Cassazione Civile, Sez. Lavoro, 5 agosto 2010, n. 18278

Limiti al potere di organizzazione del DL: l’iniziativa economica datoriale non può svolgersi in maniera da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana del lavoratore.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo
Dott. DE RENZIS Alessandro
Dott. IANNIELLO Antonio
Dott. BANDINI Gianfranco
Dott. ZAPPIA Pietro
– Presidente
– Consigliere
– Consigliere
– Consigliere
– rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 31488-2006 proposto da:
S. Z. DI Z.V. & C. S.N.C., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA P. LEONARDI CATTOLICA 6, presso lo studio dell’avvocato ANDRACCHIO ANNA, rappresentata e difesa dall’avvocato MELLONI LEONARDO, giusta mandato in calce al ricorso;

ricorrente

contro

B.B., D.E., P.S., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA MARCELLO PRESTINARI 13, presso lo studio dell’avvocato RAMADORI GIUSEPPE, che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAGAGNA BENITO, giusta mandato a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 66/2005 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 31/07/2006 r.g.n. 469/02;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/06/2010 dal Consigliere Dott. PIETRO ZAPPIA;
udito l’Avvocato FAUSTO BUCCELLATO per delega GIUSEPPE RAMADORI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUZIO RICCARDO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

FATTO

Con distinti ricorsi al Pretore, giudice del lavoro, di Ferrara, depositati in data 8.10.1997, D.E., P.S. e B.B., premesso di aver svolto attività lavorativa alle dipendenze della ” S. Z. di Z.V. e C. s.n.c.”, esponevano che negli ultimi tre mesi lo Z., a seguito del rifiuto frapposto dalla D. alla richiesta del predetto, non preceduta da alcun preavviso, di effettuazione delle ore di lavoro straordinario, aveva posto in essere nei confronti di detta dipendente e delle altre due ricorrenti, solidali con la prima, una serie di comportamenti finalizzati a provocarne le dimissioni, comportamenti culminati nel divieto di usufruire del servizio mensa, nella istallazione sul posto di lavoro di una struttura di cartone per separare le postazioni di lavoro delle stesse e nel proferimento di espressioni ingiuriose nei loro confronti da parte dello Z. che per tale episodio aveva riportato condanna da parte del Tribunale penale di Ferrara. Chiedevano pertanto, costituendo tali fatti violazione dell’integrità e della personalità morale di esse ricorrenti e minaccia della loro integrità fisica, ed avendo di conseguenza presentato le loro dimissioni per giusta causa, la condanna della società datoriale e, personalmente, dei soci Z.V. e A.D., alla corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso ed alla restituzione della medesima indennità indebitamente trattenuta, oltre al risarcimento del danno morale e biologico.

Con sentenza in data 9.7.2001 il Tribunale, giudice del lavoro, di Ferrara, previa riunione dei ricorsi, rigettava le domande rilevando l’assenza di prova in ordine all’esistenza delle condotte vessatorie e discriminatorie poste in essere nei confronti delle ricorrenti.

Avverso tale sentenza proponevano appello le originarie ricorrenti lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo l’accoglimento delle domande proposte con i ricorsi introduttivi.

La Corte di Appello di Bologna, con sentenza in data 25.1.2005, accoglieva parzialmente il gravame e, ritenuta fondata la richiesta di accertamento della giusta causa di dimissioni, condannava gli appellati a corrispondere alle lavoratrici l’indennità sostitutiva del preavviso ed a restituire quella illegittimamente trattenuta; confermava il rigetto della domanda risarcitoria.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la ” S. Z. di. Z.V. e C. s.n.c.” con quattro motivi di impugnazione.

Resistono con controricorso le lavoratrici intimate.

La ricorrente ha depositato memoria ex articolo 378 c.p.c..

DIRITTO

Col primo motivo di gravame la società ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, violazione di legge per violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2086, 2094 e 2104 c.c., nonché difetto di motivazione in ordine ad un fatto decisivo del giudizio.

Rileva in particolare la ricorrente che la Corte territoriale aveva del tutto omesso di valutare le esigenze dell’imprenditore correlate alla organizzazione del lavoro, applicando erroneamente la normativa in materia, ed aveva altresì omesso di specificare le disposizioni normative o contrattuali asseritamente violate; inoltre, con motivazione contraddittoria, pur avendo ritenuto “encomiabile” il tentativo datoriale di operare una distensione del clima in azienda, aveva considerato “discriminanti” e “mortificanti” i provvedimenti posti in essere dallo stesso.
Col secondo motivo di gravame la ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, violazione di legge per violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2119 c.c., nonché omessa motivazione.

In particolare rileva che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto la sussistenza, in capo alle lavoratrici, della giusta causa del recesso (dimissioni) sotto il profilo della impossibilità della prosecuzione, anche temporanea, del rapporto di lavoro.

Col terzo motivo di gravame la ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, violazione di legge per falsa applicazione della Legge n. 300 del 1970, articolo 7.

In particolare rileva che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto che il provvedimento adottato dalla società datoriale avesse natura disciplinare, mentre la separazione delle diverse postazioni lavorative non aveva alcun contenuto disciplinare ma solo organizzativo.

Col quarto motivo di gravame la ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, omessa motivazione su fatti decisivi per il giudizio, nonché motivazione errata ed illogica.

In particolare rileva che erroneamente la Corte territoriale aveva omesso di motivare in ordine agli argomenti dedotti dalla società, dai quali emergeva che il comportamento delle dipendenti era dettato da intenti speculativi; ed in maniera incongrua aveva altresì disatteso la stessa configurazione dei fatti fornita dalle ricorrenti le quali avevano posto a fondamento delle loro dimissioni non la condotta, su cui la Corte di merito aveva incentrato la propria decisione, consistente nella interposizione di una paratia di cartone, bensì una serie di comportamenti datoriali, antecedenti e successivi a tale episodio, che, globalmente considerati, evidenziavano l’esistenza di un unico disegno vessatorio a carico delle stesse.

Il ricorso non è fondato.

Ed invero, per quel che riguarda il primo motivo di gravame, rileva il Collegio che l’assunto di parte ricorrente secondo cui la Corte territoriale non avrebbe specificamente indicato le disposizioni asseritamente violate si appalesa non condivisibile ove si osservi che il dovere del datore di lavoro di non porre in essere condotte che possano pregiudicare la sicurezza, la libertà e la dignità umana del lavoratore discende direttamente dai principi generali dell’ordinamento giuridico ed è comunque specificamente previsto dall’articolo 41 della Carta Costituzionale, il cui effetto immediatamente precettivo non può essere revocato in dubbio, e dal quale direttamente promana la disposizione codicistica di cui all’articolo 2087 c.c..

Né può condividersi il rilievo di parte ricorrente secondo cui la Corte di merito non avrebbe considerato le esigenze organizzative del datore di lavoro, ove si osservi che l’iniziativa economica datoriale non può in alcun modo svolgersi in maniera da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana del prestatore d’opera.

Parimenti non appare fondato il rilievo secondo cui in maniera contraddittoria il giudice di merito avrebbe ritenuto encomiabile il tentativo del datore di lavoro di rendere vivibile il clima nell’azienda, giudicando poi discriminanti e mortificanti nei confronti delle ricorrenti i provvedimenti a tal fine adottati. Ed invero, in maniera assolutamente coerente e logica, la Corte territoriale ha rilevato in buona sostanza come l’esercizio del potere organizzativo da parte del datore di lavoro (fra cui rientra l’adozione di tutti quei provvedimenti finalizzati ad una migliore coesistenza delle diverse realtà operanti sul posto di lavoro), quand’anche basato sull’intenzione, in linea di principio apprezzabile, di evitare conflittualità nell’ambiente di lavoro, non può essere esercitato, concertamente, in maniera da pregiudicare la posizione e le condizioni di lavoro dei singoli dipendenti.

Infatti, se pure al datore di lavoro faccia capo la facoltà di predisporre, anche unilateralmente, sulla base del potere di organizzazione e di direzione che gli compete ai sensi degli articoli 2086 e 2104 c.c., norme interne di regolamentazione attinenti all’organizzazione del lavoro nell’impresa, tale potere non è privo di limiti, occorrendo a tal fine che il suo esercizio sia effettivamente funzionale alle esigenze – tecniche, organizzative e produttive – dell’azienda, e comunque non si traduca in una condotta che – per come detto – possa risultare pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori d’opera.

Ciò in quanto, nell’equo bilanciamento dell’esigenza di funzionalità dell’impresa e di tutela delle condizioni di lavoro e del lavoratore, il legislatore ha chiaramente privilegiato, con la disposizione di cui all’articolo 41 Cost., ripresa dall’articolo 2087 c.c., quest’ultimo profilo.

Posto ciò, l’accertamento dell’esercizio del potere organizzativo da parte del datore di lavoro nel rispetto dei principi posti dal nostro ordinamento positivo costituisce una indagine di fatto, demandata al giudice di merito, le cui determinazioni sul punto, se sorrette da motivazione corretta sotto il profilo logico e giuridico, si sottraggono al sindacato in sede di giudizio di legittimità.

Orbene, nel caso di specie la Corte territoriale ha specificamente rilevato che nell’ambiente unico di lavoro in cui veniva effettuata l’attività di stireria, era stato “apposto un paravento di cartone che delimitava lo spazio in due zone, l’una più ampia, entro la quale lavorava il personale e l’altra, più angusta e priva di luce autonoma, al cui ambito vennero destinate le lavoratrici ribelli Il dato obiettivo emerso è, pertanto, unicamente l’apposizione del paravento in cartone, che non solo creava scompenso di luce ed aria nell’ambiente di lavoro – in quanto chiudeva le ribelli in una sorta di angolo del preesistente unico spazio … – ma determinava l’ulteriore, grave scompenso di natura psicologica, separando l’attività lavorativa delle une da quella delle altre dipendenti. La peculiare tipologia del lavoro svolto – attività di stiro industriale – di evidente aggravio fisico, per le emanazioni di vapore a flusso continuativo, è stata così ulteriormente appesantita dall’ulteriore, duplice ed ingiustificata circostanza dell’angustia spaziale e della separazione dal residuo contesto ambientale, alternativamente destinato alle lavoratrici acquiescenti.

Pertanto, dal momento che il giudice di merito ha illustrato i motivi che rendevano pienamente contezza delle ragioni del proprio convincimento esplicitando l’iter motivazionale attraverso cui lo stesso era pervenuto alla scelta ed alla valutazione delle risultanze probatorie poste a fondamento della propria decisione, resta escluso il controllo sollecitato in questa sede di legittimità. Il vizio non può invero consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove rispetto a quello dato dal giudice di merito, cui spetta in via esclusiva individuare le fonti del suo convincimento e a tal fine valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza.

In conclusione, il motivo si risolve in parte qua in un’inammissibile istanza di riesame della valutazione del giudice d’appello, fondata su tesi contrapposta al convincimento da esso espresso, e pertanto non può trovare ingresso (Cass. sez. lav., 28.1.2008 n. 1759).

Il motivo non può pertanto trovare accoglimento.
I rilievi esposti consentono di ritenere infondato anche il terzo motivo di gravame, con il quale la ricorrente ha rilevato che erroneamente il giudice d’appello aveva ritenuto che il provvedimento adottato dalla società datoriale avesse natura disciplinare, mentre la separazione delle diverse postazioni lavorative non aveva alcun contenuto disciplinare ma solo organizzativo.
Il rilievo si appalesa in definitiva non conducente, ove si osservi che la ragione di fondo della statuizione adottata dalla Corte d’appello è costituita dalla ritenuta insalubrità delle condizioni di lavoro in cui le dipendenti in questione dovevano rendere la loro prestazione lavorativa, mentre il rilievo – che pur si legge nell’impugnata sentenza – secondo cui si sarebbe trattato di provvedimento avente in definitiva natura punitiva adottato peraltro senza l’ottemperanza alle previsioni contenute nella Legge n. 300 del 1970, articolo 7, si appalesa non rilevante ai fini che in questa sede interessano, ove si osservi che il punto nodale dell’intera vicenda è costituito dal divieto, posto in capo al datore di lavoro, di adottare provvedimenti che, se pur funzionali alle esigenze organizzative dell’azienda, si traducano in una condotta che possa risultare pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori d’opera. E tale divieto, avendo contenuto immediatamente precettivo, prescinde dall’esistenza o meno di un intento punitivo da parte del datore di lavoro, che si appalesa quindi del tutto irrilevante, trovando il proprio fondamento nella normativa, di rango costituzionale, concernente il rispetto delle condizioni di lavoro dei dipendenti, oltre che nella consequenziale normativa codicistica, e posta invero dalla Corte territoriale a fondamento prioritario della propria determinazione.

Del pari infondato è il rilievo, di cui al secondo motivo di gravame, concernente la dedotta omessa valutazione, da parte della Corte di merito, della sussistenza, in capo alle lavoratrici, della giusta causa del recesso (dimissioni), sotto il profilo della impossibilità della prosecuzione, anche temporanea, del rapporto di lavoro.

Devesi in proposito evidenziare che la Corte territoriale, dopo aver posto in rilievo il grave scompenso di natura psicologica conseguente alla disposta separazione, nella maniera sopra indicata, della postazione di lavoro delle ricorrenti rispetto a quella della altre lavoratrici, ha sottolineato come la peculiare tipologia del lavoro svolto, avuto riguardo alle emanazioni di vapore a flusso continuato, era ulteriormente appesantita dalla angustia del contesto spaziale in cui tale lavoro veniva ad essere svolto a seguito della apposizione dei paraventi di cartone, con conseguente aggravio fisico per le interessate; ed ha concluso, in maniera abbastanza sintetica ma indubbiamente chiara ed efficace, in relazione alla ritenuta giustificatezza delle intervenute dimissioni, che tale causa “è, di per sé sola, più che sufficiente per tale determinazione volitiva”.

Anche in tal caso ci troviamo n presenza di una valutazione di fatto, demandata esclusivamente al giudice di merito, correttamente ed adeguatamente motivata, che si sottrae quindi a qualsiasi censura in sede di giudizio di legittimità.

In ordine all’ultimo motivo di gravame, rileva il Collegio la evidente carenza di interesse per quel che riguarda il mancato esame delle ulteriori argomentazioni poste dalle ricorrenti a fondamento del loro assunto, quali l’esclusione dalla mensa, l’atteggiamento antisindacale del datore di lavoro, l’ingiuria dallo stesso profferita nei loro confronti, avendo la Corte di merito posto a fondamento della propria statuizione quello, fra i comportamenti, denunciati, che assumeva rilevanza decisiva ai fini dell’accoglimento delle domande proposte. E di conseguenza assolutamente non rilevante, ai fini della correttezza della decisione assunta, con conseguenza carenza di interesse – anche sotto questo profilo – in capo alla società ricorrente, si appalesa il mancato esame delle eccezioni sollevate in sede di appello dalla società predetta in relazione a tali ulteriori episodi denunciati ed, implicitamente, ritenuti non rilevanti dai giudici di merito.

Infine, per quel che riguarda la mancata valutazione da parte della Corte territoriale delle deduzioni della società datoriale circa l’intento speculativo che avrebbe animato le ricorrenti, osserva il Collegio che, al fine di considerare la adeguatezza e sufficienza della motivazione operata dal giudicante, non è necessario che nella stessa vangano espressamente prese in esame tutte le argomentazioni svolte dalle parti, essendo sufficiente che da questa risulti che il convincimento nell’accertamento dei fatti su cui giudicare si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti, considerati nel loro complesso, pur senza una esplicita confutazione degli altri elementi non menzionati o non accolti, anche se allegati, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, a quelli utilizzati (Cass. sez. lav., 5.10.2006 n. 21412; Cass. sez. 3, 27.7.2006 n. 17145; Cass. sez. 3, 24.5.2006 n. 12362; Cass. sez. lav., 10.5.2002 n. 6765; Cass. sez. 3, 23 aprile 2001 n. 5964; Cass. sez. lav., 7.11.2000 n. 14472; Cass. sez. lav., 10.5.2000 n. 6023; Cass. sez. 1, 23.7.1994 n. 6868).

E nel caso di specie dal contesto della motivazione emerge che la Corte di merito ha ritenuto sufficiente, a giustificare la decisione di dimissioni delle lavoratrici, il profilo obiettivo concernente la insalubrità delle condizioni di lavoro nelle quali le stesse erano costrette a prestare la loro opera, prescindendo – avuto riguardo alla conclamata esistenza di siffatto dato obiettivo – dalla presenza o meno di un ipotetico intento “speculativo” in capo alle predette.

Ne consegue che neanche sotto questo profilo il ricorso può trovare accoglimento, avendo la Corte territoriale dato adeguata contezza della ragioni poste a fondamento della propria determinazione.

Il proposto gravame va pertanto rigettato ed a tale pronuncia segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in euro 24,00, oltre euro 2.000,00 (duemila) per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

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