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Cassazione Penale, 10 febbraio 2012, n. 5420

Responsabilità del legale rappresentante di una spa per il decesso di un lavoratore che, intervenuto, insieme ad altri operatori di una s.r.l, con la  tipologia di pronto intervento su chiamata, presso il reparto “stampaggio” della spa, per liberare una tramoggia (a forma di “L” in cui venivano raccolti gli sfridi provenienti dalla tranciatrice per essere convogliati su di un nastro trasportatore) dai residui di lavorazione ed al fine di rimettere in funzione l’impianto di lavorazione trancia sviluppi, sotto la direzione di R. G., socio della srl, che decideva di far tagliare in parte le pareti della tramoggia (onde consentire l’allargamento della bocca della stessa ed il conseguente deflusso dei lamierati sul nastro trasportatore), veniva travolto dal carrello di protezione del nastro trasportatore, che, a causa della caduta degli sfridi sul predetto nastro, determinata dal cedimento delle pareti della tramoggia, si sganciava schiacciandolo contro la parete.
Ricorso in Cassazione delle parti civili avverso la sentenza del Gup del Tribunale di Melfi che dichiarava n.d.p. nei confronti dell’imputato. Accolto: la Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Melfi.
La Corte innanzitutto afferma che l’accezione di “interferenza” tra impresa appaltante ed impresa appaltatrice non può ridursi, ai fini della individuazioni di responsabilità colpose penalmente rilevanti, al riferimento alle sole circostanze che riguardano “contatti rischiosi” tra il personale delle due imprese, così come affermato dal giudice di merito, ma deve fare necessario riferimento anche a tutte quelle attività preventive, poste in essere da entrambe antecedenti ai “contatti rischiosi”, richiamati dal GUP di chiara natura materiale, destinate, per l’appunto, a prevenirli.
In sostanza, ancorché il personale della ditta appaltatrice operi autonomamente nell’ambito del luogo di lavoro della ditta appaltante, deve esser messo in condizione di conoscere, a cura della appaltante, preventivamente i rischi cui può andare incontro in quel luogo di lavoro con riferimento, ovviamente, all’attività lavorativa che deve ivi svolgere.
“Il principio generale in materia di interferenze tra ditta appaltante ed appaltatrice, affermato con continuità da questa Corte è quello che, ove i lavori si svolgano nello stesso cantiere predisposto dall’appaltante in esso inserendosi anche l’attività dell’appaltatore per l’esecuzione di un’opera parziale e specialistica (ivi compresa, ovviamente, anche quella di cui ci si occupa: manutenzione), e non venendo meno l’ingerenza dell’appaltante e la diretta riconducibilità (quanto meno) anche a lui dell’organizzazione del comune cantiere, in quanto investito dei poteri direttivi generali inerenti alla propria qualità, sussiste la responsabilità di entrambi tali soggetti in relazione agli obblighi antinfortunistici, alla loro osservanza ed alla dovuta sorveglianza al riguardo. Un’esclusione della responsabilità dell’appaltante è configurabile solo qualora all’appaltatore sia affidato lo svolgimento di lavori, ancorché determinati e circoscritti, che svolga in piena ed assoluta autonomia organizzativa e dirigenziale rispetto all’appaltante” …
Continua la Corte che non va tralasciato di osservare che, in riferimento alla contestazione di colpa generica formulata anche a carico dell’imputato, in ragione di quanto affermato in diritto in premessa circa i rapporti tra committente ed appaltatore, in fatto necessita di accertamento dibattimentale anche l’eventuale omesso controllo da parte del primo circa l’adozione effettiva di misure antinfortunistiche da parte dell’appaltatore, ancorché riferentesi alla specifica attività lavorativa di questi, ma riguardanti, comunque, il luogo di lavoro dell’azienda del committente ove operavano, in contemporanea, anche suoi dipendenti.

> articolo collegato: Di cosa si parla quando si parla di “interferenza”?


FattoDiritto

M. G., S. E. e S. F., in qualità di costituite parti civili, ricorrono in cassazione avverso la sentenza, ex art. 425 c.p.p., emessa in data 1.03.2011 dal GUP del Tribunale di Melfi con la quale veniva dichiarato n.d.p. nei confronti di I. Nicola, imputato, nella qualità di rappresentante legale p.t. dello stabilimento F. S. S.p.a., per il reato di cui agli artt. 113, 589, comma  2° cod. pen. con violazione dell’art. 7, commi 2,3 e 3 ter del D.Lgs 626/1994.

La vicenda riguarda il decesso di S. Luigi, che, il giorno 18.12.2007, intervenuto, insieme ad altri operatori della società M.2 s.r.l, con la  tipologia di pronto intervento su chiamata, presso il reparto “stampaggio” dello stabilimento F. S. di San Nicola di Melfi, per liberare una tramoggia (a forma di “L” in cui venivano raccolti gli sfridi provenienti dalla tranciatrice per essere convogliati su di un nastro trasportatore) dai residui di lavorazione ed al fine di rimettere in funzione l’impianto di lavorazione trancia sviluppi, sotto la direzione di R. G., socio della M.2, che decideva di far tagliare in parte le pareti della tramoggia (onde consentire l’allargamento della bocca della stessa ed il conseguente deflusso dei lamierati sul nastro trasportatore), veniva travolto dal carrello di protezione del nastro trasportatore, che, a causa della caduta degli sfridi sul predetto nastro, determinata dal cedimento delle pareti della tramoggia, si sganciava schiacciando il S. contro la parete.

All’imputato I. si era contestata la mancata elaborazione del Documento Unico di Valutazione dei Rischi, funzionale alla eliminazione di possibili rischi derivanti dalle “interferenze” tra le attività della ditta appaltante e della ditta appaltatrice.

Le ricorrenti costituite parti civili evidenziano, con un primo motivo, violazione di legge nella specie dell’art. 7, commi 2, 3 e 3 ter D.lvo 626/1994. Premesso che il GUP ha ritenuto l’insussistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva dell’imputato, come contestata, e l’evento morte, si evidenzia che l’interpretazione letterale del richiamato art. 7 ritiene adeguatamente rispettato l’onere di informazione per il datore di lavoro solo allorquando abbia fornito alle imprese appaltatrici dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione ed emergenza adottate in relazione
alla propria attività. L’imputato rivestiva la posizione di garante rispetto all’obbligo di attivarsi, a tutela dell’interesse generale alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, derivante dalla disposizione de qua, la inosservanza della quale si è posta come antecedente logico dell’evento, determinando l’insorgere del presupposto ineliminabile di esso. L’incidenza della condotta dell’imputato peraltro deve essere valutata nell’ottica di un ulteriore elemento trascurato dal giudice, ossia che essa si incardina in un’ipotesi di cooperazione colposa ex art. 113 cod.pen..

Erroneamente il GUP circoscrive la condotta dell’imputato ad un alveo indipendente da quelle degli altri imputati, così negando che la condotta dell’uno sia stata il presupposto dell’ulteriore e successiva mancata valutazione del pericolo connesso all’intervento da parte della ditta appaltatrice. Il GUP ancora il proprio convincimento esclusivamente alla connessione causale tra la violazione da parte dell’I. dell’art. 7 ed il decesso del S., senza che tale condotta venga inserita nel più ampio complesso delle omissioni ascrivibili a tutti i coimputati.

In realtà il rischio specifico dell’unità di stampaggio, che avrebbe dovuto indurre il giudice ad un diverso tipo di apprezzamento, erroneamente apparso vago ed indeterminato, era proprio il rischio connesso al sovraccarico della tramoggia, dovuto ad un interrotto ciclo di produzione, non preventivato né tanto meno comunicato, in modo da predefinire modalità e tecniche di intervento idonee a prevenire possibili danni a persone o cose.

Con memoria depositata nei termini il difensore di I. Nicola ha chiesto che il ricorso venga dichiarato inammissibile in rito perché proposta fuori termine, e nel merito in quanto avanzata con motivi non specifici.

Il ricorso va accolto.

Preliminarmente va data risposta all’eccezione di inammissibilità per intempestività del ricorso avanzata dall’imputato con memoria difensiva. La censura è infondata: tenuto conto che, ai sensi del 4° comma dell’art. 424 c.p.p., il termine di deposito della sentenza è quello di trenta giorni (per altro corrispondente a quello fissato dal GUP in dispositivo), il termine per impugnare di quindici giorni, trattandosi di provvedimento camerale (lett. a) art. 585 c.p.p.), è decorso dal giorno di notifica dell’avviso di deposito del provvedimento (n. 2 lett a) art. 585 c.p.p.) alle costituite parti civili e non dalla scadenza del giorno di deposito dello stesso.

Alcune considerazioni di ordine sistematico si impongono prima di procedere all’esame delle censure poste a fondamento del ricorso.

Sia in giurisprudenza che in dottrina, si è dell’avviso che all’udienza preliminare debba riconoscersi natura processuale e non di merito, non essendovi alcun dubbio circa la individuazione della finalità che ha spinto il legislatore a disegnare e strutturare l’udienza preliminare quale oggi si presenta all’esito dell’evoluzione legislativa registrata al riguardo, e nonostante l’ampliamento dei poteri officiosi relativi alla prova: lo scopo (dell’udienza preliminare) è quello di evitare dibattimenti inutili, e non quello di accertare la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato. Di tal che, il giudice dell’udienza preliminare deve pronunciare sentenza di non luogo a
procedere nei confronti dell’imputato solo in presenza di una situazione di innocenza tale da apparire non superabile in dibattimento dall’acquisizione di nuovi elementi di prova o da una possibile diversa valutazione del compendio probatorio già acquisito; e ciò anche quando, come prevede espressamente l’art. 425 c.p.p., comma 3, “gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contradditori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”: tale disposizione altro non è se non la conferma che il criterio di valutazione per il giudice dell’udienza preliminare non è l’innocenza, bensì -dunque, pur in presenza di elementi probatori insufficienti o contraddittori (sempre che appaiano destinati, con ragionevole previsione, a rimanere tali nell’eventualità del dibattimento) – l’impossibilità di sostenere l’accusa in giudizio.

Fatte queste premesse, occorre ora verificare se, nella concreta fattispecie, il giudice del merito si è attenuto ai principi testé indicati. La risposta è negativa.

Il giudicante è pervenuto alla decisione adottata movendo dal rilievo che nessuna efficacia causale, rispetto alla pacifica dinamica dell’infortunio, può esplicare il profilo della mancata elaborazione del Documento Unico di valutazione dei rischi da parte del legale rappresentante della ditta appaltatrice F. S., funzionale alla eliminazione di possibili rischi derivanti dalle “interferenze” tra l’attività della ditta appaltante e della ditta appaltatrice. Nel rilevare che nessuna interferenza vi è stata durante l’espletamento dell’intervento di svuotamento della tramoggia intasata dagli sfridi, riporta la definizione del concetto di “interferenza” data con la
Determinazione n. 3/2008 dall’Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, intesa come “circostanza in cui si verifica un contatto rischioso tra il personale del committente e quello dell’appaltatore o tra il personale tra imprese diverse che operano nella stessa sede aziendale con contratti differenti”, e conclude il GUP con l’affermare che appare “evidente che la dinamica dell’infortunio per cui è procedimento non ha contemplato alcuna circostanza del tipo testé richiamato”.

L’assunto non è condivisibile in quanto pecca di analisi, sia in fatto che in diritto, superficiale, con conseguente motivazione non congrua.

Ed invero, l’accezione di “interferenza ” tra impresa appaltante ed impresa appaltatrice non può ridursi, ai fini della individuazioni di responsabilità colpose penalmente rilevanti, al riferimento alle sole circostanze che riguardano “contatti rischiosi” tra il personale delle due imprese, ma deve fare necessario riferimento anche a tutte quelle attività preventive, poste in essere da entrambe antecedenti ai “contatti rischiosi”, richiamati dal GUP di chiara natura materiale, destinate, per l’appunto, a prevenirli.

In sostanza, ancorché il personale della ditta appaltatrice operi autonomamente nell’ambito del luogo di lavoro della ditta appaltante, deve esser messo in condizione di conoscere, a cura della appaltante, preventivamente i rischi cui può andare incontro in quel luogo di lavoro con riferimento, ovviamente, all’attività lavorativa che deve ivi svolgere.

Il principio generale in materia di interferenze tra ditta appaltante ed appaltatrice, affermato con continuità da questa Corte è quello che, ove i lavori si svolgano nello stesso cantiere predisposto dall’appaltante in esso inserendosi anche l’attività dell’appaltatore per l’esecuzione di un’opera parziale e specialistica (ivi compresa, ovviamente, anche quella di cui ci si occupa: manutenzione), e non venendo meno l’ingerenza dell’appaltante e la diretta riconducibilità (quanto meno) anche a lui dell’organizzazione del comune cantiere, in quanto investito dei poteri direttivi generali inerenti alla propria qualità, sussiste la responsabilità di entrambi tali soggetti in relazione agli obblighi antinfortunistici, alla loro osservanza ed alla dovuta sorveglianza al riguardo. Un’esclusione della responsabilità dell’appaltante è configurabile solo qualora all’appaltatore sia affidato lo svolgimento di lavori, ancorché determinati e circoscritti, che svolga in piena ed assoluta autonomia organizzativa e dirigenziale rispetto all’appaltante, e non nel caso in cui la stessa interdipendenza dei lavori svolti dai due soggetti escluda ogni estromissione dell’appaltante dall’organizzazione del cantiere. Nella ricorrenza delle anzidette condizioni, trattandosi di norme di diritto pubblico che non possono essere derogate da determinazioni pattizie, non potrebbero avere rilevanza operativa, per escludere la responsabilità dell’appaltante, neppure eventuali clausole di trasferimento del rischio e della responsabilità intercorse tra questi e l’appaltatore.

Nel caso sottoposto all’esame del Collegio il GUP rileva che “dal tenore della contestazione mossa ad I. Nicola nel capo d’imputazione non è dato comprendere quale specifico rischio dell’unità di stampaggio non sia stato specificamente segnalato (ad opera della ditta appaltatrice n.d.r.) ed abbia avuto un’efficienza causale rispetto all’infortunio occorso al dipendente della M.2”, pure a fronte di una specifica contestazione circa la dinamica dell’infortunio, da cui si evince che la mancata comunicazione non può che riguardare proprio i rischi derivanti dall’anomalo riempimento della tramoggia degli sfridi di lavorazione e la tenuta della stessa, e non già la valutazione dei rischi conseguenti alla fuoriuscita degli sfridi dalle aperture praticate sulla tramoggia intasata ed alla mancata adozione di sistemi di contenimento che riguardano la specifica attività della ditta appaltatrice. L’indagine, circa la sussistenza del nesso causale, va svolta proprio in relazione alla sufficienza della comunicazione in tal senso resa dalla appaltante che richiede indubbiamente un approfondimento dibattimentale.

Conferente, poi, è il rilievo delle ricorrenti parti civili secondo cui è lo stesso GUP a riconoscere la elevata pericolosità conseguente “al rischio di fuoriuscita di materiale incontrollato, contenuto nella tramoggia”, la cui quantità eccessiva ha prodotto un intasamento che ha interrotto la produzione e reso necessario un intervento di manutenzione da parte della ditta M.2. Il fatto che la fuoriuscita del materiale sia stata considerata “incontrollata” dimostra che essa avrebbe dovuta essere preventivamente determinata e resa nota alla società appaltatrice, evitando rischi per l’incolumità dei manutentori. Il C.T.U. ha indicato, genericamente, quale avrebbe potuto essere il quantitativo di sfrido presente nella tramoggia, non avendo la F. S. mai fornito documentazione utile alla ricostruzione dello stato della produzione. L’omessa comunicazione di tale dato, se provato, ne evidenzia l’incidenza causale essendosi tradotta nella creazione di un effettivo rischio, poi concretamente realizzatosi. E tale omissione non può non integrare la violazione dell’obbligo imposto dall’art. 7 D.lvo 626/1994.

Le risultanze acquisite avevano, dunque, offerto al giudice precisi elementi di valutazione in presenza dei quali, per quanto emerge dalla sentenza impugnata, non poteva certo escludersi una ulteriore evoluzione probatoria nel giudizio, magari alla luce e sulla scorta di più approfonditi accertamenti peritali.

Mette conto sottolineare, comunque, l’assoluta laconicità della motivazione resa dal G.U.P., pur in presenza di una vicenda complessa e suscettibile, come detto, di adeguato approfondimento.

Non tralasciando, poi, di osservare che, in riferimento alla contestazione di colpa generica formulata anche a carico dell’I., in ragione di quanto affermato in diritto in premessa circa i rapporti tra committente ed appaltatore, in fatto necessita di accertamento dibattimentale anche l’eventuale omesso controllo da parte del primo circa l’adozione effettiva di misure antinfortunistiche da parte dell’appaltatore, ancorché riferentesi alla specifica attività lavorativa di questi, ma riguardanti, comunque, il luogo di lavoro dell’azienda del committente ove operavano, in contemporanea, anche suoi dipendenti.

In sostanza, può ben dirsi che il giudicante ha seguito un percorso motivazionale estremamente sintetico, come già detto, tenuto conto della natura dell’udienza preliminare, quale innanzi evidenziata, nonché di quanto emerso dagli accertamenti peritali – così come sinteticamente riportati nella stessa  sentenza – che, unitamente alle altre attività investigative (assunzioni testimoniali) non accreditavano una valutazione prognostica (in termini di ragionevole prevedibilità) di superfluità dell’ulteriore verifica del giudizio, giustificabile solo, giova ribadirlo, in presenza dì un compendio probatorio da considerarsi irrimediabilmente statico ed insuscettibile di evoluzione, secondo il consolidato indirizzo interpretativo delineatosi nella giurisprudenza di questa Corte: “il giudice dell’udienza preliminare può prosciogliere nel merito l’imputato – in forza di quanto disposto dall’art. 425 c.p.p., comma 3 nel testo modificato dalla L. 16 dicembre 1999, n. 479, art. 23, comma 1, – anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti e contraddittori e simile esito è imposto, come previsto dall’ultima parte dell’art. 425 c.p.p. citato, comma 3, allorché detti elementi siano comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio. Ne consegue che l’insufficienza o la contraddittorietà delle fonti di prova a carico degli imputati ha quale parametro la prognosi dell’inutilità del dibattimento, sicché correttamente deve essere escluso il proscioglimento in tutti i casi in cui tali fonti di prova si prestino a soluzioni alternative e aperte” (in termini, “ex plurimis”, Sez. 6^, 16 novembre 2001, Acampora, RV 221303).

Quanto ai rilievi esposti con memoria difensiva dall’imputato, sebbene in astratto condivisibili, necessitano anch’essi della verifica dibattimentale. La sentenza impugnata, dunque, va annullata con rinvio al Tribunale di Napoli.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Melfi per l’ulteriore corso.

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