Smaltimento clandestino di rifiuti pericolosi e non pericolosi e infortunio per il lavoratore irregolare. Chi è il datore di lavoro?
Presidente: CHIEFFI SEVERO
Relatore: ROCCHI GIACOMO
Data Udienza: 06/10/2015
Fatto
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma di quella del Tribunale di Milano emessa nei confronti di R.F., dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputato per il reato di lesioni colpose perché l’azione penale non poteva essere esercitata per mancanza di querela e lo assolveva dal reato di cui all’art. 279, comma 1, D. L.vo 152 del 2006(immissione di fumi nell’atmosfera senza avere ottenuto la prescritta autorizzazione) per insussistenza del fatto; confermava la condanna per le restanti imputazioni e rideterminava la pena in anni uno e mesi due di reclusione ed euro 3.600 di multa, previa riduzione per il rito abbreviato.
A seguito dell’infortunio sul lavoro subito da M.A. il 9/9/2009, R.F., titolare di un’attività di autorivendita di veicoli usati, era stato ritenuto colpevole della mancata elaborazione del documento unico di valutazione dei rischi previsto dall’art. 26, comma 3, D. L.vo 81 del 2008, omissione sanzionata dall’art. 55, comma 5, lett. d) stesso decreto (capo B dell’imputazione), del delitto di cui all’art. 22, comma 12, D. L.vo 286 del 1998, per avere occupato alle proprie dipendenze il predetto M.A., privo di permesso di soggiorno (capo C dell’imputazione), dello scarico nelle pubbliche fognature e sul suolo, senza autorizzazione, delle acque di lavorazione provenienti dalle operazioni di lavaggio degli autoveicoli, condotta sanzionata dagli artt. 126 e 137, comma 1, D. L.vo 152 del 2006 (capo D dell’imputazione) nonché dell’attività di raccolta di rifiuti pericolosi e non pericolosi (oli esausti, batterie al piombo, filtri di olio motore, polveri di stucco, liquidi refrigeranti) senza alcuna autorizzazione, con deposito incontrollato sul terreno a fondo naturale insieme a parti meccaniche, condotta qualificata come smaltimento clandestino di rifiuti pericolosi e non pericolosi ai sensi dell’art. 256, comma 1, lett. a) e b) D. L.vo 152 del 2006 (capo F dell’imputazione).
L’infortunio sul lavoro – verosimilmente una folgorazione da energia elettrica – era avvenuto mentre M.A. lavorava da solo all’interno di un capannone, adibito ad officina e carrozzeria, situato all’Interno dell’area più vasta destinata all’esposizione all’aperto di autovetture usate, attività per la quale il figlio di R.F. aveva una licenza insieme a quella di vendita al dettaglio di pezzi di ricambio di autovetture.
Secondo le concordi dichiarazioni dell’Infortunato e di H.H., era stato quest’ultimo a chiedere una collaborazione a M.A., avendogli R.F. ceduto saltuariamente il capannone per l’effettuazione di piccoli lavori di carrozzeria ed avvalendosi egli all’occorrenza dell’aiuto di connazionali, come nel caso di specie. I funzionari della ASL di Milano, al termine dell’indagine, avevano ritenuto che “R.F. avesse ceduto il capannone ad H.H. per lo svolgimento dell’attività di carrozzeria”, così addebitando ad H.H., e non a R.F., la responsabilità della mancata formazione e informazione del connazionale.
Secondo il Giudice di primo grado, M.A., quel giorno, era impiegato alle dipendenze di R.F. “tramite l’H.H.”; del resto, l’infortunato aveva dichiarato di avere già lavorato in passato in quella carrozzeria e un amico di R.F. aveva riferito di avere visto M.A. nell’area in questione.
La sentenza di appello in questa sede impugnata, approfondendo il punto accennato in quella di primo grado, osservava che la cessione del capannone da R.F. ad H.H. era un mero assunto privo di qualsiasi supporto documentale (dato, quest’ultimo, pacifico); la documentazione fotografica allegata alla notizia di reato della Polizia Locale dimostrava la promiscuità delle attività di esposizione e vendita di veicoli e di riparazione ed officina in quell’area molto limitata (complessivamente mq. 800): quindi, secondo la Corte territoriale, R.F. ed H.H. non svolgevano affatto attività autonome ed indipendenti; piuttosto, R.F. aveva deciso di lucrare sulla propria impresa di rivendita di veicoli usati mediante un’ulteriore attività di officina e carrozzeria, svolta nel totale disprezzo delle leggi in materia di lavoro e di ambiente.
La Corte osservava che, quel giorno, R.F. aveva affidato ad un custode da lui nominato l’intera area – quindi anche il capannone destinato ad officina e carrozzeria; non era un caso che il custode – tale N. – avesse fatto entrare M.A., che l’amico di R.F., C., aveva visto altre volte nei dintorni. Ancora: erano di proprietà di R.F. non solo il capannone e l’impianto elettrico, ma anche le attrezzature.
R.F., pertanto, era responsabile per il delitto di cui all’art. 22, comma 12 D. L.vo 286 del 1998, così come per la mancata redazione di un documento unico di valutazione dei rischi, di scarico non autorizzato di reflui industriali e del deposito incontrollato di rifiuti.
La Corte fissava come pena base quella per il delitto di cui al capo C di anni uno di reclusione ed euro 5.000 di multa, determinando, poi, gli aumenti per le contravvenzioni.
2. Ricorre per cassazione R.F. personalmente, deducendo distinti motivi.
In un primo motivo il ricorrente deduce violazione deli’art. 22, comma 12 D. L.vo 286 del 1998 e vizio di motivazione.
Secondo il ricorrente, la Corte territoriale aveva travisato le prove al fine di giungere a ritenere sussistente un rapporto di lavoro subordinato tra R.F. e il cittadino extracomunitario M.A.: dagli atti non emerge in alcun modo né la prova della costituzione del rapporto di lavoro tra i due soggetti, né quella dell’effettivo svolgimento di attività lavorativa da parte dello straniero nei confronti dell’imputato.
Le prove indicavano che R.F. aveva ceduto in comodato un capannone ad un altro straniero, tale H.H., che vi svolgeva l’attività di autocarrozzeria e presso il quale il M.A. lavorava, senza che R.F. fosse a conoscenza della sua presenza nel capannone. Tale ricostruzione emergeva dalle dichiarazioni dell’infortunato, da quelle di H.H., dall’annotazione del tecnico della prevenzione della A.S.L., D.S., che aveva addebitato ad H.H., quale datore di lavoro, di non avere fornito a M.A. la necessaria formazione ed informazione nonché dalle dichiarazioni di F.C. che, per la prima volta aveva visto M.A. dentro la concessionaria.
R.F. non era, quindi, datore di lavoro di M.A.; né la responsabilità per il delitto di cui all’art. 22, comma 12 D. L.vo 286 del 1998 poteva discendere da un suo – negato – ruolo di committente dei lavori di carrozzeria ad H.H., trattandosi di reato proprio del datore di lavoro. Il ricorrente sottolinea che, a seguito della modifica normativa intervenuta nel 2008, il reato contestato è divenuto delitto e, quindi, richiede il dolo – quindi la consapevolezza e volontà del datore di lavoro di occupare alle proprie dipendenze un lavoratore irregolare.
In un secondo motivo, il ricorrente deduce violazione degli artt. 26 e 55 D. L.vo 81 del 2008 e vizio di motivazione con riferimento alla condanna per la mancata elaborazione di un documento unico di valutazione dei rischi (capo B).
In realtà – come già argomentato nel primo motivo – R.F. non era committente dell’attività lavorativa svolta da H.H., ma si era limitato a concedergli in comodato un capannone. Non a caso, al momento dell’infortunio, M.A. lavorava alla riparazione di un’autovettura che non apparteneva alla concessionaria di cui l’imputato è titolare. Il ricorrente ricorda che il reato contestato è un reato proprio che può essere commesso solo dal datore di lavoro committente.
In un terzo motivo, il ricorrente deduce violazione degli artt. 126 e 137 D. L.vo 152 del 2006 e vizio di motivazione in relazione alla condanna per lo scarico senza autorizzazione delle acque di lavorazione provenienti dal lavaggio degli autoveicoli (capo D dell’imputazione).
Lo scarico non poteva essere addebitato a R.F., ma doveva esserlo ad H.H., poiché il lavaggio degli autoveicoli si svolgeva nel capannone dato in comodato; in ogni caso, come già affermato da questa Corte, a seguito dellemodifiche introdotte dal D. L.vo 4 del 2008, scarico deve intendersi (art. 74, comma 1, lett. ff) D. L.vo 152 del 2006) un’immissione effettuata tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore; quindi, in mancanza di tale sistema di collettamento, lo scarico non può più considerarsi diretto.
In un quarto motivo, il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche e alla quantificazione della pena.
Il ricorrente ricorda di essere incensurato e sottolinea che gli è stata contestata un’assunzione indiretta ed occasionale di un solo lavoratore irregolare.
In un quinto motivo, il ricorrente deduce violazione degli artt. 163 e 164 cod. pen. e vizio di motivazione quanto al diniego del beneficio della sospensione condizionale della pena, del tutto immotivato e contrastante con l’incensuratezza dell’imputato.
Il ricorrente conclude per l’annullamento della sentenza impugnata.
Diritto
1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Correttamente il ricorrente sottolinea che, a seguito della trasformazione della fattispecie di cui all’art. 22, comma 12, D. L.vo 286 del 1998 da contravvenzione a delitto, operata dal d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv. con modificazioni nella legge 24 luglio 2008, n. 125, l’elemento soggettivo del reato non può che essere il dolo, non essendo più sufficiente la colpa, cosicché il reato sussiste soltanto se il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri conosca la loro condizione irregolare sul territorio dello Stato (mancanza di permesso di soggiorno, o revoca o mancato rinnovo dello stesso).
Ovviamente il delitto è punito anche in presenza di dolo eventuale, che ricorre quando il datore di lavoro si rappresenta l’eventualità che lo straniero sia nella posizione irregolare sopra indicata e lo occupa ugualmente alle proprie dipendenze senza accertarsi della sua condizione.
Vi sarà colpa, invece, se il datore di lavoro, pur eventualmente essendosi rappresentato la posizione irregolare dello straniero, l’abbia esclusa ma negligentemente e in violazione delle norme in materia di lavoro non abbia verificato il possesso del permesso di soggiorno: in questo caso non ricorre la responsabilità per il delitto.
L’accertamento del dolo o della colpa da parte del giudice sarà possibile in base agli elementi sintomatici che, di volta in volta, le specifiche situazioni faranno emergere.
Si deve ancora ricordare che la fattispecie prevista dall’art. 22, comma 12 D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 è un reato proprio, che può essere commesso solo dal datore di lavoro, cosicché di esso non può rispondere un committente di opere affidate ad una persona che, a sua volta, ingaggia il lavoratore extracomunitario (Sez. 4, n. 31288 del 16/04/2013 – dep. 22/07/2013, Mangione, Rv. 255897); tuttavia, l’assunzione o l’ingaggio ad opera di terze persone non può fungere da “schermo” per porre il datore di lavoro a riparo da ogni responsabilità: in effetti, la fattispecie descrive la condotta illecita come quella di “occupare alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno” e, quindi, non pretende affatto – per l’integrazione del delitto – che il datore di lavoro abbia personalmente assunto o ingaggiato lo straniero irregolare; cosicché risponde del reato di occupazione di lavoratori dipendenti stranieri privi del permesso di soggiorno non soltanto colui che procede all’assunzione di detti lavoratori, ma anche colui che, pur non avendo provveduto direttamente all’assunzione, se ne avvalga tenendoli alle sue dipendenze (Sez. 1, n. 25615 del 18/05/2011 – dep. 27/06/2011, Fragasso, Rv. 250687), in presenza del dolo sopra descritto.
2. Quanto appena ricordato rileva nel caso in esame: in effetti, la difesa dell’imputato censura la sentenza impugnata per avere travisato le prove acquisite e sostiene che R.F. non era datore di lavoro dello straniero infortunato per non averlo né assunto né occupato alle proprie dipendenze – avendolo invece fatto H.H. – e che comunque ignorava la sua condizione di straniero clandestino; del resto, l’imputato aveva negato addirittura di conoscere M.A. e di avere saputo che egli era impiegato nel capannone adibito a officina e carrozzeria.
Ciò che il ricorrente non coglie è che la Corte territoriale non ha affatto travisato le prove emerse, ma ha ritenuto alcune di esse del tutto inattendibili, ricostruendo il rapporto che legava R.F., H.H. e M.A. in maniera differente rispetto a quanto i tre soggetti avevano riferito.
Non vi è dubbio, infatti, che H.H. aveva confermato di avere ricevuto in comodato il capannone da parte di R.F., di avervi installato un’officina gestita autonomamente e di avere chiesto saltuariamente al connazionale di aiutarlo in relazione a lavori concernenti singole autovetture da riparare; e che M.A. aveva riferito di essere stato chiamato da H.H., come in precedenti occasioni, per prestare la propria opera, senza avere alcun rapporto con R.F.; e che tali due dichiarazioni confermavano la versione dell’imputato di essere all’oscuro che M.A. lavorava nel capannone e, comunque, di non avere con lui alcun rapporto.
Ancora: è vero che i funzionari della ASL di Milano, nell’indagine esperita in conseguenza dell’infortunio sul lavoro, dando atto di tali dichiarazioni, avevano ritenuto H.H., e non R.F., datore di lavoro di M.A. e quindi onerato dell’obbligo di formazione e informazione.
La Corte territoriale, tuttavia, fa emergere elementi di fatto che le fanno ritenere queste dichiarazioni compiacenti e dirette unicamente a tenere indenne R.F. da ogni responsabilità: la mancanza di ogni supporto documentale che provasse il rapporto di comodato concernente il capannone, la modesta estensione dell’area di esposizione delle autovetture usate, tale da non permettere di considerare il predetto capannone come un edificio separato ed autonomo; la prova documentale e fotografica che, in realtà, l’attività di riparazione delle autovetture non veniva svolta esclusivamente nel predetto capannone, ma anche nell’area destinata all’esposizione delle autovetture in vendita; la presenza continuativa di R.F. nella rivendita, con conseguente insostenibilità della sua versione di non conoscere M.A.; la prova della presenza di quest’ultimo in zona, osservata anche dal teste C.; la circostanza che il custode dell’area, in assenza di R.F., aveva fatto entrare M.A., a dimostrazione della frequenza della sua presenza; la proprietà in capo al R.F. di tutta l’attrezzatura che veniva usata nel capannone, così come l’unicità delle utenze (acqua, energia elettrica).
Da questi elementi e dal movente economico facilmente individuabile in capo all’imputato – che poteva guadagnare non solo dalla vendita di autovetture usate, ma anche dalla loro riparazione – la Corte trae la conclusione che, in realtà, sia H.H. (anch’egli irregolare sul territorio dello Stato) che M.A. lavoravano per R.F., poiché l’attività di autofficina e di carrozzeria era riconducibile a questi; che, anche ritenendo che fosse stato H.H. ad avere chiesto a M.A. di lavorare saltuariamente (quindi ad ingaggiarlo), R.F. ne era perfettamente consapevole, così come conosceva la condizione irregolare di entrambi gli stranieri.
La motivazione così riassunta non appare affatto manifestamente illogica né travisante le prove ma, al contrario, risulta convincente, mentre appare poco verosimile la generosità dell’imputato che, del tutto gratuitamente, avrebbe ceduto ad uno straniero clandestino capannone ed attrezzature lasciandogli assoluta libertà di azione.
3. Il quinto motivo di ricorso è fondato.
La sentenza impugnata, pur dando atto del motivo di appello concernente il diniego della sospensione condizionale della pena, non ha provveduto su di esso mantenendo la decisione del giudice di primo grado; né i precedenti dell’Imputato rendevano il motivo manifestamente infondato.
Analogamente, il quarto motivo di ricorso è parzialmente fondato, non fornendo la sentenza impugnata alcuna motivazione in punto di determinazione della pena base in misura doppia al minimo edittale (al contrario, la motivazione in punto di diniego delle attenuanti generiche è ampia e più che adeguata).
4. L’accoglimento di tali motivi impone l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio del reato di cui al capo C.
A sua volta, tale decisione rende inevitabile l’annullamento senza rinvio della sentenza con riferimento alla condanna per le tre contravvenzioni sub B, D ed F, per le quali il termine massimo di prescrizione è ormai decorso e che, quindi, sono estinte. La pena inflitta per tali reati viene, quindi, eliminata.
Il Giudice del rinvio, in definitiva, affronterà la questione della quantificazione della pena per il delitto sub C – per il quale la presente sentenza rende irrevocabile l’affermazione di responsabilità dell’imputato – nonché quella della eventuale concessione del beneficio della sospensione condizionale.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente ai capi B, D ed F perché i reati sono estinti per prescrizione ed elimina la relativa pena pari a mesi sei di reclusione ed euro 266 di multa.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio in relazione al reato di cui al capo C e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte d’appello di Milano.
Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso il 6 ottobre 2015