Repertorio Salute

Cassazione Penale, Sez. 1, ud. 20 gennaio 2016 (dep. maggio 2016), n. 18168

Grave infortunio ad un ammagliatore durante il lavoro di aggancio dei materiali da issare a bordo di una nave: sussiste responsabilità dell’OdV e del CdA?

> articolo collegato: La Cassazione sulla responsabilità degli Organi di Vigilanza


In data 13.12.2010 si verificava un infortunio sul lavoro nel cantiere navale di Monfalcone, di proprietà “Fincantieri Cantieri Navali spa”: l’infortunato era un operaio con mansioni di ammagliatore, il quale doveva agganciare i materiali da issare a bordo di una costruzione navale (in particolare, un fascio di tubi inox che dalla banchina doveva giungere al ponte 5 a mezzo gru); a questo scopo egli legava due fasci di tubi con del filo di ferro ed ordinava di sollevare il carico; poi si accorgeva che il carico si muoveva ed ordinava di fermare l’operazione per poi provvedere ad assicurarlo di nuovo; ordinava di issare a bordo, ma il carico, al momento di essere girato dalla gru, iniziava ad oscillare al punto che da uno dei fasci si sfilavano due grandi tubi uno dei quali, cadendo, colpiva proprio l’operaio alla nuca ed alla schiena, procurandogli paraplegia completa degli arti inferiori con conseguenti lesioni gravissime, invalidità permanente e pericolo di vita.
Ne conseguiva il giudizio per numerosi imputati e per diverse imputazioni (omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, lesioni personali colpose ed altro ancora).
In particolare, per quanto riguarda l’odierno procedimento, si imputava ex art. 437 cod.pen. ai componenti del Consiglio di Amministrazione della “Fincantieri Cantieri Navali spa” di avere omesso di collocare apparecchi idonei al sollevamento dei materiali a mezzo gru o di averne messo in numero insufficiente, e segnatamente appositi accessori quali baie o ceste idonee al carico dei materiali sulla nave; inoltre si imputava ex art. 437 cod.pen. ai componenti dell’Organismo di Vigilanza di “Fincantieri Cantieri Navali spa” di avere omesso di segnalare al consiglio di amministrazione e ai direttori generali e di non aver preteso che si ponesse rimedio ad una serie di carenze in tema di prevenzione dagli infortuni che venivano segnalati nei report in tema di sicurezza all’interno del cantiere, i quali ripetevano da tempo la mancanza di impianti, apparecchi e segnali, ma che l’Organismo di Vigilanza avrebbe recepito passivamente, senza segnalare alcunché al datore di lavoro, e, al contempo, non approfondendo gli aspetti di gestione delle attrezzature di lavoro e l’utilizzo di apposi accessori quali baie o ceste.
Con sentenza in data 18.12.2014 il GUP del Tribunale di Gorizia dichiarava non luogo a procedere in relazione al capo A) della rubrica, relativo all’imputazione ex art. 437 cod.pen., nei confronti di tutti gli imputati perché il fatto non sussiste.
Rilevava il GUP che l’art. 437 cod.pen. non contemplava una specifica indicazione delle cautele la cui omissione integrasse reato, ma effettuava un rinvio alla normativa infortunistica, sempre però che quest’ultima riguardasse , per cui non si riferiva a qualsivoglia attrezzatura da lavoro; quindi escludeva che baie e ceste potessero qualificarsi come apparecchi alla stregua dell’art. 437 cod.pen., ritenendo che la norma facesse riferimento a strumenti aventi un minimo di complessità tecnica e che l’uso del termine “collocazione” anche in relazione agli apparecchi imponesse la correlazione dell’omissione con una cosa dotata di stabilità strutturale: le baie e le ceste erano invece semplici contenitori, privi di qualsivoglia congegno tecnico; peraltro, trattandosi di strumenti per vincolare i carichi alle gru, si trattava di oggetti per i quali non si poteva parlare di “collocazione”. Ma anche qualora si fosse voluto ritenere che baie e ceste fossero apparecchi, mancava pur sempre l’altro parametro di cui all’art. 437 cod.pen. e cioè che fossero volti a prevenire disastri o infortuni sul lavoro: al contrario, baie e ceste erano solo attrezzature da lavoro non volte ad impedire infortuni, ma anzi oggetti il cui uso scorretto poteva provocare infortuni; l’uso delle stesse non incrementava la sicurezza nella movimentazione dei carichi a mezzo gru, che era assicurata dalla adeguata selezione del carico da movimentare. Diversamente opinando, conclude il GUP, qualsiasi attrezzatura da lavoro sarebbe intrinsecamente volta ad impedire infortuni, in contrasto con la ratio dell’art. 437 cod.pen., che colpisce più gravemente l’omissione proprio perché concernente dispositivi con specifica funzionalità antinfortunistica. Ma il GUP rilevava che l’imputazione era alternativa, nel senso che si ipotizzava anche una fornitura di baie e ceste in numero non sufficiente: poiché era risultato che tali attrezzature erano state fornite agli operai, la problematica del numero sufficiente rientrava in considerazioni di natura organizzativa, necessariamente esterne al contenuto dell’art. 437 cod.pen. In ogni caso, si rilevava che il reato omissivo poteva essere posto in essere soltanto da soggetti gravati da uno specifico obbligo di predisporre le cautele omesse, che non gravava né sui membri dell’Organismo di Vigilanza né sui membri del Consiglio di Amministrazione, trattandosi di scelte di politica aziendale ed incombenze validamente delegate ai responsabili delle singole unità produttive: queste deleghe avrebbero escluso il cumulo di responsabilità in capo ai rappresentanti della componente datoriale.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Gorizia, deducendo inosservanza ed erronea applicazione della legge penale nonché contraddittorietà ed illogicità della motivazione. Si sostiene che le distinzioni effettuate dal GUP tra apparecchi ed attrezzature ed il riferimento alla stabilità strutturale delle stesse non collimano con la normativa antinfortunistica giacché baie e ceste senza dubbio andrebbero considerate come presidi di sicurezza che prevengono il verificarsi di infortuni e giacché l’art. 437 cod.pen. richiamerebbe l’intero complesso di disposizioni e cognizioni derivanti dall’esperienza relativa a diversi settori produttivi. Si contesta che sussista una distinzione tra apparecchi ed attrezzature nella normativa infortunistica e che la baie e le ceste occorrono appunto per assicurare carichi altrimenti non imbragabili. Illogico sarebbe poi stato il richiamo ad una sentenza n° 4675/2006 della Corte Suprema, che considera integrato il reato in relazione a dispositivi anche con mera potenzialità antinfortunistica, affermando dapprima di condividerla per poi affermare che non tutte le attrezzature da lavoro sono intrinsecamente destinate a prevenire infortuni. Si contestano poi le conclusioni in tema di delega di funzioni: la delega riscontrata in atti non sarebbe stata conferita validamente poiché risultavano due soggetti titolari dei medesimi poteri di datore di lavoro ed una delle deleghe era stata revocata solo nella stessa data dell’Infortunio de quo; in ogni caso, poi, la delega non esonera il delegante dal vigilare sull’attività del delegato, perché continua a gravare la posizione di garanzia: nella specie, vi era una connessione tra attività del delegato e politica di impresa, poiché nel cantiere vi erano innumerevoli carenze regolarmente segnalate ed alle quali non si poneva rimedio; la sicurezza doveva rientrare nelle politica aziendale e laddove il delegato non avesse preso le opportune cautele, i deleganti avrebbero dovuto intervenire. Si rilevava che il Consiglio di Amministrazione era stato informato delle manchevolezze e che l’Organismo di Vigilanza sapeva che i cantieri giustificavano le stesse con problemi economici: in particolare, per quest’ultimo organo il ricorso rammentava la funzione di controllo e la mancanza di sollecitazioni ad assumere iniziative concrete per la sicurezza; si lamentava anche la mancanza di indipendenza dell’organismo di vigilanza e la incompetenza tecnica dei suoi componenti.
E’ pervenuta memoria redatta dalla Difesa di … (componenti del Consiglio di Amministrazione), … (direttori generali Fincantieri spa) nonché … (membri dell’Organismo di Vigilanza): in essa si evidenzia che effettivamente le baie o ceste sono semplici contenitori e non hanno nulla di un apparecchio, termine adoperato dall’art. 437 cod.pen. ed inteso ordinariamente come un complesso di elementi di varia natura, meccanici, elettrici etc. disposti in modo da costituire un dispositivo: in sostanza qualcosa di molto distante da una cesta e comunque non funzionale alla prevenzione di disastri od infortuni; le ceste sarebbero state una modalità di carico alternativa all’imbragatura dei materiali tramite funi ed erano state fornite al cantiere: di conseguenza, la scelta di usarle o meno rientrava sul piano organizzativo del lavoro e non su quello dell’omesso collocamento di apparecchi. Si insiste sulla giurisprudenza di legittimità che avrebbe sempre sottolineato che gli apparecchi rilevanti dovrebbero avere almeno in parte una funzione di prevenzione, la quale non è connaturale alle ceste poiché la sicurezza dell’operazione non era garantita dal mezzo in sé, ma dalle modalità con cui era condotta. Ed ancora, si critica la stessa contestazione dell’art. 437 cod.pen., che è delitto contro l’incolumità pubblica e si caratterizza per l’esposizione a rischio di un numero indeterminato di persone e non un singolo lavoratore oltre che la natura dolosa dell’omissione, che invece sembra atteggiarsi, nell’imputazione, a condotta connotata da scarso approfondimento. Si contesta poi che la individuazione quale datore di lavoro è rivestita dal soggetto responsabile di una unità produttiva-stabilimento, per cui essa doveva ricercarsi nel responsabile del cantiere di Monfalcone e non anche in un Consiglio di Amministrazione che si occupa di alta gestione: il ricorso inoltre non motiverebbe la ragione per cui anche i Direttori Generali dovrebbero considerarsi datori di lavoro, nonostante che lo stesso capo di imputazione riconosca la qualifica di datore di lavoro di fatto nel responsabile del cantiere di Monfalcone; in definitiva, si amplierebbe a dismisura l’individuazione di responsabili, pur in presenza di deleghe operative finalizzate a garantire le migliori condizioni di sicurezza in concreto, a fronte della complessa struttura della società, si richiama giurisprudenza della Corte Suprema (Rv 252675, Rv 261108) la quale precisa che, se è vero che la delega non esonera il delegante, tuttavia questo tipo di responsabilità si limita ad una vigilanza alta sul corretto svolgimento delle funzioni da parte del delegato e non anche sulla concreta e minuta conformazione delle singole lavorazioni, altrimenti la delega risulterebbe svuotata di significato e il compito di vigilanza di un Consiglio di Amministrazione sarebbe impossibile, considerata la vastità degli impianti ed il numero dei dipendenti: pertanto non potrebbe pensarsi alla responsabilità di un organo di vertice per non aver controllato se un singolo operaio utilizzasse o no delle ceste, le quali erano state fornite al cantiere. Si sottolinea poi la contraddizione del capo di imputazione laddove si contesta al Consiglio di Amministrazione una omissione dolosa di cautele ed all’Organismo di Vigilanza di non aver segnalato le carenze di sicurezza non consentendo l’attivazione del Consiglio di Amministrazione stesso; oltre a ciò, la responsabilità dell’Organismo di Vigilanza si situerebbe in una sorta di doloso non facere avallante il doloso comportamento del Consiglio di Amministrazione: ma, poiché in sede di udienza preliminare, il P.M. aveva eliminato dal capo di imputazione il riferimento all’art. 40 cpv cod.pen., si doveva ritenere che l’ipotesi accusatoria postulasse una responsabilità dell’Organismo di Vigilanza ai sensi dell’art. 437 cod.pen., il quale punisce soltanto coloro che avevano l’obbligo giuridico di adottare cautele, obbligo che non incombe sul detto organismo in quanto non datore di lavoro, ma soltanto organo – di istituzione facoltativa – preposto alla valutazione dell’architettura astratta di presidi e controlli e non anche alla vigilanza puntuale e quotidiana delle modalità di svolgimento delle attività.
E’ pervenuta anche memoria della difesa di M.A.W., nella quale si contesta che sostanzialmente il P.M. invita ad una rilettura del materiale acquisito nel corso delle indagini preliminari nel senso di operare una diversa ricostruzione dell’incidente, che invece è sottratta alla sede di legittimità. Si evidenzia che il P.M non ha richiamato alcun documento atto a dimostrare il supposto contrasto tra le conclusioni del GUP e gli atti del procedimento né documenti da cui ricavare che il Consiglio di Amministrazione fosse stato informato di carenze di sicurezza; il ricorso tenderebbe invece a generalizzare la figura datoriale in quella di consigliere del Consiglio di Amministrazione, a prescindere dai concreti poteri di gestione: in questo caso, invece, i consiglieri senza deleghe non potevano compiere atti individuali di ispezione presso la società e non vi è traccia nel ricorso di documenti che avrebbero segnalato le problematiche di sicurezza del cantiere.
Il P.G. in sede ha concluso per il rigetto del ricorso, sottolineando che il ricorso non supera la problematica della “collocazione” di impianti né quello della fornitura delle ceste e che, parimenti, esso non spiega perché sarebbe illegittimo nominare due soggetti delegati né riesce a delineare la condotta causalmente rilevante dell’Organismo di Vigilanza.
L’avv. … ha concluso per il rigetto del ricorso insistendo, in particolare, sul perimetro delle responsabilità di un Consiglio di Amministrazione, il quale è chiamato ad assumere scelte aziendali di fondo, in un ambito di alta gestione che non può, per natura stessa dell’organismo, inoltrarsi nelle concrete e specifiche lavorazioni; parimenti ha sottolineato che siffatti obblighi non possono attribuirsi all’Organismo di Vigilanza, il quale non è dotato di poteri impeditivi; ha rammentato che il processo prosegue nei confronti di altri soggetti, gravati dall’accusa di lesioni personali colpose.
Gli altri difensori presenti, avv. … hanno richiamato le ragioni espresse nelle memorie depositate, associandosi alla richiesta di rigetto del ricorso.

Diritto

Il ricorso va rigettato poiché infondato.
La vicenda procedimentale è stata prima riportata, per cui appare inutile soffermarsi in ripetizioni che nulla aggiungerebbero alla decisione; basti considerare che un incidente, avvenuto nel corso del lavoro di ammagliatura nei cantieri navali di Monfalcone, causava una grave invalidità ad un operaio, a motivo di due tubi i quali si sfilavano dal carico che una gru stava sollevando e cascavano sull’ammagliatore medesimo. Il processo veniva instaurato nei confronti di una quantità di soggetti a diverso titolo: una parte del processo stesso aveva una suo primo sbocco nella sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste e concerneva i soggetti oggi interessati, componenti del Consiglio di Amministrazione e dell’Organismo di Vigilanza della Fincantieri Cantieri Navali spa; le ragioni della decisione sono state già supra sintetizzate.
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Gorizia ha proposto ricorso avverso la menzionata sentenza; i motivi del ricorso possono, sostanzialmente, raggrupparsi nelle seguenti ragioni: da un lato si contesta la distinzione, operata dal GUP del Tribunale di Gorizia, tra apparecchi ed attrezzature nonché il riferimento alla stabilità strutturale delle cose stesse, sostenendosi che si tratta di argomentazioni estranee alla normativa antinfortunistica giacché baie e ceste senza dubbio andrebbero considerate come presidi di sicurezza; d’altro lato, si contesta l’efficacia della delega di funzioni per come ritenuta dal Giudice, sostenendosi che la delega riscontrata in atti non sarebbe stata conferita validamente poiché risultavano due soggetti titolari dei medesimi poteri di datore di lavoro e poi perché la delega stessa, in sé considerata, non esonera il delegante dal vigilare sull’attività del delegato, in funzione della posizione di garanzia; infine, si sostiene che il Consiglio di Amministrazione era informato delle manchevolezze di cautele che caratterizzavano i cantieri navali e che l’Organismo di Vigilanza era ben conscio dei problemi economici con i quali si giustificavano le asserite manchevolezze.
Negli atti della difesa degli interessati si colgono diverse argomentazioni, le quali si prestano ad un raggruppamento in ragioni omogenee: si contrasta la stessa contestazione dell’art. 437 cod.pen., ritenuto delitto contro l’incolumità pubblica connotato dall’elemento della esposizione a rischio di un numero indeterminato di persone e non di un singolo lavoratore; si nega poi che il perimetro delle responsabilità di un Consiglio di Amministrazione possa dilatarsi sino a comprendere le modalità concrete di una singola lavorazione in un cantiere navale, facendosi notare che, così opinando, la vastità dei cantieri ed il numero degli operai addetti renderebbe, da un lato, sostanzialmente impossibile il compito in tal modo individuato e, d’altro lato, svuoterebbe di ogni significato effettivo la delega di funzioni; parimenti si sollevano motivate perplessità sull’ampiezza degli obblighi dell’Organismo di Vigilanza che il ricorso presupporrebbe e sulla stessa costruzione della imputazione relativa ai componenti di quest’ultimo organismo.
Queste argomentazioni, sintetizzate tutte per estremi capi, consentono una trattazione unitaria della vicenda, ma va da subito chiarito che un punto – presente nella sentenza de qua ed efficacemente sottolineato dal P.G. – appare avere una efficacia dirimente tale da assorbire buona parte delle questioni.
§ 1. Non appare errata l’astratta contestazione dell’art. 437 cod.pen., avversata sulla scorta del fatto che l’infortunio in questione avrebbe riguardato un solo lavoratore e non anche una generalità indeterminata di lavoratori: in effetti, l’orientamento di questa Corte, cui il Collegio aderisce, si esprime ritenendo che, per la configurabilità del reato di cui all’art. 437 cod.pen. (omessa collocazione di impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro), il pericolo presunto che la norma in esame intende prevenire non deve necessariamente interessare la collettività dei cittadini o, comunque, un numero rilevante di persone, potendo esso riguardare anche gli operai di una piccola fabbrica, in quanto questa norma prevede anche il pericolo di semplici infortuni individuali sul lavoro e tutela anche l’incolumità dei singoli lavoratori; per quanto riguarda l’elemento psicologico del reato in questione, è sufficiente la coscienza e volontà di omettere le cautele prescritte, nonostante la consapevolezza del pericolo per l’incolumità delle persone (Sez. 1, n° 11161 del 20.11.1996, Rv 206428).
§ 2. Desta perplessità la configurazione di una responsabilità in capo ai componenti dell’Organismo di Vigilanza basata sul non aver loro portato a conoscenza del Consiglio di Amministrazione le asserite manchevolezze che avrebbero afflitto i cantieri navali: le perplessità sono causate da una inevitabile contraddizione nella quale la ricostruzione della vicenda sembra avvilupparsi, poiché, se – seguendo appunto l’ipotesi di accusa – i citati membri dell’Organismo di Vigilanza nulla avevano riferito ai membri del Consiglio di Amministrazione, è ben difficile ipotizzare una responsabilità in capo a questi ultimi per non avere adottato le cautele che le situazioni di pericolo avrebbero richiesto.
Parimenti, occorre prendere atto che il ricorso non precisa quali fossero la carenze e le manchevolezze che sarebbero state dolosamente ignorate dai membri dell’Organismo di Vigilanza: né, in particolare, il ricorso afferma che siffatte imprecisate manchevolezze avrebbero riguardato le ceste utili per la sollevazione dei tubi.
§ 3. È discutibile che le baie o ceste possano considerarsi uno degli “apparecchi” menzionati dall’art. 437 cod.pen.: tra le ipotesi delittuose previste dalla citata norma rientrano l’omissione dolosa di una apparecchiatura infortunistica o l’omissione del ripristino della stessa che, per precedente manomissione, abbia perso la sua efficacia di prevenzione. Sul punto questa Corte ha ritenuto che entrambe queste omissioni frustrano in egual misura e senza differenziazione di sorta il funzionamento di macchinari in relazione alla finalità antinfortunistica cui essi sono predisposti, rendendo possibile il verificarsi di un infortunio che sarebbe, per contro, impossibile in caso di normale funzionamento delle apparecchiature antinfortunio realizzate e poste sulla macchina stessa (Sez. 1, n° 28859 del dì 11.06.2009, Rv 244297). Per come evidente dalla pronunzia citata, la nozione di apparecchio antinfortunistico si connota per una finalità propria del dispositivo, che invece le ceste non hanno se non in misura soltanto collaterale, trattandosi di strumenti atti a vincolare alle gru i carichi da collocare sulle navi.
Tuttavia, la questione in sé non assume carattere dirimente nella fattispecie in questione e deve ritenersi superata dalle argomentazioni che seguono.
§ 4. Non vi è dubbio (per come emerge dalla sentenza impugnata, dal ricorso e dalle memorie depositate) che l’infortunio lavorativo de quo è stato causato dal mancato utilizzo di ceste per la sollevazione di tubi inox a mezzo di gru; da ciò è sorta la questione circa la natura – antinfortunistica o meno – delle ceste medesime e circa l’eventuale responsabilità del mancato utilizzo.
Ma sul punto occorre prendere atto che emerge dalla sentenza impugnata che le ceste in questione erano presenti nel cantiere navale e nemmeno il ricorso del P.M. contesta questo dato: ed è questo il fattore che assume un’efficacia dirimente.
Infatti, se le ceste non erano mancanti, l’utilizzo o meno delle stesse non attiene affatto al profilo della omessa collocazione di strumenti, apparecchi o congegni adeguati, ma soltanto al profilo organizzativo del lavoro concreto svolto nel cantiere navale. Si prende atto che nella imputazione si faceva riferimento ad un numero insufficiente di strumenti necessari alle lavorazioni, ma su questo punto il ricorso non precisa alcunché: già in precedenza si è rilevato che il ricorso non specifica quali fossero le pretese manchevolezze né se le stesse riguardassero proprio le ceste; ed allora è del tutto corretta la conclusione della sentenza impugnata, laddove si evidenzia che la problematica si fa di natura eminentemente organizzativa: è valida conclusione del Giudice di merito l’affermare che, se le ceste vi erano nel cantiere in quanto fornite dalla componente datoriale, spettava eventualmente ai soggetti responsabili di unità operative disporne l’utilizzo e che, se le suddette ceste fossero state impegnate al momento della lavorazione che è stata alla base dell’infortunio de quo, allora l’operazione doveva essere differita del tempo sufficiente a reperirne altre.
Del resto, nel reato di cui all’art. 437 cod.pen. il pericolo derivante dalla rimozione od omissione di apparecchi destinati a prevenire infortuni sul lavoro deve avere il carattere della diffusività, nel senso che l’insufficienza deve avere l’attitudine di pregiudicare, anche solo astrattamente, l’integrità fisica delle persone gravitanti attorno l’ambiente di lavoro. Ma il ricorso non contiene argomenti in tal senso.
Per completezza, va detto che l’omissione, la rimozione o il danneggiamento doloso degli impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire infortuni sul lavoro, si inserisce in un contesto imprenditoriale nel quale la mancanza o l’inefficienza di quei presidi antinfortunistici deve avere l’attitudine, almeno astratta, anche se non abbisognevole di concreta verifica, a pregiudicare l’integrità fisica di una collettività di lavoratori, intesa come un numero di lavoratori o, comunque, di persone gravitanti attorno all’ambiente di lavoro: ma lo stabilire quando una collettività lavorativa realizzi in concreto la configurabilità del delitto di rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro costituisce un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivata, come appunto nel caso di specie (Sez. 1, n° 6393 del 02.12.2005, Rv. 233826).
L’invocata responsabilità cui fa riferimento il ricorso non poteva dunque essere del Consiglio di Amministrazione, i cui compiti non si dilatano sino a decidere se, nell’ambito di una singola operazione di carico di tubi, andasse utilizzata una cesta; e parimenti nemmeno poteva gravare siffatto obbligo sui componenti dell’Organismo di Vigilanza.
Per le considerazioni svolte il ricorso va quindi respinto.

P.Q.M

Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2016.

Lascia un commento