Cassazione Penale, Sez. 4, 06 ottobre 2016, n. 42092

Caduta dalla scala a pioli del lavoratore “improvvisatosi” manutentore: comportamento abnorme o responsabilità del DL?


Presidente: CIAMPI FRANCESCO MARIA
Relatore: BELLINI UGO
Data Udienza: 15/07/2016

Fatto

1. La Corte di Appello di Catania con sentenza in data 1.10.2015, sull’appello dell’imputato, confermava la sentenza del Tribunale di Ragusa che aveva riconosciuto C.C. colpevole del reato di cui all’art.589 cod.pen., nonché di tre distinte contravvenzioni in materia di sicurezza sul lavoro, in conseguenza della caduta da una scala a pioli del dipendente L.O. intento ad eseguire lavori di manutenzione in quota del macchinario “filo diamantato” e in conseguenza la aveva condannata alla pena di anni due di reclusione in relazione al delitto e a € 5000 di ammenda in relazione alle tre contravvenzioni. Condannava altresì la imputata al risarcimento dei danni a favore delle parti civili costituite cui riconosceva somme a titolo provvisionale in ragione del grado di parentela nei confronti del de cuius.

2. A fondamento della propria decisione la corte territoriale rilevava che L.O., sebbene inserito nella ditta O. e C. s.r.l. di cui la imputata risultava legale rappresentante in qualità di autista, sulla base del materiale istruttorio acquisito al giudizio, risultava essere comandato a svolgere anche attività ausiliarie in altri settori, quale quelli della manutenzione delle macchine, come nella specifica ipotesi in cui il L.O. si era issato su una scala a pioli per operare all’altezza richiesta dello specifico macchinario alla cui manutenzione era intento. La circostanza che la manutenzione straordinaria della suddetta macchina fosse curata da una ditta esterna, come desumibile dai documenti fiscali prodotti dalla difesa dell’imputata, non era incompatibile con l’incarico assunto dal dipendente, la cui azione non era stata improvvisa ed arbitraria, essendo altresì emerso che i dipendenti non erano soliti assumere iniziative personali di esecuzione di incombenti non comandati.
3. Da tali circostanze derivava la responsabilità del titolare della ditta e datore di lavoro del L.O. sia in relazione alla omessa predisposizione degli accorgimenti tecnici di cui alle fattispecie contravvenzionali ascritte e in particolare di non avere predisposto un sistema di accesso in quota per la manutenzione del macchinario, nonché per non avere provveduto acchè la scala a pioli fosse saldamente ancorata e comunque fosse di altezza superiore al livello di accesso al macchinario, sia in relazione alla omessa formazione del dipendente sui rischi connessi alla effettuazione di lavori di meccanica e di manutenzione dei macchinari presenti in azienda.
4. Avverso la suddetta sentenza proponeva ricorso per cassazione la difesa dell’imputata deducendo vizio di mancanza di motivazione e di violazione nella valutazione della prova, atteso che era emerso in dibattimento che giammai il L.O. aveva svolto interventi di manutenzione straordinaria ma semmai piccoli lavori di manutenzione ordinaria. Assumeva pertanto che la manutenzione del “filo diamantato” presentava caratteri di straordinarietà e di particolare delicatezza che giustificavano l’intervento di ditta specializzata, mentre vi erano elementi oggettivi per ritenere che il L.O. avesse assunto il compito di ingrassare la macchina, compito che mai avrebbe potuto impartire il datore di lavoro in quanto la macchina non aveva punti di lubrificazione. Ne derivava che il comportamento del dipendente era stato arbitrario e imprevedibile.
Con memoria depositata in data 4 Luglio 2016 si costituiva in giudizio la parte civile Inail che chiedeva il rigetto del ricorso.

Diritto

1. Va preliminarmente evidenziato che in ossequio a principi ripetutamente affermati da questa Corte, che, in punto di vizio motivazionale, compito del giudice di legittimità, allo stato della normativa vigente, è quello di accertare (oltre che la presenza fisica della motivazione) la coerenza logica delle argomentazioni poste dal giudice di merito a sostegno della propria decisione, non già quello di stabilire se la stessa proponga la migliore ricostruzione dei fatti. Neppure il giudice di legittimità è tenuto a condividerne la giustificazione, dovendo invece egli limitarsi a verificare se questa sia coerente con una valutazione di logicità giuridica della fattispecie nell’ambito di una plausibile opinabilità di apprezzamento; ciò in quanto l’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) non consente alla Corte di Cassazione una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, essendo estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali (ex pluribus: Cass. n. 12496/99, 2.12.03 n. 4842, rv 229369, n. 24201/06); pertanto non può integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali. È stato affermato, in particolare, che la illogicità della motivazione, censurabile a norma del citato art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile “ictu oculi”, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata (Cass. SU n. 47289/03 rv 226074). Detti principi sono stati ribaditi anche dopo le modifiche apportate all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) dalla L. n. 46 del 2006, che ha introdotto il riferimento ad “altri atti del processo”, ed ha quindi, ampliato il perimetro d’intervento del giudizio di cassazione, in precedenza circoscritto “al testo del provvedimento impugnato”. La nuova previsione legislativa, Invero, non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane comunque un giudizio di legittimità, nel senso che il controllo rimesso alla Corte di cassazione sui vizi di motivazione riguarda sempre la tenuta logica, la coerenza strutturale della decisione. Così come sembra opportuno precisare che il travisamento, per assumere rilievo nella sede di legittimità, deve, da un lato, immediatamente emergere dall’obiettivo e semplice esame dell’atto, specificamente indicato, dal quale deve trarsi, in maniera certa ed evidente, che il giudice del merito ha travisato una prova acquisita al processo, ovvero ha omesso di considerare circostanze risultanti dagli atti espressamente indicati; dall’altro, esso deve riguardare una prova decisiva, nel senso che l’atto indicato, qualunque ne sia la natura, deve avere un contenuto da solo idoneo a porre in discussione la congruenza logica delle conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito.
2. Orbene, alla stregua di tali principi, deve prendersi atto del fatto che la sentenza impugnata non presenta alcuno dei vizi dedotti dai ricorrenti, atteso che l’articolata valutazione, da parte dei giudici di merito, degli elementi probatori acquisiti, rende ampio conto delle ragioni che hanno indotto gli stessi giudici a ritenere la responsabilità della ricorrente, mentre le censure da questa proposte finiscono sostanzialmente per riproporre, anche graficamente, argomenti già esposti in sede di appello, che tuttavia risultano ampiamente vagliati e correttamente disattesi dalla Corte territoriale, ovvero a sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle risultanze processuali, fondata su una valutazione alternativa delle fonti di prova, in tal modo richiedendo uno scrutinio improponibile in questa sede.
3. In particolare la Corte territoriale ha indicato una serie di elementi a sostegno del proprio convincimento in punto a sussistenza tanto del rapporto di causalità omissiva quanto dell’elemento soggettivo del reato, argomenti con i quali la difesa della ricorrente non mostra di confrontarsi ma finisce per riproporre il contenuto dei motivi di gravame già articolati dinanzi al giudice di appello.
Sotto il profilo causale è indubbio che il lavoratore era intento a svolgere un’attività di manutenzione di un impianto dell’azienda per la quale lavorava con mezzi assolutamente inadeguati per operare in quota e privo della necessaria formazione laddove, pur essendo inquadrato per le mansioni di autista, per pacifica emergenza della istruttoria dibattimentale veniva sovente comandato di eseguire interventi di manutenzione all’interno della azienda, di talché l’infortunio realizzatosi costituiva sviluppo del tutto adeguato, sulla base di giudizio contro fattuale, fondato su criteri probabilistici di elevata credibilità razionale in una valutazione di logica processuale.
4. Sotto diverso profilo poi, in relazione alla deduzione del comportamento abnorme del lavoratore, è stato evidenziato dal S.C. che la colpa del lavoratore eventualmente concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica addebitata ai soggetti tenuti ad osservarne le disposizioni non esime questi ultimi dalle proprie responsabilità, poiché l’esistenza del rapporto di causalità tra la violazione e l’evento-morte o -lesioni del lavoratore che ne sia conseguito può essere esclusa unicamente nei casi in cui sia provato che il comportamento del lavoratore fu abnorme, e che proprio questa abnormità abbia dato causa all’evento. La Suprema Corte ha precisato che è abnorme soltanto il comportamento del lavoratore che, per la sua stranezza ed imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all’applicazione della misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro, e che tale non è il comportamento del lavoratore che abbia compiuto un’operazione comunque rientrante, nel segmento di lavoro attribuitogli (vedi sez.IV, 28.4.2011 23292; 5.3.2015 n. 16397). Non pare dubbio – e il giudice di appello ne ha dato conto in motivazione – che il lavoratore sia stato intento alla esecuzione di un compito allo stesso assegnato, in quanto rientrante nell’ambito di attribuzioni che gli venivano richieste.
5. Va infine rilevato che nei motivi di ricorso la C.C. neppure fornisce una ricostruzione alternativa della vicenda, limitandosi ad affermare che la persona offesa, pur in mancanza di uno specifico incarico, si era posto in quota, facendo uso di mezzi dallo stesso recuperati, per lubrificare gli ingranaggi di un complesso e costoso macchinario (filo diamantato), che peraltro non necessitava affatto di un tale intervento, in quanto la manutenzione straordinaria era curata da ditta specializzata che operava in sicurezza con proprio personale. Appare evidente che la stessa prospettazione del ricorrente è affetta da gravi profili di incoerenza perché finisce per attribuire al lavoratore una iniziativa pericolosa, inutile e adespota perché non comandata, e d’altra parte contrasta con la stessa fonte di prova riportata nel ricorso (fratello del L.O.) secondo cui il lavoratore era stato incaricato di oliare una macchina, e quindi di svolgere un’attività di manutenzione compatibile con quella che ne aveva determinato la caduta e il tragico evento.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato e la parte ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali e delle spese sostenute nel presente giudizio dalla parte civile costituita Inail che liquida come da dispositivo sulla base delle tariffe di cui al D.M. 10.3.2014 n.55

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute dall’Inail che liquida in € 2.500 oltre accessori come per legge.

Lascia un commento