Repertorio Salute

Cassazione Penale, Sez. 3, udienza 04 febbraio 2016 (dep. maggio 2016), n. 20743

«1. Prima di procedere alla esecuzione di lavori su lucernari, tetti, coperture e simili, deve essere accertato che questi abbiano resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai e dei materiali di impiego. 2. Nel caso in cui sia dubbia tale resistenza, devono essere adottati i necessari apprestamenti atti a garantire la incolumità delle persone addette, disponendo, a seconda dei casi, tavole sopra le orditure, sottopalchi e facendo uso di idonei dispositivi di protezione individuale anticaduta». Si richiede, dunque, che il datore di lavoro accerti la resistenza della superficie su cui si dovrà lavorare e, in caso di dubbio, adotti le cautele atte a garantire l’incolumità dei lavoratori. Cosicché vi sono un’unica condotta e un unico bene-interesse tutelato dalla disposizione nel suo complesso, che risulta essere quello dell’incolumità dei lavoratori, in relazione alla quale l’adozione di apposite cautele può essere evitata dal datore di lavoro solo nel caso in cui non vi siano dubbi sulla sufficiente resistenza della superficie di lavoro. La violazione della disposizione in questione è, del resto, punita dal successivo art. 159, comma 2, lettera a), che la prende in considerazione unitariamente, senza distinguere fra comma 1 e comma 2, così confermando che la stessa non disciplina due diverse ipotesi di reato.


Presidente: AMORESANO SILVIO
Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA
Data Udienza: 04/02/2016

Fatto

1. – Con sentenza del 26 settembre 2014, la Corte d’appello di Brescia ha parzialmente confermato la sentenza del Tribunale di Mantova – sezione distaccata di Castiglione delle Stiviere, con la quale l’imputato era stato condannato, anche al risarcimento del danno alla parte civile, da determinarsi in separato giudizio, con liquidazione di provvisionale, in relazione ai reati di cui: A) all’art. 148 del d.lgs. n. 81 del 2008, perché, nella sua qualità di datore di lavoro, prima di procedere all’esecuzione di lavori su lucernari, tetti e coperture, non aveva accertato che questi avessero resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai e dei materiali; B) all’art. 115 del d.lgs. n. 81 del 2008, perché, nella stessa qualità, in mancanza di misure di protezione collettiva, non aveva assicurato che i lavoratori utilizzassero idonei sistemi di protezione, composti da elementi quali assorbitori di energia, connettori etc.; C) all’art. 17, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 81 del 2008, perché, nella stessa qualità, aveva omesso di effettuare la valutazione dei rischi del cantiere, predisponendo un piano operativo di sicurezza non conforme nei contenuti a quanto riportato nell’allegato XV allo stesso decreto legislativo e in cui non risultavano individuate misure atte a garantire e programmare la sicurezza del cantiere (il 30 giugno 2009). La Corte d’appello ha concesso all’imputato i benefici di legge e ha revocato la provvisionale, confermando nel resto la sentenza di primo grado.
2. – Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si rileva l’erronea applicazione dell’art. 148 del d.lgs. n. 81 del 2008. Non si sarebbe considerato che tale norma non prescrive l’effettuazione di una prova statica di resistenza della struttura, essendo sufficiente un normale esame visivo della stessa, che nel caso in esame era stato compiuto, come dichiarato dallo stesso imputato. La Corte d’appello non avrebbe rilevato, poi, la contraddizione della sentenza di primo grado, nella quale si affermava, da un lato, che il controllo non era stato fatto e, dall’altro, che vi era stato un sommario esame fatto da terra. Sarebbe stata inoltre richiesta dalla Corte d’appello una verifica delle modalità di garanzia dell’incolumità dei lavoratori; verifica non prevista nella disposizione incriminatrice.
2.2. – Si deduce, in secondo luogo, l’erronea applicazione dell’art. 521, comma 2, cod. proc. pen., sul rilievo che l’imputazione originaria avrebbe riguardato il comma 1 dell’art. 148 del d.lgs. n. 81 del 2008, mentre la Corte d’appello aveva ricondotto il fatto al comma 2 dello stesso articolo, il quale prevede che, nel caso in cui sia dubbia la resistenza di lucernari, tetti, coperture e simili, debbano essere adottati i necessari apprestamenti per garantire l’incolumità delle persone addette. Vi sarebbe, dunque, un indebito mutamento della contestazione, in violazione del diritto di difesa.
2.3. – In terzo luogo, si lamentano la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione quanto all’accertamento della resistenza della copertura e alla conseguente necessità di adottare apprestamenti per garantire l’incolumità degli addetti.
2.4. – Una quarta doglianza è riferita all’erronea applicazione dell’art. 115 del d.lgs. n. 81 del 2008. Secondo l’interpretazione data dalla difesa, tale disposizione impone al datore di lavoro di procurare gli strumenti di protezione e la dovuta formazione, spettando ai lavoratori di farne l’uso prescritto. Non potrebbe perciò pretendersi che il datore di lavoro sia costantemente presente sul cantiere per curare l’effettivo uso dei dispositivi di protezione da parte di ogni operaio.
2.5. – In quinto luogo, si deducono vizi della motivazione in relazione al fatto che l’imputato si sarebbe disinteressato dell’effettivo impiego dei sistemi di protezione, anche se gli stessi erano stati posti a disposizione dei lavoratori.
2.6. – Con un sesto motivo di doglianza, si prospettano vizi della motivazione in relazione alla responsabilità penale per il reato di cui al capo C dell’imputazione. Si osserva, in particolare, che l’art. 28, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 81 del 2008 prescrive che il piano per la sicurezza contenga una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa, nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa; la successiva lettera f) richiede, invece, che il documento contenga l’individuazione delle mansioni che eventualmente espongono i lavoratori a rischi specifici che richiedono una riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione e addestramento. Per la difesa, trattandosi di due diverse violazioni contravvenzionali, la Corte d’appello avrebbe dovuto individuare quale delle due fosse stata effettivamente commessa dall’imputato. La Corte distrettuale sarebbe, invece, limitata ad affermare l’evidenza della sussistenza della violazione delle disposizioni dell’art. 28, comma 2, lettere b) e d), con conseguente applicazione dell’art. 55, comma 40, per la disciplina sanzionatoria.
2.7. – In settimo luogo, si censura la motivazione circa il diniego del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, sul rilievo che non si sarebbe tenuto conto dell’incensuratezza dell’imputato, nonché della verosimiglianza delle dichiarazioni da lui rese in sede di esame.

Diritto
3. – Il ricorso è inammissibile.
3.1. – I primi tre motivi di doglianza – che possono essere trattati unitariamente, essendo riferiti alla responsabilità per il reato di cui al capo A dell’imputazione – sono inammissibili.
La difesa fonda le sue censure sull’assunto che i commi 1 e 2 dell’art. 148 del d.lgs. n. 81 del 2008 disciplinino due distinte ipotesi di reato. Si tratta di un assunto manifestamente erroneo. Il testo della disposizione vigente all’epoca dei fatti – che non si distingue in modo essenziale, per quanto qui rileva, da quello attualmente vigente, modificato dall’art. 85, comma 1, del d.lgs. n. 106 del 2009, entrato in vigore il 20 agosto 2009 – così dispone: «1. Prima di procedere alla esecuzione di lavori su lucernari, tetti, coperture e simili, deve essere accertato che questi abbiano resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai e dei materiali di impiego. 2. Nel caso in cui sia dubbia tale resistenza, devono essere adottati i necessari apprestamenti atti a garantire la incolumità delle persone addette, disponendo, a seconda dei casi, tavole sopra le orditure, sottopalchi e facendo uso di idonei dispositivi di protezione individuale anticaduta». Si richiede, dunque, che il datore di lavoro accerti la resistenza della superficie su cui si dovrà lavorare e, in caso di dubbio, adotti le cautele atte a garantire l’incolumità dei lavoratori. Cosicché vi sono un’unica condotta e un unico bene-interesse tutelato dalla disposizione nel suo complesso, che risulta essere quello dell’incolumità dei lavoratori, in relazione alla quale l’adozione di apposite cautele può essere evitata dal datore di lavoro solo nel caso in cui non vi siano dubbi sulla sufficiente resistenza della superficie di lavoro. La violazione della disposizione in questione è, del resto, punita dal successivo art. 159, comma 2, lettera a), che la prende in considerazione unitariamente, senza distinguere fra comma 1 e comma 2, così confermando che la stessa non disciplina due diverse ipotesi di reato.
Tale essendo la portata del precetto penale, deve rilevarsi che nessuna contraddizione emerge sul punto nelle sentenze di primo e secondo grado, contrariamente a quanto dedotto dalla difesa con il primo e il terzo motivo di ricorso. I giudici di merito hanno, infatti, accertato che l’imputato non aveva adeguatamente provveduto a verificare la resistenza della superficie di lavoro, perché si era limitato ad un superficiale sguardo del tetto da terra, senza salirvi sopra e senza accertare che vi fossero punti dove ancorare le cinture di sicurezza. Con valutazione di merito insindacabile in questa sede, si è inoltre evidenziato che l’imputato non aveva informato i dipendenti del fatto che la superficie di lavoro non era calpestabile (pag. 11 della sentenza di secondo grado). L’imputato ha, dunque, certamente commesso la violazione indicata nell’imputazione, consistente nel non avere adeguatamente accertato che il tetto avesse resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai e dei materiali di impiego. Né egli aveva approntato adeguati strumenti di cautela, non essendovi sul tetto punti ai quali ancorare le cinture di sicurezza degli operai.
E non sussiste alcun mutamento della contestazione – contrariamente a quanto dedotto con il secondo motivo di ricorso – perché l’imputato è stato condannato per la condotta di cui sopra, che corrisponde a quella descritta nell’imputazione.
3.2. – Del tutto generici sono il quarto e il quinto motivo di ricorso, sostanzialmente riferiti all’erronea applicazione dell’art. 115 deld.lgs. n. 81 del 2008 (capo B dell’imputazione), sul rilievo che tale disposizione imporrebbe al datore di lavoro di procurare gli strumenti di protezione e la dovuta formazione, ma non anche di curare l’effettivo uso di tali strumenti da parte di ogni operaio.
Anche a prescindere dalla correttezza dell’interpretazione della disposizione fornita dalla difesa, è sufficiente qui osservare che – come correttamente evidenziato dalla Corte d’appello – l’imputato non aveva solo omesso di verificare l’effettivo uso degli strumenti di protezione da parte degli operai, ma aveva omesso anche di fornire tali strumenti, essendosi limitato a dotare gli operai di cinture di sicurezza, del tutto inutili per il lavoro che questi dovevano svolgere, in mancanza di punti vita ai quali agganciare le cinture sul tetto. E tale affermazione non è stata contestata con il ricorso per cassazione neanche in via di mera prospettazione.
3.3. – Con il sesto motivo di ricorso, si deducono – come visto – vizi della motivazione in relazione alla responsabilità penale per il reato di cui al capo C dell’imputazione. La difesa premette che sono astrattamente configurabili due diverse violazioni contravvenzionali: quella di cui all’art. 28, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 81 del 2008, che prescrive che il piano per la sicurezza contenga una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa, nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa; quella della successiva lettera f), che richiede, invece, che il documento contenga l’individuazione delle mansioni che eventualmente espongono i lavoratori a rischi specifici che richiedono una riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione e addestramento. La difesa lamenta, in sostanza, che la Corte d’appello non avrebbe dovuto individuare quale delle due violazioni fosse stata effettivamente commessa dall’imputato.
Si tratta di un rilievo manifestamente infondato.
Come bene evidenziato dalla Corte d’appello, all’imputato è contestato di avere redatto un piano operativo di sicurezza del tutto generico, perché privo di riferimenti ai rischi tipici della lavorazione che si stava effettivamente realizzando; piano di sicurezza mai consegnato ai dipendenti. La condotta contestata e, dunque, riconducibile alla disciplina sanzionatoria dell’art. 55, comma 3, deld.lgs. n. 81 del 2008, che sanziona le violazioni previste dall’art. 17, comma 1, lettera a), in relazione alle disposizioni dell’art. 28, comma 2, lettere b) e d), dello stesso decreto legislativo, le quali richiedono, tra l’altro, che si provveda all’indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate e dei dispositivi di protezione individuali adottati, a seguito della valutazione di cui all’art. 17, comma 1, lettera a), nonché all’individuazione delle procedure per l’attuazione delle misure da realizzare; adempimenti certamente omessi nel caso di specie. E nel caso di specie non sussiste alcuna incertezza sull’imputazione, perché essa si riferisce espressamente alla violazione dell’art. 17, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 81 del 2008, sotto il profilo dell’omessa valutazione dei rischi del cantiere, per la predisposizione di un piano operativo di sicurezza non conforme nei contenuti a quanto riportato nell’allegato XV allo stesso decreto legislativo e in cui non risultavano individuate misure atte a garantire e programmare la sicurezza del cantiere stesso. Trova, dunque, applicazione il principio – costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte – secondo cui non sussiste alcuna incertezza sull’imputazione, quando questa contenga con adeguata specificità i tratti essenziali del fatto di reato contestato in modo da consentire un completo contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa; la contestazione, inoltre, non va riferita soltanto al capo di imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono l’imputato in condizione di conoscere in modo ampio l’addebito (ex plurimis, sez. 2, 11 dicembre 2015, n. 2741, rv. 265825; sez. 2, 21 luglio 2015, n. 36438, rv. 264772; sez. 5, 5 novembre 2014, n. 51248, rv. 261741). In termini più generali, il principio di correlazione tra contestazione e sentenza è funzionale alla salvaguardia del diritto di difesa dell’imputato; con la conseguenza che la violazione di tale principio è ravvisabile quando il fatto ritenuto nella decisione si trova, rispetto al fatto contestato, in rapporto di eterogeneità, ovvero quando il capo d’imputazione non contiene l’indicazione degli elementi costitutivi del reato ritenuto in sentenza, né consente di ricavarli in via induttiva (ex plurimis, sez. 6, 18 febbraio 2015, n. 10140, rv. 262802). E, nel caso qui in esame, il ricorrente non ha neanche prospettato la violazione del diritto di difesa, essendo stato egli al corrente, fin dall’inizio, della natura dell’Imputazione e degli elementi di indagine a suo carico.
3.4. – Del tutto generico è il settimo motivo di doglianza, con cui si censura la motivazione della sentenza impugnata circa il diniego del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, sul rilievo che non si sarebbe tenuto conto dell’incensuratezza dell’imputato, nonché della verosimiglianza delle dichiarazioni da lui rese in sede di esame.
Deve infatti rivelarsi che la difesa non prende in considerazione, neanche a fini di critica, le conformi valutazioni effettuate dai giudici di primo e secondo grado, secondo cui l’incensuratezza dell’imputato e il suo essersi sottoposto all’esame dibattimentale sono elementi del tutto neutri, mentre risultano decisivi in senso negativo il numero delle violazioni commesse e le lesioni da queste scaturite. A ciò deve aggiungersi che la dedotta “verosimiglianza” delle dichiarazioni difensive dell’imputato ha trovato ampia smentita da parte dei giudici di primo e secondo grado.
4. – Quanto alla prescrizione dei reati (commessi il 30 giugno 2009) – in relazione alla quale, peraltro, la difesa non ha proposto doglianze – è sufficiente qui rilevare che la stessa non era maturata prima della pronuncia della sentenza impugnata. Trattandosi di contravvenzioni, trova infatti applicazione il termine complessivo di cinque anni, ai sensi degli art. 157, primo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., giungendosi così alla data del 30 giugno 2014, cui vanno aggiunti 6 mesi e 29 giorni di sospensione (tra l’udienza del 18 settembre 2012 e quella del 16 aprile 2013). A fronte di un ricorso inammissibile, quale quello in esame, trova dunque applicazione il principio, costantemente enunciato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen., ivi compresa la prescrizione, è preclusa dall’Inammissibilità del ricorso per cassazione, anche dovuta alla genericità o alla manifesta infondatezza dei motivi, che non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione (ex multis, sez. 3, 8 ottobre 2009, n. 42839; sez. 1, 4 giugno 2008, n. 24688; sez. un., 22 marzo 2005, n. 4).
Il ricorso, in conclusione, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2016.

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