Omissione delle attrezzature per lo svolgimento in sicurezza dei lavori in altezza. Infortunio di un muratore.
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: PEZZELLA VINCENZO
Data Udienza: 16/12/2015
Fatto
1. La Corte di Appello di Palermo, pronunciando nei confronti dell’odierno ricorrente, R.S.G., con sentenza del 17.6.2015, confermava la sentenza del Tribunale di Palermo, emessa in data 13.1.2014, con condanna al pagamento delle ulteriori spese processuali.
Il Tribunale in composizione monocratica di Palermo, giudicava in primo grado R.S.G. per i seguenti reati:
a) reato di cui all’art. 590 cod. pen. comma 3°, per avere in qualità di datore di lavoro, per colpa consistita in negligenza, imprudenza e nell’inosservanza della normativa in materia di infortuni sul lavoro, ed in particolare degli artt. 111 e 113 del D.lgs.. 81/2008(indicati al capo successivo) non predisponeva idonee attrezzature per lo svolgimento in sicurezza di lavori ad altezza superiore a m. 2.0, presso il cantiere per costruzione di una villetta in Altofonte, viale Europa, allestendo una scala a pioli, non adeguatamente ancorata, poneva in essere un antecedente causale necessario, idoneo a cagionare a C.G., impiegato come muratore per il compimento dei predetti lavori edilizi, lesioni gravi consistite nella frattura del femore sinistro (compiutamente indicata nei referti medici in atti), determinata dalla caduta da una altezza di circa 3,6 metri dal descritto ponteggio.
b) reato di cui agli artt. 159 c. 2° in relazione all’art. 111Dlgs 81/08 perché, nelle circostanze e nella qualità indicata al capo a) non predisponeva le attrezzature di lavoro più idonee per l’esecuzione di lavori edilizi all’altezza di circa mt. 3.00,
c) reato di cui agli artt. 159 co. 2° in relazione all’alt. 113 Dlgs n. 81/2008 perché, nelle circostanze e nella qualità indicata al capo che precede, per l’esecuzione di lavori edilizi all’altezza di circa mt. 3,00, predisponeva una scala a pioli non adeguatamente assicurata o trattenuta per evitare pericolo di sbandamento. Fatti commessi in Altofonte il 26.6.2008.
L’imputato veniva dichiarato responsabile del reato di cui al capo a) e condannato alla pena di mesi 3 e giorni 20 di reclusione ed € 700,00 di multa, oltre al pagamento delle spese del giudizio, con pena sospesa nei termini e alle condizioni di legge.
Il Tribunale dichiarava non doversi procedere per i reati di cui ai capi b) e c) perché estinti per sopravvenuta prescrizione.
2. Avverso il provvedimento della Corte d’Appello ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, R.S.G., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:
a. Mancanza e contraddittorietà della motivazione quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti di processo e specificamente indicati nei motivi di gravame, ex art. 606 lett. e) cod. proc. pen. per travisamento delle risultanze probatorie.
Il ricorrente deduce l’esistenza di una contraddittorietà processuale, ossia un contrasto tra gli atti processuali e la motivazione della sentenza impugnata.
La sentenza impugnata non avrebbe rispettato le risultanze processuali, distorcendo i risultati probatori acquisiti, con evidente travisamento delle risultanze processuali.
La corte di appello pur dando atto che il tribunale avesse dato conto dell’incertezza della prova all’esito della prova testimoniale e dell’escussione della persona offesa, riterrebbe provata, al di là di ogni ragionevole dubbio, la responsabilità penale dell’imputato.
Errata, sarebbe, la decisione laddove si afferma che il comportamento negligente della p.o., non escluderebbe la responsabilità del datore di lavoro, stante l’insufficienza delle cautele che, se adottate, avrebbero neutralizzato il rischio derivante dal comportamento imprudente.
La Corte territoriale avrebbe omesso di valutare le dichiarazioni rese dalla persona offesa, dalle quali si evincerebbe, a seguito di esplicita richiesta del giudice, l’esistenza del ponteggio e di tutte le cautele necessarie per la sicurezza dei lavoratori.
Il ricorrente riporta le dichiarazioni della persona offesa, dalle quali si evincerebbe che la causa dell’incidente sarebbe stata determinata da un accidente costituito dall’oscillazione di una lastra di marmo, che avrebbe colpito il lavoratore facendogli perdere l’equilibrio.
L’esistenza del ponteggio, sarebbe, inoltre, dimostrata dalle immagini fotografiche.
La stessa Corte distrettuale prima affermerebbe l’esistenza del ponteggio per poi negarla.
Contraddittoria sarebbe anche la motivazione della sentenza sulla validità della delega di funzioni. Riconosce, infatti, la carica di direttore dei lavori e responsabile della sicurezza dell’ing. P., ma ritiene di affermare la penale responsabilità dell’imputato.
Il ricorrente ribadisce che la forma scritta richiesta ai fini della validità della delega, sarebbe necessaria ad probationem e non ad substantiam.
b. Mancanza della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato, ex art. 606 lett. e) cod. proc. pen. in relazione alla concessione delle attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis cod. pen.
La sentenza avrebbe omesso di motivare sul diniego delle attenuanti generiche, pur in presenza di espressa richiesta del ricorrente, limitandosi a ritenere equa la pena inflitta.
Chiede, pertanto, la cassazione della sentenza impugnata con le consequenziali statuizioni.
Diritto
1. Fondato è il solo secondo motivo di ricorso, derivandone che la sentenza impugnata va annullata limitatamente al punto concernente la concessione delle circostanze attenuanti generiche, con rinvio su tale punto alla Corte d’Appello di Palermo, dovendosi rigettare il ricorso nel resto.
2. Infondato è il primo motivo di ricorso, afferente la responsabilità dell’imputato, con il quale il ricorrente deduce l’esistenza di una contraddittorietà processuale, ossia un contrasto tra gli atti processuali e la motivazione della sentenza impugnata.
La sentenza impugnata non avrebbe rispettato le risultanze processuali, distorcendo i risultati probatori acquisiti, con evidente travisamento delle risultanze processuali.
Orbene, appare di tutta evidenza che si introducono in questo giudizio elementi di fatto, tesi ad una rivalutazione del compendio probatorio, che non possono trovare ingresso in questa sede.
Sul punto va ricordato che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. vedasi questa sez. 3, n. 12110 del 19.3.2009 n. 12110 e n. 23528 del 6.6.2006).
Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l’illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (sez. 3, n. 35397 del 20.6.2007; Sez. Unite n. 24 del 24.11.1999, Spina, rv. 214794).
Più di recente è stato ribadito come ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 c. p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene né alla ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento, (sez. 2, n. 21644 del 13.2.2013, Badagliacca e altri, rv. 255542).
Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto.
Non c’è, in altri termini, come richiesto nel presente ricorso, la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. E ciò anche alla luce del vigente testo dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. come modificato dalla l. 20.2.2006 n. 46.
Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.
Il ricorrente non può, come nel caso che ci occupa limitarsi a fornire una versione alternativa del fatto, senza indicare specificamente quale sia il punto della motivazione che appare viziato dalla supposta manifesta illogicità e, in concreto, da cosa tale illogicità vada desunta.
Com’è stato rilevato nella citata sentenza 21644/13 di questa Corte la sentenza deve essere logica “rispetto a sé stessa”, cioè rispetto agli atti processuali citati. In tal senso la novellata previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da “altri atti del processo”, purché specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto.
Avere introdotto la possibilità di valutare i vizi della motivazione anche attraverso gli “atti del processo” costituisce invero il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto “travisamento della prova” che è quel vizio in forza del quale il giudice di legittimità, lungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti per verificare se il relativo contenuto è stato o meno trasfuso e valutato, senza travisamenti, all’interno della decisione.
In altri termini, vi sarà stato “travisamento della prova” qualora il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste (ad esempio, un documento o un testimone che in realtà non esiste) o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale (alla disposta perizia è risultato che lo stupefacente non fosse tale ovvero che la firma apocrifa fosse dell’imputato). Oppure dovrà essere valutato se c’erano altri elementi di prova inopinatamente o ingiustamente trascurati o fraintesi. Ma occorrerà ancora ribadirlo non spetta comunque a questa Corte Suprema “rivalutare” il modo con cui quello specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito, giacché attraverso la verifica del travisamento della prova.
Per esserci stato “travisamento della prova” occorre che sia stata inserita nel processo un’informazione rilevante che invece non esiste nel processo oppure si sia omesso di valutare una prova decisiva ai fini della pronunzia.
In tal caso, però, al fine di consentire di verificare la correttezza della motivazione, va indicato specificamente nel ricorso per Cassazione quale sia l’atto che contiene la prova travisata o omessa.
Il mezzo di prova che si assume travisato od omesso deve inoltre avere carattere di decisività. Diversamente, infatti, si chiederebbe al giudice di legittimità una rivalutazione complessiva delle prove che, come più volte detto, sconfinerebbe nel merito.
3. Se questa, dunque, è la prospettiva ermeneutica cui è tenuta questa Suprema Corte, le censure che il ricorrente rivolge al provvedimento impugnato si palesano manifestamente infondate, non apprezzandosi nella motivazione della sentenza della Corte d’Appello di Palermo alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva.
Il ricorrente non contesta il travisamento di una specifica prova, ma sollecita a questa Corte una diversa lettura dei dati processuali non consentito in questa sede di legittimità.
I giudici del gravame di merito con motivazione specifica, coerente e logica hanno, infatti, dato conto che nessun elemento di certezza sia stato raggiunto se non quello che il C.G. non era stato messo nelle condizioni di lavorare in sicurezza aggiungendo che, se fosse stato vero che era stato montato il ponteggio, allora questo evidentemente non era idoneo alla lavorazione da farsi per la collocazione della lastra, perché troppo basso e, comunque, non protetto da tavole fermapiede per impedire la caduta nel vuoto.
Nella motivazione della sentenza impugnata si evidenzia anche come la scala messa a disposizione dal lavoratore per la collocazione della lastra di marmo non era idonea ad essere utilizzata per quel tipo di lavorazione.
Mancava, dunque, la predisposizione dell’impalcatura intorno al balcone, che consentisse la collocazione della lastra per la sicurezza del C.G., impalcatura che, se fosse stata predisposta, avrebbe consentito al C.G. di cadere sul ponteggio e non a terra.
Corretta in punto di diritto è l’affermazione che gli obblighi gravanti sul R.S.G., quale datore di lavoro, erano quelli previsti dalle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e, in particolare, dal richiamato art. 111 del d.l.vo n. 81 del 2008 e che non può avere pregio richiamare una condotta estemporanea del lavoratore, che avrebbe agito di propria iniziativa secondo la versione del C. salendo su una scala per stendere la colla, dopo essere salito sul piano di calpestio dal ponteggio montato a ridosso del balcone, così trovandosi ad un’altezza tale da non avere ragione per usare la scala, poiché avrebbe potuto arrivarci usando le braccia.
La Corte territoriale ha dato conto, sul punto, che tale è la versione fornita da C., genero dell’imputato, che era da lui stato assegnato all’organizzazione del lavoro degli operai nel cantiere e che aveva, egli stesso, manovrato la gru per sollevare la lastra di marmo. Se si ammettesse ma così non è per i giudici del merito che il C.G. aveva agito di propria iniziativa, ponendo in essere la manovra imprudente, allora si dovrebbe affermare che il C. avrebbe, comunque, dovuto, tempestivamente, intervenire e impedire la detta manovra.
Conferente appare il richiamo al precedente di questa Corte di legittimità di cui alla sentenza 7364/2015 ove si è ribadito che il comportamento negligente del lavoratore, che abbia dato occasione all’evento, non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro, quando il sinistro sia, comunque, da ricondurre all’insufficienza di quelle cautele, che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente.
La coerente motivazione della Corte palermitana prosegue rilevando che nemmeno può richiamarsi la presenza, regolare, anche se non quotidiana, del P. nel cantiere, quale coordinatore dei lavori e responsabile della sicurezza neppure presente in loco il giorno del fatto in quanto non è dato ravvisare negli atti processuali né è stata indicata nell’atto di appello e nella memoria difensiva la sussistenza di una effettiva delega all’ing. P., da parte del R.S.G., di funzioni, tale da sollevare da ogni responsabilità il datore di lavoro.
Anche in questo caso il giudice del gravame del merito fa buon governo del costante dictum delle Sezioni Unite di questa Corte Suprema (sent. n. 38343 del 2014) che va qui ribadito secondo cui, in materia di infortuni sul lavoro, gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro, possono essere trasferiti con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al delegante, a condizione che il relativo atto di delega ex art. 16 del D.Lgs. n. 81 del 2008 riguardi un ambito ben definito e non l’intera gestione aziendale, sia espresso ed effettivo, non equivoco ed investa un soggetto qualificato per professionalità ed esperienza che sia dotato dei relativi poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa.
Del resto, viene ricordato in sentenza come il P. abbia riferito che di quelle lavorazioni ne avevano da fare trentasei, tante quante erano i balconi, e che quella manovra era la prima.
I giudici del gravame del merito danno atto che il teste non è apparso credibile a proposito dell’uso della scala che il C.G. avrebbe fatto posto che, trattandosi di una lavorazione da ripetere e, quindi, già sperimentata, il metodo da usarsi per sostenere la colla e guidare l’appoggio della lastra sarebbe dovuto essere già chiaro per l’operaio addetto alla lavorazione. A tale proposito, infatti, come ha detto il P., la collocazione della lastra era stata definita nei giorni precedenti e, trattandosi di una fase delicata, era stato convenuto che vi lavorassero almeno due operai.
La logica conclusione cui perviene la sentenza impugnata è nel senso di ritenere assai poco credibile che il C.G. abbia utilizzato una scala per ben posizionare la lastra di marmo, scegliendone una a caso, di propria iniziativa. Ciò in quanto alla collocazione della lastra erano stati impegnati oltre al C.G. anche il capo cantiere, genero del R.S.G., C., intento al momento della caduta a manovrare la “gruetta” secondo il racconto dello stesso C. . Ne consegue che, oltre all’assenza della delega vi sono espressi richiami alla qualifica e al dovere del R.S.G. in materia di prevenzione della sicurezza dei lavoratori, in quanto viene rilevato essere agli atti la relazione tecnica per la messa in sicurezza del cantiere prodotta all’udienza del 29.11.2012 redatta dall’ing. P. su espresso incarico del R.S.G..
Viene anche evidenziato come, in altro atto (il sopralluogo della dott.ssa R., in data 22.2.2008) espressamente, l’imputato veniva indicato come “responsabile del servizio di prevenzione e protezione”.
Rispetto a tale motivata, logica e coerente pronuncia il ricorrente chiede una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione. Ma per quanto sin qui detto un siffatto modo di procedere è inammissibile perché trasformerebbe questa Corte di legittimità nell’ennesimo giudice del fatto.
4. Fondato, come dianzi anticipato, è invece il motivo di doglianza riguardante l’assoluta assenza di motivazione circa la richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Nell’atto di appello del 16.6.2014 a firma dell’Avv. Omissis vi è un secondo motivo (“eccessivo rigore del trattamento sanzionatorio e mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche”), con una richiesta di rivalutazione del diniego fondata sulla ampia collaborazione prestata dall’Imputato e sul consenso all’esame, oltre che sulla mancata motivazione del diniego da parte del giudice di primo grado.
Su tale motivo di appello, tuttavia i giudici del gravame del merito non spendono neanche un rigo (si legge solo in sentenza che “anche la pena inflitta è equa e si profila adeguata al caso concreto, avuto riguardo ai criteri direttivi di cui all’art. 133 c.p., tra i quali va evidenziata la personalità del soggetto per come si evince dal precedente relativo al reato di falsità materiale e per come si evince dalle modalità della condotta, essendosi mostrato l’imputato insofferente all’adozione delle cautele idonee a scongiurare il pericolo relativo alla sicurezza dei lavoratori nel suo cantiere”).
S’impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente a tale punto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al punto concernente la concessione delle attenuanti generiche e rinvia su tale punto alla Corte d’Appello di Palermo.
Rigetta il ricorso nel resto.
Così deciso in Roma il 16 dicembre 2015