Cassazione Penale, Sez. 3, 11 dicembre 2015, n. 48956

Violazioni al d.lgs. 81/08. Responsabilità del committente.


Presidente: AMORESANO SILVIO
Relatore: SCARCELLA ALESSIO
Data Udienza: 01/12/2015

Fatto

1. Con sentenza emessa in data 1/10/2014, depositata in data 7/11/2014, la Corte d’appello di TRENTO confermava la sentenza del tribunale di Trento del 12/06/2013 che aveva condannato B.S.A. alla pena condizionalmente sospesa di 3 mesi di arresto per una serie di violazioni, unificate sotto il vincolo della continuazione, previste dal d. lgs. n. 81 del 2008, con il concorso di attenuanti generiche (fatti contestati come accertati, con le modalità esecutive e spazio – temporali meglio descritte nel capo di imputazione in data 24/09 e 25/11/2010).
2. Ha proposto personalmente ricorso B.S.A., impugnando la sentenza predetta con cui deduce due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
2.1. Deduce, in particolare i vizi di violazione della legge sostanziale penale e vizio di motivazione (art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen.) sotto due distinti profili:
a) i giudici di appello sarebbero incorsi nella violazione di legge per aver erroneamente applicato la interna ed internazionale in tema di individuazione del soggetto qualificabile come datore di lavoro; la società di cui l’imputato è legale rappresentante, si sostiene, è stata ritenuta responsabile quale committente, come desunto dagli accertamenti di PG e dalle produzioni documentali dalle dichiarazioni testimoniali; in realtà, non si sarebbe tenuto conto di alcune circostanze determinanti emerse in sede dibattimentale, in quanto inerenti alla sussistenza di ulteriori rapporti contrattuali in virtù dei quali la qualifica di datore di lavoro non sarebbe dovuta ricadere sulla società del ricorrente, ma sulle società rumene che formalmente e sostanzialmente avevano assunto i lavoratori; vi sarebbe stata, quindi, la mancata applicazione delle norme relative al distacco dei lavoratori, con conseguente esclusione o affievolimento delle responsabilità dell’imputato; solo l’impresa distaccante avrebbe dovuto essere considerata datrice di lavoro, ivi compresi gli obblighi la cui inosservanza è stata erroneamente imputata alla società del ricorrente;
b) quanto al vizio motivazionale, si censura la motivazione in quanto i giudici avrebbero richiamato la giurisprudenza mediante citazioni virgolettate in corsivo, senza indicare da dove quelle massime sarebbero state tratte né quale fosse il soggetto istituzionale che aveva affermato i principi, né gli estremi certi utili alla loro individuazione, con conseguente deficit motivazionale, essendo richiesta una esigenza di trasparenza al giudice nel redigere la motivazione della sentenza.

Diritto

3. Il ricorso è manifestamente infondato.
4. Può procedersi, anzitutto, all’esame del primo motivo, con cui si censura la sentenza per aver asseritamente errato nell’applicare la normativa sull’individuazione del ricorrente quale datore di lavoro.
Trattasi, all’evidenza, di motivo generico, avendo infatti chiaramente e logicamente spiegato i giudici di appello le ragioni per le quali delle violazioni prevenzionistiche accertate solo la società del ricorrente poteva essere ritenuta responsabile; si legge in sentenza, infatti, che come risulta dai documenti in atti e dalla deposizione del teste M., ispettore del lavoro, la società di cui il ricorrente è legale rappresentante risultava essere sia impresa esecutrice di alcuni lavori in economia diretta, sia committente di altre opere fra cui alcune specialistiche; i dati riferiti risultano essere tratti dalle d.i.a. depositate e da quanto accertato dagli ispettori del lavoro; il M. aveva dichiarato che dalle diverse d.i.a. depositate i lavori risultavano tutti in economia diretta e, dunque, tutti eseguiti dalla società del ricorrente, mentre le opere sulla p. ed. 353 non erano coperte da alcun titolo abilitativo; gli operai intenti al lavoro avevano dichiarato di aver eseguito le disposizioni provenienti dalla società dell’imputato e, nel corso delle verifiche, gli ispettori del lavoro avevano accertato che gli stessi operai erano addetti ai lavori edilizi che riguardavano tutta l’area; la società del ricorrente era quindi l’unica impresa che operava nei cantieri, a prescindere dal fatto che gli operai trovati concretamente al lavoro fossero formalmente dipendenti di società rumene; proprio tale ultimo aspetto, ribadito anche nel ricorso per cassazione, del resto non ha trovato conferma in atti (si legge nella sentenza che nessun contratto di appalto tra la società dell’imputato e società rumene è stato reperito né prodotto, né, tantomeno, vi sono elementi per poter affermare che vi fosse stata l’ingerenza di queste fantomatiche società rumene nell’esecuzione dei lavori appaltati; nemmeno i testi a difesa, le cui deposizioni sono state richiamate in sentenza, hanno mai riferito dell’esistenza di tali ditte rumene, anzi emergendo – v. teste T. indotto dalla difesa – che per quanto a sua conoscenza nel cantiere aveva lavorato soltanto la società del ricorrente); concludevano, pertanto, i giudici di appello affermando che dall’Istruttoria svolta la società del ricorrente fosse stata la sola a gestire il cantiere ed eseguire le opere, citando anche giurisprudenza con riferimento al ruolo ed alle responsabilità del committente.
5. A fronte di tale puntuale apparato argomentativo, immune da qualsiasi vizio logico e giuridico, il ricorrente svolge censure che ripropongono negli stessi termini le doglianze svolte nei motivi di appello, senza confrontarsi minimamente con le argomentazioni della sentenza poste a confutazione delle censure dell’allora appellante.
Com’è noto, è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
In ogni caso, trattasi di censure manifestamente infondate, atteso che la tesi del ricorrente muove da un assunto rimasto indimostrato, ossia che fosse applicabile nel caso di specie la disciplina in tema di distacco dei lavoratori, essendo invece emerso dall’istruttoria, come attestato dalla Corte territoriale, che l’unica società operante in loco fosse quella del ricorrente, laddove la presenza di lavoratori distaccati è rimasta solo su un piano ipotetico e del tutto sfornita di prova. Peraltro, la circostanza, confermata anche dagli stessi testi a difesa, per la quale all’Interno del cantiere avesse operato la società del ricorrente – quand’anche si ritenesse esistente un contratto di appalto, peraltro, mai rinvenuto -, determinava comunque la responsabilità di quest’ultimo per gli adempimenti prevenzionistici contestati, essendosi più volte affermato in giurisprudenza che il contratto di appalto non solleva da precise e dirette responsabilità il committente allorché lo stesso assuma una partecipazione attiva nella conduzione e realizzazione dell’opera, in quanto, in tal caso, rimane destinatario degli obblighi assunti dall’appaltatore, compreso quello di controllare direttamente le condizioni di sicurezza del cantiere (Sez. 4, n. 14407 del 07/12/2011 – dep. 16/04/2012, P.G. e P.C. in proc. Bergamelli, Rv. 253295).
6. Del tutto privo di pregio, infine, è il secondo motivo di ricorso, con cui si censura un presunto vizio motivazionale per non aver citato i giudici di appello le massime o, comunque, per non aver indicato le fonti da cui erano stati tratti i principi giurisprudenziali virgolettati in sentenza.
Sul punto, in disparte la considerazione che alcune di dette fonti sono citate alla pag. 9 della sentenza, va comunque chiarito che l’obbligo della motivazione della sentenza sancito dall’art. 546 cod. proc. pen. deve intendersi assolto, come richiesto dalla lett. e), con l’indicazione della “concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie”; in tal senso, dunque, non si richiede l’indicazione dei richiami giurisprudenziali né, tantomeno, v’è necessità per il giudice di indicare, ai fini dell’assolvimento dell’obbligo motivazionale, la fonte (giurisprudenza di legittimità o giurisprudenza di merito) da cui il principio di diritto applicato viene tratto, posto che, del resto, l’eventuale mancata rispondenza del principio agli orientamenti in materia applicabili costituisce un eventuale vizio giuridico della sentenza emendabile dal giudice superiore e censurabile agevolmente dall’interessato in sede di impugnazione del provvedimento giurisdizionale, senza costituire però vizio originario della motivazione, ben potendo infatti i principi enunciati essere del tutto corretti anche se non recanti l’indicazione dell’Autorità giudiziaria che li aveva affermati.
6. Il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile, non essendo ancora peraltro neanche maturato il termine di prescrizione dei reati ascritti (prescrizione originaria maturata, rispettivamente in data 24/09 e 25/11/2015), atteso che deve tenersi conto della sospensione di gg. 126 (dal 23/10/2012 al 15/01/2013 per adesione del difensore all’astensione proclamata dalla categoria professionale di appartenenza; dal 12/02 al 26/03/2013 per rinvio dell’udienza su richiesta del difensore), con conseguente maturazione del termine finale di prescrizione, rispettivamente, in data 28/01 e 30/03/2016.
AH’inammissibilità segue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e, non emergendo ragioni di esonero, al pagamento a favore della Cassa delle ammende, a titolo di sanzione pecuniaria, di somma che si stima equo fissare, in euro 1000,00 (mille/00).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 1° dicembre 2015

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