Cassazione Penale, Sez. 3, 27 luglio 2017, n. 37412

Il tribunale ha correttamente evidenziato, in maniera approfondita, tutti gli elementi posti a base della condanna, giacché il documento per la valutazione dei rischi, presentava nel caso di specie numerose incongruenze e incompletezze (in un’impresa agricola dedita all’allevamento principalmente di ovini, ma anche di suini e bovini risultavano indicati soltanto dipendenti adibiti alla pulizia delle stalle, rispetto ai quali peraltro, non erano analizzati con completezza i relativi rischi; pure essendo analizzati i rischi per le attività di coltivazione, ossia aratura erpicatura, fertilizzazione dei terreni, falciatura e trinciatura, non era indicato alcun lavoratore addetto, sul posto era presente una voliera con pollame senza che l’attività di avicoltura fosse indicata, non erano analizzati i rischi legati all’uso di attrezzature meccaniche dell’attività di allevamento, pur presenti né risultavano indicate le mansioni specifiche dei dipendenti).
Del pari congrua e logica appare la motivazione allorché evidenzia l’omessa indicazione del rischio biologico specifico esistente in una delle lavorazioni (in particolare correttamente evidenziando la sentenza impugnata come mentre il documento riconosceva la presenza di rischi biologici a pagina 47 non analizzava i rischi legati alla possibile presenza di agenti patogeni veicolati dagli animali, nonostante vi fossero lavoratori addetti alla mungitura e allevamento esposti a tali rischi biologici (derivanti dal contatto con gli animali).

La giurisprudenza di questa corte ha, in numerose occasioni, chiarito come non è solo l’assenza ma la incompletezza del DVR a concretizzare l’ipotesi di reato, giacché, ritenendo diversamente, tale redazione assumerebbe un significato solo formale.
Da ciò correttamente deduceva, altresì, il tribunale, la necessità della nomina di un medico competente per la sorveglianza sanitaria, non nominato nonostante vi fosse l’esposizione al rischio biologico derivante dall’allevamento di animali.

Presidente: CAVALLO ALDO
Relatore: CIRIELLO ANTONELLA
Data Udienza: 30/01/2017

Fatto

1. – Il Tribunale di Ferrara con sentenza del 19 maggio 2016 ha condannato M.M. ad euro 1500,00 di ammenda per il reato di cui agli artt. 28 c. 2 lett. a), 55 co.4 del d. lgs. 81 del 2008 perché, nella qualità di legale di una impresa agricola, consentiva, tollerava e comunque non provvedeva a valutare tutti rischi per la sicurezza e salute dei lavoratori impiegati nell’attività; in particolare il documento di valutazione dei rischi non era redatto con criteri di semplicità e comprensibilità tali da garantirne completezza ed idoneità; non erano presi in esame i rischi specifici inerenti l’attività svolta e non venivano individuati i lavoratori addetti alle singole lavorazioni svolte per i quali dovevano essere previste le misure di prevenzione e protezione, nonché ad euro 3500,00 di ammenda per il reato di cui all’articolo 18 comma uno lettera a) dell’articolo 55 c. 5 lett. d) d. lgs. 81 del 2008, perché nella medesima qualità ometteva di nominare il medico competente per l’effettuazione della sorveglianza sanitaria dei suoi lavoratori.
2. – Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’imputato, chiedendone l’annullamento.
2.1. – Con il primo motivo si deduce la violazione di legge in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata allorché ritiene sussistente il reato contestato nonostante il datore di lavoro abbia provveduto a redigere la relazione di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2008.
Sottolinea la difesa che la norma incriminatrice prende in considerazione la mancanza della relazione e non le modalità con le quali la stessa sia stata redatta, e che il giudice non avrebbe tenuto conto che il corposo documento (dalle pagine 1 a 239) conteneva certamente gli elementi necessari richiesti dalla legge e che comunque, trattandosi di piccola impresa, la valutazione poteva essere adottata in maniera semplificata.
Ancora il ricorrente deduce il vizio di motivazione della sentenza ove ritiene che nel documento non siano stati presi in esame i rischi specifici degli addetti alla pulizia della stalla e dell’allevamento di ovini, suini e bovini. Ed infatti, a tale riguardo, viene in evidenza, nella prospettazione difensiva, la valutazione del rischio biologico analizzata specificamente dall’articolo 267 e 268 del d.lgs. n. 81 del 2008 che introducono una metodologia per la stima del rischio relativamente al calcolo delle probabilità per cui un pericolo possa creare un danno. L’impresa dell’imputato ricadrebbe, come sarebbe emerso in dibattimento dalle deposizioni testimoniali della difesa, nel caso di rischio biologico di valore livello uno, cioè improbabile, e, pertanto, non necessiterebbe di sorveglianza sanitaria (la difesa, sul punto, richiama le dichiarazioni del teste G., da cui si evincerebbe che il rischio dell’azienda rientra nel gruppo uno, con poche probabilità di causare malattia in soggetti umani), circostanza che sarebbe stata non valutata dalla sentenza impugnata, che, violando la legge, ritiene sussistere il rischio biologico senza operare alcun riferimento al calcolo probabilistico previsto dal legislatore ma applicando una presunzione semplice e priva di riscontro normativo e scientifico.
Ancora il giudice avrebbe violato l’articolo 271 d.lgs. n. 81 del 2008, quando afferma, che contrariamente a quanto dichiarato dai testi della difesa, la vaccinazione e il controllo veterinario periodico assicurato agli animali non è alternativo alla sorveglianza sanitaria dei lavoratori ma concorre con essa. Tale affermazione sarebbe in contrasto con il disposto dell’articolo 271 che prevede che il datore di lavoro può prescindere dall’applicazione delle disposizioni di cui agli articoli 273,274 commi uno e 275 comma 3 e 179/qualora i risultati della valutazione dimostrano che l’attuazione di tali misure non è necessaria.
Tale sarebbe il caso della impresa dell’imputato dal momento che essa, pur operando da 10 anni, non avrebbe mai sofferto di infortuni legati ad agenti biologici patogeni.
Inutile sarebbe altresì il richiamo alla scheda tecnico informativa pubblicata dall’Inail che non fa riferimento al tipo di allevamento stabulato ossia svolto nelle stalle, dell’imputato, ma fa riferimento ad allevamenti di tipologie diverse di animali transumanti ossia tenuti al pascolo per l’intera giornata o per alcuni periodi.
Si duole ancora il ricorrente che abbia errato il giudice di merito allorché valorizza la deposizione della teste ME. che aveva riferito, in sede di sopralluogo, di avere visto una persona utilizzare il trattore dal momento che il cortile non è luogo di lavoro ma dista parecchio dalla stalla e quando non ha tenuto conto (nel ritenere che non venivano individuati i lavoratori addetti alle lavorazioni di aratura, erpicatura, fertilizzazione dei terreni, falciatura e trinciatura), che tali attività erano completamente esternalizzate ossia affidate a ditte terze. Ciò sarebbe emerso dalla deposizione del teste M., commercialista della ditta.
3.2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione di legge con riferimento all’incriminazione dell’imputato per non aver nominato il medico competente laddove tale attività non sarebbe richiesta e non sussistendo alcuno dei casi previsti dalla legge in quanto il rischio biologico descritto, di fatto, non sussisterebbe. Ancora avrebbe violato la legge il giudice allorquando, a pagina sette della sentenza, pone a fondamento della condanna anche un fatto completamente estraneo al dibattimento, accaduto fuori dall’azienda, in abitazione privata, fuori dell’orario di lavoro, da parte di un soggetto che si è introdotto abusivamente nella proprietà privata in assenza del proprietario che ha eseguito lavori di falegnameria per errore addebitati all’imputato (considerandolo infortunio sul lavoro), sotto tale profilo avrebbe violato la legge il giudice non consentendo alla difesa di interrogare sul punto il teste G..
3.3. Con il terzo motivo di ricorso l’imputato deduce violazione di legge in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata: nel ritenere, ai fini della determinazione della pena, le violazioni commesse di gravità non irrisoria; nel considerare, altresì, un precedente per altra contravvenzione in materia di armi, ostativo alla concessione delle attenuanti generiche; nel ritenere insussistente la possibilità di applicare il minimo edittale pur applicando la sola pena pecuniaria; nell’individuare la contravvenzione come colposa senza specificarne il motivo, sebbene dal dibattimento fosse emerso che le condotte tenute nella redazione del documento e nella mancata nomina del medico erano coscienti e volontarie così da precludere, per tal via, la applicazione della continuazione.
3.4. Infine, con il quarto motivo il ricorrente si duole della omessa concessione della sospensione condizionale sulla base di una motivazione adottata in violazione di legge, giacché la prognosi negativa sarebbe stata formulata sulla base di un precedente risalente ed estinto per legge (ex 445 cod. proc. pen.). Il giudice avrebbe errato non solo nel considerare tale precedente ai fini della determinazione della pena ma anche nel valorizzarlo ai fini della prognosi dell’astensione in futuro dalla commissione di altri reati ai sensi dell’articolo 163 del codice penale.

Diritto

3. Il ricorso è inammissibile.
3.1. Il ricorrente avanza censure che, apparentemente volte a contestare l’apparato motivazionale della sentenza, sollecitano in realtà, una nuova valutazione di merito preclusa in sede di legittimità ed evidenzia violazioni di legge non riscontrabili nella motivazione impugnata.
3.2. Inammissibili sono i primi due motivi di ricorso, con i quali, come emerge dalla semplice lettura degli stessi, il ricorrente contesta la valutazione dei fatti operata dal Tribunale che ha, invece, sul punto, argomentato con motivazione esauriente e non manifestamente illogica sulla sussistenza dei reati contestati, applicando i principi di diritto sviluppati sul punto da questa Corte.
In particolare il tribunale ha correttamente evidenziato, in maniera approfondita, tutti gli elementi posti a base della condanna, giacché il documento per la valutazione dei rischi, presentava nel caso di specie numerose incongruenze e incompletezze (in un impresa agricola dedita all’allevamento principalmente di ovini, ma anche di suini e bovini risultavano indicati soltanto dipendenti adibiti alla pulizia delle stalle, rispetto ai quali peraltro, non erano analizzati con completezza i relativi rischi; pure essendo analizzati i rischi per le attività di coltivazione, ossia aratura erpicatura, fertilizzazione dei terreni, falciatura e trinciatura, non era indicato alcun lavoratore addetto, sul posto era presente una voliera con pollame senza che l’attività di avicoltura fosse indicata, non erano analizzati i rischi legati all’uso di attrezzature meccaniche dell’attività di allevamento, pur presenti né risultavano indicate le mansioni specifiche dei dipendenti).
Del pari congrua e logica appare la motivazione allorché evidenzia con ricadute anche riguardo al reato di cui al capo b, l’omessa indicazione del rischio biologico specifico esistente in una delle lavorazioni (in particolare correttamente evidenziando la sentenza impugnata come mentre il documento riconosceva la presenza di rischi biologici a pagina 47 non analizzava i rischi legati alla possibile presenza di agenti patogeni veicolati dagli animali, nonostante vi fossero lavoratori addetti alla mungitura e allevamento esposti a tali rischi biologici (derivanti dal contatto con gli animali).
Da ciò correttamente deduceva, altresì, il tribunale, la necessità della nomina di un medico competente per la sorveglianza sanitaria, non nominato nonostante vi fosse l’esposizione al rischio biologico derivante dall’allevamento di animali.
Tale motivazione appare esente da vizi logici e conforme alla giurisprudenza di questa corte che ha, in numerose occasioni, chiarito come non è solo l’assenza ma la incompletezza del documento in questione a concretizzare l’ipotesi di reato, giacché, ritenendo diversamente, tale redazione assumerebbe un significato solo formale.
Ed invece, lo scopo del documento di valutazione dei rischi, la cui redazione si applica a tutte le lavorazioni (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 33567 del 04/07/2012) è quello di costituire un elemento concreto per la protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori in quanto in esso il datore di lavoro, dopo aver valutato i rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro, specificando pure i criteri adottati per la valutazione stessa, procede ad individuare le misure di prevenzione e di protezione e dei dispositivi di protezione individuale, conseguenti alla valutazione suddetta nonché a formulare il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento, nel tempo,dei livelli di sicurezza (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 23968 del 2011)
Alla redazione di tale documento, imposta da norme che si pongono in continuità con le precedenti disposizioni di cui alD.Lgs. n. 626 del 1994 (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 17119 del 20/01/2015) peraltro, non sfuggono neppure le aziende che occupano fino a dieci addetti, in quanto le modalità semplificate di adempimento degli obblighi in materia di valutazione dei rischi, non esonerano il datore di lavoro dall’obbligo di predisporre e tenere il predetto documento (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 23968 del 2011 cit. nonché Sez. 3, Sentenza n. 4063 del 04/10/2007).
La sentenza impugnata, nel ritenere il documento incompleto, in quanto non contenente la valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori emergenti dagli accertamenti svolti, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari (in genere le attività a contatto con gli animali, la pulizia delle stalle, le attività svolte con uso di mezzi meccanici e quelle comportanti rischi biologici come la mungitura, etc…) e, in definitiva carente nelle indicazioni relative alla scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze e dei preparati impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, è congrua e logica.
Essa non evidenzia illogicità alcuna né viola il precetto normativo, nell’operazione di sussunzione del caso concreto nell’astratto dictum, per come emerge dal diritto vivente, avendo, sulla base dei documenti e delle prove testimoniali, ritenuto il tribunale che il documento per la valutazione dei rischi redatto dal titolare della ditta fosse a tal punto incompleto e confuso da non consentire ai lavoratori di comprenderne il contenuto e quindi inidoneo a svolgere la sua funzione di spiegare i rischi specifici del lavoro e gli strumenti disposti per evitare che si possono realizzare.
Appare chiaro, invece, che i motivi di ricorso, fondati su una diversa valutazione delle prove testimoniali e documentali, sono inammissibili.
Come è noto, invero, il controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione della espressa previsione normativa dell’art. 606, primo comma, lettera e), cod. proc. pen., al solo accertamento sulla congruità e coerenza dell’apparato argomentativo, con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo, e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o dell’autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti (ex plurimis, tra le pronunce successive alle modifiche apportate all’art. 606 cod. proc. pen. della legge 20 febbraio 2006, n. 46: sez. 6, 29 marzo 2006, n. 10951; sez. 6, 20 aprile 2006, n. 14054; sez. 3, 19 marzo 2009, n. 12110; sez. 1, 24 novembre 2010, n. 45578; sez. 3, 9 febbraio 2011, n. 8096; sez. 3, 13 febbraio 2013, n. 28116).
Anche con riferimento al caso in esame, dunque, il sindacato di questa Corte non può avere ad oggetto la ricostruzione dei fatti in quanto tale, ma solo evidenti errori motivazionali, contraddizioni, lacune che, come visto non sono riscontrabili.
3.4. Del pari inammissibili sono il terzo e al quarto motivo che, essendo relativi alla pena irrogata, possono essere trattati congiuntamente.
Ed infatti il ricorrente, nel muovere doglianze circa la pena irrogata, esprimendo un dissenso in ordine alla valutazione formulata dal giudice ai sensi dell’art. 133 c.p. avendo questi errato nel ritenere la violazione non irrisoria, nel non concedere le attenuanti generiche, nel considerare un precedente per armi estinto ai sensi dell’art. 445 c.p.p., non considera che la determinazione e graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013 – 04/02/2014, Ferrano, Rv. 259142; sez. 2, n.45312 del 03/11/2015; sez. 4 n.44815 del 23/10/2015) ciò che – nel caso di specie – non ricorre. Invero, una specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, specie in relazione alle diminuzioni o aumenti per circostanze, è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. le espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009, Denaro, Rv. 245596).
Nel caso di specie, in particolare, la pena pecuniaria irrogata per le due violazioni, appare per un verso, assai vicina alla media edittale e, in ogni caso, risulta mite la stessa scelta della pena pecuniaria invece che di quella detentiva, certamente più afflittiva.
Quanto alle circostanze attenuanti generiche, neppure oggetto di richiesta in sede di conclusioni, come emerge dalla sentenza impugnata e dagli atti, appare opportuno premettere che, soprattutto dopo la specifica modifica dell’art. 62-bis c.p. operata con il D.L. 23 maggio 2008, n. 2002 convertito con modifiche dalla L. 24 luglio 2008, n. 125, è assolutamente sufficiente che il giudice si limiti a dar conto, come nel caso in esame, di avere valutato e applicato i criteri di cui all’art.133 c.p.. In tema di attenuanti generiche, infatti, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo l’affermata insussistenza. Al contrario, secondo una giurisprudenza consolidata di questa Corte Suprema, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio (così, ex plurimis, sez. 1, n. 11361 del 19/10/1992, Gennuso, rv. 192381; sez. 1 n. 12496 del 02/09/1999, Guglielmi ed altri, rv. 214570; sez. 6, n. 13048 del 20//06/2000, Occhipinti ed altri, rv. 217882; sez. 1, n. 29679 del 13/06/2011, Chiofalo ed altri, rv. 219891). In altri termini, dunque, va ribadito che l’obbligo di analitica motivazione in materia di circostanze attenuanti generiche qualifica la decisione circa la sussistenza delle condizioni per concederle e non anche la decisione opposta (cfr. sez.2, n. 38383 del 10/07/2009, Squillace ed altro, rv. 245241, e sez.4, n. 43424 del 29/09/2015). Nel caso in questione, invece, il giudice di merito ha pure motivato il diniego del riconoscimento delle attenuanti in parola argomentando circa “la concreta gravità delle violazioni, non irrisoria in considerazione della ampiezza della azienda e del numero delle lavorazioni condotte oltre che nell’impossibilità di stabilire quanti e quali lavoratori fossero destinati alle singole mansioni”
Né risulta ammissibile la doglianza, ancora una volta fondata su una diversa valutazione delle emergenze probatorie, circa la gravità del reato o circa l’elemento psicologico, ai fini della continuazione. Al riguardo, invero, non è rilevante la qualificazione in termini di dolo (peraltro genericamente indicata dal ricorrente, a valle della considerazione che le condotte sarebbero state coscienti e volontarie, laddove anche una condotta volontaria, ma frutto di erronea interpretazione normativa, fonderebbe la colpa), quanto piuttosto la circostanza che le condotte siano frutto di un medesimo disegno criminoso, nel caso di specie neppure allegata dal ricorrente.
3.5. Infine inammissibile è anche il quarto motivo con cui il ricorrente si duole della omessa concessione della sospensione condizionale, sulla base di una prognosi negativa fondata anche su un precedente risalente ed estinto per legge (ex 445 cod. proc. pen.) . Anche la valutazione dei presupposti per la concedibilità o meno della sospensione condizionale della pena, invero, rientra nei poteri discrezionali del giudice il cui esercizio, se effettuato nel rispetto dei parametri valutativi di cui agli articoli 163 e 164 c.p., è censurabile in cassazione solo quando sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico.
L’istituto della sospensione condizionale della pena, infatti, per assunto pacifico, è caratterizzato da un massimo ambito di autonomia e facoltatività (“il giudice può ordinare che l’esecuzione della pena rimanga sospesa…”: articolo 163, comma 1, c.p.), avulso da meccanicistiche predefinizioni o da automatismi applicativi (Sezione VI, 28 febbraio 2008, Maugliani).
In proposito, come è noto, ai sensi dell’articolo 164, comma 1, c.p., la sospensione condizionale della pena è ammessa solo se, avuto riguardo alle circostanze indicate nell’articolo 133 c.p., il giudice presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati. Tuttavia, ai fini della formulazione del giudizio prognostico richiesto dalla norma, il giudice non è obbligato a prendere in esame tutti gli elementi indicati nel citato articolo 133, ma può limitarsi a far menzione di quelli ritenuti prevalenti, sia per negare che per concedere il beneficio (Sezione VI, 8 aprile 2008, Lamouchi).
Nella specie, il giudice si è posto in questa prospettiva, spiegando le ragioni ostative alla concedibilità del beneficio, ricollegandole alla valutazione del precedente, sia pure estinto, non quale fatto legalmente impeditivo della sospensione, ma quale mero fatto storico, incidente sul piano generale, con apprezzamento non censurabile, nella valutazione della personalità del prevenuto anche in relazione alla condotta concreta, caratterizzata, in questo tipo di reato, dalla violazione delle prescrizioni.
Trattasi di decisione corretta, congruamente motivata e per l’effetto incensurabile in questa sede. .
Ne discende la inammissibilità del ricorso. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 2.000,00.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2017

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