Cassazione Penale, Sez. 4, 05 ottobre 2016, n. 41995

Infortunio e confusione nelle posizioni di garanzia. Responsabilità dell’amministratore della cooperativa.


Presidente: BIANCHI LUISA
Relatore: PEZZELLA VINCENZO
Data Udienza: 20/09/2016

Fatto

1. La Corte di Appello di Brescia, pronunciando nei confronti dell’odierno ricorrente, L.U., con sentenza del 13.2.2015 confermava la sentenza emessa in data 3.2.2014 dal GM del Tribunale di Brescia che, concessagli l’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c.p. equivalente alla contestata aggravante, lo aveva condannato alla pena di mesi due di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali, con conversione della pena detentiva nella corrispondente pena pecuniaria pari ad Euro 2.280,00 di multa, in quanto, nella qualità di amministratore unico della Società Cooperativa Idea Coop e datore di lavoro di D.M., veniva ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 590, commi 1 e 3, c.p., in relazione all’art. 583 c.p., e per violazione degli artt. 4, commi I e II, 7, 21, 22 commi I, II, III, 38, 4 comma V lett. f, 41 e 43 d.lgs. 626/94 (ora T.U. 81/2008).

In Ghedi il 19.12.2007.
2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, personalmente, L.U., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
Con un primo motivo si censura la sentenza impugnata, sotto il duplice profilo dell’errore di legge e del vizio motivazionale, laddove ha ritenuto la qualità di amministratore dell’L.U. all’epoca dei fatti, disattendendo non solo le risultanze del verbale dell’assemblea del 1.12.2007, ma anche il contenuto della deposizione testimoniale resa da S.A. all’udienza del 22.3.2013. Ciò, tuttavia, senza nulla dire in ordine al motivo per cui, evidentemente, ritiene inattendibile tale testimonianza e, al contrario, ritiene che sia plausibile l’avvenuto confezionamento del verbale in epoca successiva all’incidente.
Con un secondo motivo si ricorda che il verbale di assemblea ha una funzione certificativa ed assume rilevanza giuridica in quanto rappresenta un mezzo di prove dei fatti verbalizzati e non sussiste alcun obbligo di data certa, reputandosi sufficiente l’indicazione della data dell’assemblea, la sottoscrizione del presidente e del segretario, come previsto dall’art. 2375 cod. civ.
Il potere di rappresentanza degli amministratori – si sostiene ancora in ricorso- deriva esclusivamente dall’atto di conferimento dei relativi poteri e non dalla pubblicità della nomina, avendo al riguardo l’iscrizione degli atti riguardanti la società, efficacia dichiarativa e non costitutiva (Cassazione, sezione III, 12 aprile 1995, n. 4173, in Mass., 1995). Nel caso de quo, il fatto che la cessazione della carica di amministratore di L.U. e la nomina di L.N. siano state iscritte nel Registro delle Imprese in data 19.01.2008, e quindi successivamente alla delibera assembleare del 1 dicembre 2007 e all’infortunio del 19.12.2007, non può assolutamente far ritenere, secondo la tesi sostenuta, che il verbale di assemblea ordinaria sia stato confezionato in epoca posteriore all’incidente, anche perché è la legge stessa che ne dispone la registrazione in tempi successivi. L.N., infatti, era stato investito del potere di rappresentanza della Cooperativa Idea Coop già a decorrere dalla data della delibera assembleare (1 dicembre 2007), peraltro riportata nel verbale stesso e confermata dalle deposizioni testimoniali di L.N. e di S.A.. Quest’ultima, infatti, è colei che, in qualità di segretaria, ha sottoscritto il verbale di assemblea ordinaria.
Con un terzo profilo di doglianza si osserva che i giudici di merito non avrebbero approfondito il motivo che avrebbe condotto l’odierno ricorrente ad accompagnare la persona offesa, limitandosi a liquidarlo come una condotta conseguente alla qualifica di datore di lavoro.
Ancora si deduce che dagli atti si rileva come la persona offesa conoscesse la lingua italiana per cui gli atti che sono stati assunti a mezzo interprete sarebbero illegittimi e non vi sarebbe alcuna certezza della loro corrispondenza rispetto a quanto effettivamente dichiarato.
Con un quarto motivo ci si sofferma sull’ordine impartito e sull’erronea applicazione della legge in punto di interruzione del nesso causale.
Secondo il ricorrente la decisione della Corte territoriale sarebbe arrivata in quanto fondata sulla errata ritenuta sussistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva imputata all’odierno ricorrente e l’evento verificatosi. Ci si duole il ricorrente non fosse il soggetto responsabile della condotta, né il destinatario del precetto che si assume violato in quanto tale è l’altro soggetto, dipendente di altre diversa società ed esercenti il ruolo di preposto di fatto.
Il giudice del gravame del merito non avrebbe correttamente valutato le affermazioni rese dall’infortunato. In particolare, come dichiarato dal predetto, gli ordini e le istruzioni sull’attività da svolgere erano stati impartiti dall’uomo che guidava la ruspa, il quale aveva fornito il piccone, esercitando in tal modo un controllo sullo svolgimento dell’attività lavorativa della persona offesa.
Si contesta inoltre la erroneità dell’applicazione al caso di specie delle norme di cui al decreto legislativo 626 del 1994.
Con un quinto motivo si richiama recente giurisprudenza di questa Corte di legittimità in materia di responsabilità del preposto di fatto per affermarsi che la presenza dello stesso escluderebbe la responsabilità della ricorrente.
Con un sesto motivo si deduce, sempre sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio motivazionale, la nullità della sentenza in relazione alla ritenuta sussistenza del nesso causale tra la condotta ascritta all’imputato e l’infortunio occorso al dipendente.
In particolare, ci si duole che il giudice del gravame del merito non abbia considerato il comportamento tenuto dalla persona offesa, che si configurerebbe come del tutto arbitrario ed irrazionale, sebbene fosse stato posto in essere in esecuzione del comando impartitogli dall’addetto alla ruspa. La motivazione con cui la corte territoriale pervenuta la conferma della condanna sarebbe dunque errata, illogica e contraddittoria. Infine, il ricorrente ritiene che nel caso che ci occupa si sia di fronte alla fattispecie dell’assunzione di rischio elettivo che notoriamente elide il nesso causale e quindi escluderebbe ogni responsabilità dell’odierno ricorrente.
In data 2-11 maggio 2016 il ricorrente rivolgeva inoltre istanza a questa corte perché dichiarasse l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione.
Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.
 

Diritto

 
1. I motivi sopra illustrati appaiono manifestamente infondati e pertanto il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
2. Il ricorso è manifestamente inammissibile, in quanto il ricorrente, non senza evocare in larga misura censure in fatto non proponibili in questa sede, si è nella sostanza limitato a riprodurre le stesse questioni già devolute in appello e da quei giudici puntualmente esaminate e disattese con motivazione del tutto coerente e adeguata che il ricorrente non ha in alcun modo sottoposto ad autonoma e argomentata confutazione.
E’ ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591 comma 1, lett. c) cod. proc. pen., alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso sez. 2, n. 29108 del 15/7/2011, Cannavacciuolo non mass.; conf. sez. 5, n. 28011 del 15/2/2013, Sammarco, Rv. 255568; sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, Pezzo, Rv. 253849; sez. 2, n. 19951 del 15/5/2008, Lo Piccolo, Rv. 240109; sez. 4, n. 34270 del 3/7/2007, Scicchitano, Rv. 236945; sez. 1, n. 39598 del 30/9/2004, Burzotta, Rv. 230634; sez. 4, n. 15497 del 22/2/2002, Palma, Rv. 221693).
Ancora di recente, questa Corte di legittimità ha ribadito come sia inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l’appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l’insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (sez. 3, n. 44882 del 18/7/2014, Cariolo e altri, Rv. 260608).
3. Quanto al contestato ruolo di amministratore della cooperativa all’epoca dell’incidente da parte dell’odierno ricorrente, e quindi di datore di lavoro del D.M., la Corte territoriale non si è limitata a richiamare le persuasive argomentazioni di segno contrario svolte dal giudice di prime cure, evidenziando che a fronte delle stesse le osservazioni difensive risultavano davvero inconsistenti, ma, con ampia motivazione ha dato conto (a pagina 14 del provvedimento impugnato) di come la formalizzazione della denuncia di infortunio all’INAIL presentata e sottoscritta proprio da L.U. non possa essere considerata una pura formalità di tipo burocratico-amministrativo, perché in essa vi è la specifica indicazione, proveniente dallo stesso imputato, della propria qualità di datore di lavoro del D.M..
Del resto, già il giudice di primo grado, la cui motivazione legittimamente i giudici del gravame del merito hanno ritenuto di richiamare e condividere, aveva argomentatamente confutato la tesi dell’L.U. sul punto.
Viene ricordato in sentenza che il L.N., sentito quale teste, e la S.A., hanno affermato che da quel momento il primo aveva effettivamente assunto il ruolo di amministratore e l’L.U. l’aveva dismesso, anche se la teste S.A., che operava esclusivamente all’interno degli uffici della società, non ha saputo dire se l’L.U., successivamente a tale data, avesse svolto qualche ruolo all’esterno, segnatamente nei cantieri in cui operavano i dipendenti.
Reputano, tuttavia, i giudici dell’appello che il datore di lavoro dell’infortunato si identifichi nell’L.U., tenuto conto delle dichiarazioni di D.M., secondo cui questi l’aveva assunto, accompagnato sul luogo di lavoro e gli aveva impartito le direttive in merito alle mansioni da svolgere, mentre mai aveva visto e conosciuto il L.N., e considerato – risolutivamente – che proprio L.U., in data 21 dicembre 2007, presentò all’INAIL la denuncia di infortunio, dichiarandosi datore di lavoro dell’Infortunato.
Ciò ha indotto i giudici del gravame del merito a ritenere che alla data del sinistro l’L.U. rivestisse la carica di amministratore della società, atteso che la sottoscrizione da parte sua, apposta sul timbro della Idea Coop, della denuncia di infortunio non trova plausibile alternativa spiegazione. E ad affermare che il fatto che la cessazione della carica dell’L.U. e la nomina di L.N. siano state iscritte nel registro delle imprese solo in data 19 gennaio 2008, a distanza di un mese dall’infortunio (cfr. certificato della Camera di Commercio di Brescia), rende del tutto plausibile che il verbale dell’assemblea ordinaria sopra citato, che non reca data certa, sia stato confezionato in epoca posteriore all’incidente ed alla relativa denuncia all’INAIL.
Con motivazione assolutamente logica viene poi evidenziato che L.N., dopo aver affermato di avere egli stesso provveduto all’assunzione del D.M.: 1. non è stato nemmeno in grado di riferire le mansioni cui il lavoratore era addetto, avendo genericamente affermato che doveva occuparsi della manutenzione di un macchinario; 2. non ha ricordato, chi avesse accompagnato il dipendente nella cava; 3. ha affermato di essere stato avvertito dell’infortunio proprio dall’L.U., il cui coinvolgimento nell’occorso, in assenza di cariche in seno alla Idea Coop, appare incomprensibile; 4. ha reso dichiarazioni inverosimili circa le ragioni per cui l’L.U. aveva sottoscritto la denuncia di infortunio, affermando “non me ne intendevo più di tanto. Mi facevo consigliare da loro. Mi facevo aiutare da lui”.
4. Con motivazione logica e congrua, ancorché corrette in punto di diritto, la corte territoriale ha già risposto anche alle ulteriori doglianze oggi riproposte Le ulteriori osservazioni, che tendono ad assegnare una posizione di garanzia al dipendente della ditta del B., in qualità di preposto, nonché al B. stesso in veste di committente/appaltante, trattandosi del soggetto nella cui disponibilità permaneva il luogo di lavoro, sono certamente corrette, come rilevato dai giudici del gravame del merito, ma non consentono in ogni caso di escludere il debito di sicurezza nei confronti del lavoratore subordinato in capo all’L.U., quale datore di lavoro, e come tale soggetto in primis obbligato, ai sensi degli artt. 4, 7, 21, 22 D.L.vo n. 626/1994 (in continuità normativa con le prescrizioni di cui al T. U. n. 81/2008), a valutare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, a fornire agli stessi i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, a curare che costoro ricevessero un’adeguata formazione e informazione sui rischi specifici connessi all’attività lavorativa loro assegnata. E condivisibile appare anche l’affermazione che non è certo adducendo la mancata indicazione di istruzioni specifiche rivolte all’infortunato D.M., così come il fatto di essersi allontanato dal posto pochi minuti dopo averlo accompagnato in cava, semplicemente impartendogli l’ordine di separare dal cemento i materiali come legno, plastica e ferro, che l’L.U. può andare esente da responsabilità.
Piuttosto, l’affermazione contenuta nell’atto di appello, alla stregua della quale “nel caso concreto il sig. L.U., pur avendo accompagnato il sig. D.M. presso la cava, non ha certamente impartito istruzioni dettagliate circa le modalità di esecuzione del lavoro, né tanto meno è rimasto in quel luogo per vigilare sull’attività del lavoratore” (così, pag. 8), è stata condivisibilmente ritenuta l’ammissione più chiara e genuina della violazione degli obblighi di sicurezza e garanzia che gravavano sull’imputato.
5. Né può porsi in questa sede la questione di un’eventuale declaratoria della prescrizione maturata dopo la sentenza d’appello -come richiede il ricorrente con i motivi aggiunti- in considerazione della manifesta infondatezza del ricorso.
La giurisprudenza di questa Corte Suprema ha, infatti, più volte ribadito che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen (Cass. pen., Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32, De Luca, rv. 217266: nella specie la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. un., 2 marzo 2005, n. 23428, Bracale, rv. 231164, e Sez. un., 28 febbraio 2008, n. 19601, Niccoli, rv. 239400; in ultimo Cass. pen. Sez. 2, n. 28848 dell’8.5.2013, rv. 256463).
Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo
 

P.Q.M.
 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2000,00 in favore della cassa delle ammende Così deciso in Roma il 20 settembre 2016

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