la normale tollerabilità ed alla responsabilità datoriale per condotta omissiva nella determinazione dell’eventus damni, essendo state le circostanze descritte, oggetto di specifica deduzione in atto introduttivo del giudizio e di precipua istanza istruttoria.
1.1 Il motivo presenta evidenti, plurimi profili di inammissibilità.
Non va sottaciuto, invero, che, sotto il profilo della violazione di legge, il ricorrente tende a pervenire inammissibilmente, ad una rinnovata considerazione, nel merito, della valutazione dei fatti di causa elaborata dai giudici del gravame.
Va in proposito rimarcato che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.
Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (vedi Cass. 16 luglio 2010 n.16698, cui adde Cass. 18 novembre 2011 n.24253) . Nella specie ricorre proprio siffatta ultima ipotesi in quanto la violazione di legge viene dedotta appunto mediante la contestazione della valutazione delle risultanze di causa la cui censura è ammissibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, che qui non viene denunciato, ma non sotto il profilo della violazione o falsa applicazione di legge.
1.2 E, sempre sulla medesima linea interpretativa, va rimarcato come la giurisprudenza di questa Corte sia costante nel ritenere che “la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art.360, primo comma n.5), cod. proc. civ. e, quanto a quest’ultimo, che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito da tale ultima disposizione, “non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità”, con la conseguenza che “risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa” (v., fra le altre, Cass. 10 settembre 2011 n.17977).
Nello specifico, si impone, quindi, l’evidenza della inammissibilità del motivo laddove tende a pervenire ad una rinnovata valutazione degli elementi fattuali sottesi alla pretesa azionata, non consentita in sede di legittimità.
2. Neanche può trascurarsi il rilievo di un difetto di autosufficienza della censura, priva dello specifico richiamo  ai capitoli di prova della cui mancanza ci si duole, così come ai dati documentali (buste paga prodotte in giudizio, pag. 12 del presente ricorso) dai quali si pretende inferire l’espletamento di attività di lavoro eccedente i limiti di ordinaria tollerabilità che si assume erroneamente denegato dalla Corte territoriale.
L’incedere argomentativo della censura, non si pone in linea con il costante orientamento espresso da questa Corte (cfr. Cass. Sez. U. 22 dicembre 2011 n.28336) secondo cui il ricorrente che, in sede di legittimità, denuncia la mancata ammissione di una prova testimoniale da parte del giudice di merito ha l’onere di indicare specificamente le circostanze che formavano oggetto della prova, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse che, per il princìpio di autosufficienza del ricorso, la Corte di cassazione dev’essere in grado di compiere solo sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative.
2.1 La formulata doglianza, peraltro, si palesa infondata.
Sulla delibata questione relativa al riparto dell’onere di allegazione e di prova in tema di risarcimento del danno per violazione dei dettami sanciti dall’art.2087 c.c. va richiamato il principio più volte enunciato da questa Corte, che va qui ribadito, in base al quale la parte che subisce l’inadempimento, pur non dovendo dimostrare la colpa dell’altra – atteso che ai sensi dell’art. 1218 c.c., è il datore di lavoro che deve provare che l’impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque il pregiudizio che colpisce la controparte derivano da causa a luì non imputabile – è tuttavia soggetta all’onere, da esercitare ritualmente ex art.414 c.p.c., di allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l’asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell’esercizio dell’impresa, debbono essere adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (vedi in tali sensi, fra le altre, Cass. 11 aprile 2013 n.8855).
Compete, infatti, al lavoratore l’allegazione (e conseguente dimostrazione) dell’omissione commessa dal datore di lavoro nel predisporre le misure di sicurezza (suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica) necessarie ad evitare il danno, non essendo sufficiente la generica deduzione della violazione di ogni ipotetica misura di prevenzione, a pena di fare scadere una responsabilità per colpa in una responsabilità oggettiva. Ciò in quanto l’art.2087 c.c., non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, atteso che la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento (v. ex plurimis, Cass. 29 gennaio 2013 n. 2038, Cass. 14 aprile 2008 n.9817, Cass. 7 marzo 2006 n.4840).
2.2 La pronuncia impugnata ha scrutinato puntualmente il materiale probatorio acquisito, valorizzando fra l’altro, la circostanza dello svolgimento da parte del ricorrente, nel periodo in contestazione, di numerosi ulteriori impegnativi incarichi estranei all’attività lavorativa (Presidente della Roma pallanuoto, Consigliere di Amministrazione dell’INA Assitalia) , oltre alla sussistenza di un nutrito supporto organizzativo per lo svolgimento dei compiti a lui ascritti.
Sotto altro versante, la Corte distrettuale, dopo aver puntualizzato che l’incarico di segretario generale della delegazione italiana ai giochi olimpici era durato solo circa due mesi prima dell’insorgere della patologia denunciata, ha rimarcato la carenza di allegazione in ordine agli specifici incombenti che cadenzavano la giornata lavorativa del ricorrente, alle modalità di organizzazione del lavoro, al numero di collaboratori assegnatigli ed alla tipologia delle strutture predisposte dal CONI per fronteggiare un evento di sì grande rilievo mediático.
Nel rilevare, in definitiva, la carenza di prova da parte del lavoratore delle condizioni di lavoro eccedenti la normale tollerabilità, e di una responsabilità per condotta omissiva dell’ente nella determinazione dell’evento lesivo, la pronuncia si è collocata nel solco dei dicta giurisprudenziali emessi da questa Corte sulla delibata questione, così sottraendosi alle censure formulate in sede di legittimità con detto primo motivo.
3. Con il secondo mezzo di impugnazione si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt.1226 e 2697 c.c. nonché dell’art.113 c.p.c. in relazione all’art.360 n.3 c.p.c.
Si stigmatizza la sentenza impugnata per aver disconosciuto il diritto al risarcimento del danno esistenziale e per perdita di chance di sopravvivenza sul rilievo della carenza di allegazione in ordine alla effettiva incidenza della complessa vicenda lavorativa sulle condizioni di vita di esso ricorrente, rimarcando, per converso, che dette circostanze erano state oggetto di specifica deduzione in sede di atto introduttivo del giudizio.
3.1 Il motivo è privo di pregio.
Al di là di ogni considerazione in ordine alla pur evidente violazione del principio di autosufficienza che governa il ricorso per cassazione – giacché anche con tale censura il ricorrente ha omesso di riportare il tenore degli atti con i quali deduce di aver argomentato in ordine alla ricorrenza dei presupposti per l’accoglimento delle istanze risarcitorie formulate, erroneamente reiette dalla Corte distrettuale – si impone l’evidenza della infondatezza del motivo di doglianza, attesa la carenza dei presupposti per la definizione di una responsabilità del Comitato Olimpico, ascrivibile alla violazione dei dettami di cui all’art.2087 c.c., acciarata dalla Corte distrettuale con motivazione che, per essere congrua sul piano logico, e corretta sul versante giuridico, rimane esente dalle censure svolte anche con tale ragione di censura, logicamente successiva rispetto al richiamato accertamento.
4. Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1321,1322, 1326 e 2697 nonché degli artt.38 e 39 c.c.n.l. dei giornalisti in relazione all’art.360 n.3 c.p.c.
Si lamenta che la Corte distrettuale abbia denegato riconoscimento al diritto azionato sulla scorta delle citate disposizioni pattizie di natura collettiva, che prevedevano l’erogazione di un trattamento economico in caso di infortunio sul lavoro o extraprofessionale ovvero di invalidità permanente per infarto del miocardio o ictus cerebrale, ed un’assicurazione integrativa per danni riportati in attività di servizio o a causa di servizio, sul rilievo che il ricorrente non rivestiva il ruolo di giornalista professionista, requisito coessenziale al riconoscimento del diritto azionato.
Si argomenta, per contro, che l’applicabilità delle disposizioni discendeva direttamente dall’accordo intercorso fra le parti con il quale era stata prevista l’applicazione del c.c.n.l. giornalistico al rapporto di lavoro del ricorrente.
4.1 La censura presenta profili di inammissibilità.
Essa attiene alla interpretazione delle disposizioni pattizie di natura collettiva applicabili alla fattispecie, che non risultano richiamate nel loro tenore né ritualmente prodotte in atti.
Il ricorrente per cassazione, ove intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento ovvero di una disposizione contrattuale collettiva da parte del giudice di merito, ha infatti il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 – di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto (vedi ex plurimis, Cass. S.U. 7 novembre 2013 n.25038, cui adde Cass. 4 marzo 2015 n.4349).
Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione. E’ infatti orientamento costante (confronta, tra le altre, Cass. 14 marzo 2013 n. 6556) che, in tema di ricorso per cassazione, a seguito della riforma ad opera del D.Lgs. n. 40 del 2006, il novellato art. 366 c.p.c., comma 6, oltre a richiedere la “specifica” indicazione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale il documento, pur individuato in ricorso, risulti prodotto. Tale specifica indicazione, postula che si individui dove sia stato prodotto nelle fasi di merito, e, in ragione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, anche che esso sia prodotto integralmente in sede di legittimità. Il secondo, deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento.
4.2 Nello specifico, le disposizioni pattizie alle quali si è fatto richiamo non risultano trascritte nel loro contenuto, né parte ricorrente indica specificamente l’avvenuta produzione del testo integrale del contratto collettivo e la sede in cui quel contratto sia rinvenibile (vedi Cass. 7 luglio 2014 n.15437) onde fornire alla Suprema Corte tutti gli elementi per verificare l’esattezza dell’interpretazione offerta dal giudice di merito, essendosi limitata a dedurre genericamente di aver prodotto il c.c.n.l. dei giornalisti(senza specificazione del periodo di riferimento), già contenuto nel fascicolo di parte dei precedenti gradi di giudizio.
4.3 Esigenze di completezza espositiva inducono, infine ad affermare l’infondatezza del motivo, ove si consideri che dall’incontestato presupposto della applicabilità al contratto inter partes, delle disposizioni contrattuali collettive relative al rapporto di lavoro giornalistico, e dalla altrettanto incontroversa limitazione dei benefici sanciti dalle invocate disposizioni solo ai giornalisti professionisti, discende, a fortiori, la insussistenza della possibilità di estensione dell’ambito di applicazione della normativa, a categorie di destinatari estranei alla normativa stessa, quale quella di giornalista pubblicista, rivestita dal ricorrente, così come congruamente acclarato dalla Corte distrettuale.
In definitiva, il ricorso è respinto.
Il governo delle spese del presente giudizio segue il principio della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13 comma 1 del dpr n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
Così deciso in Roma il 14 luglio 2015.

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