Cassazione Penale, Sez. 4, 07 settembre 2015, n. 36024

In caso di infortunio sul lavoro anche l’appaltatore deve ritenersi responsabile insieme al committente per la mancata adozione di misure atte a prevenire il rischio di infortuni a carico dei propri dipendenti. Infatti l’appaltatore, in presenza di informazioni scarne e comunque insufficienti da parte del committente è tenuto a valutare personalmente tutti i rischi connessi all’intervento non potendo invocare a sua discolpa eventuali responsabilità altrui.


 

Presidente: SIRENA PIETRO ANTONIO
Relatore: DELL’UTRI MARCO
Data Udienza: 03/06/2015

Fatto

1. Con sentenza resa in data 13/12/2011, il tribunale di Spoleto ha condannato G.DP. alla pena di sette anni e sei mesi di reclusione, nonché, in solido con la responsabile civile G. s.r.l. (già U.O. s.p.a.), al risarcimento dei danni in favore delle diverse parti civili costituite, in relazione alla commissione dei reati di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, incendio colposo e getto pericoloso di cose, tutti commessi in Campello sul Clitunno, il 25/11/2006.
2. In estrema sintesi, al G.DP. – nella qualità di presidente del consiglio di amministrazione della U.O. S.p.A., società esercente attività di raffinazione di oli vegetali – era stata ascritta la causazione del decesso di G.C., M.M., T.M. e V.T., nonché delle lesioni personali a carico di K.D., avvenuti in conseguenza di una deflagrazione di vapori infiammabili contenuti nel serbatoio di olio di sansa grezza n. 95, posto nell’area di stoccaggio dell’impianto della U.O. s.p.a. in Campello sul Clitunno; serbatoio in corrispondenza del quale le vittime stavano realizzando, mediante saldatura sul relativo tetto, un sistema di passerelle in esecuzione di un appalto conferito dalla U.O. alla ditta individuale di M.M..
Secondo il tribunale spoletino, il G.DP. doveva ritenersi altresì responsabile dell’omessa dotazione dell’area di stoccaggio degli olii vegetali (tra i quali l’olio di sansa grezza) di un adeguato impianto antincendio, nonché dell’omessa dotazione, dei serbatoi contenenti i prodotti, di un sistema di sicurezza per l’inertizzazione e il controllo delle atmosfere esplosive, nonché di un sistema di rilevazione della presenza di vapori infiammabili e di altre misure idonee a evitare i pericoli di esplosione all’interno dei serbatoi e nelle altre aree a rischio di spandimenti; fatti commessi con l’aggravante di aver cagionato il descritto infortunio mortale plurimo, oltre a un incendio secondario alla descritta esplosione (anch’esso imputato al G.DP. a titolo di colpa), determinatosi a seguito della fuoriuscita dell’olio contenuto nel serbatoio n. 95, seguito dall’esplosione dei serbatoi n. 94 e n. 93, dai quali era fuoriuscito ulteriore olio, con successiva recrudescenza dell’incendio, domato solamente dopo tredici ore con l’impiego di numerosi vigili del fuoco e di notevoli quantità di mezzi di spegnimento.
Da ultimo, all’imputato era stato attribuito lo sversamento, penalmente rilevante ai sensi dell’art. 674 c.p., di notevoli quantità di oli vegetali, compresi gli oli di sansa grezza con presenza di residui di solventi, che dallo stabilimento industriale si erano riversati a valle sulla S.S. Flaminia e nel fiume Clitunno.
3. Con sentenza resa in data 8/11/2013, la corte d’appello di Perugia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dopo aver assolto l’imputato dal reato di omessa adozione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, perché il fatto non costituisce reato, e aver dichiarato non doversi procedere in relazione al reato di cui all’art. 674 c.p., in ragione dell’intervenuta prescrizione, ha rideterminato la pena nei confronti dell’imputato (anche a seguito di una rivalutazione delle circostanze), in relazione alle residue imputazioni di omicidio colposo plurimo, lesioni colpose e di incendio colposo, stabilendola definitivamente nella misura di cinque anni e quattro mesi di reclusione.
La stessa corte, riconosciuto il concorso di colpa di M.M., nella misura di un terzo, in relazione alla causazione dei reati di omicidio colposo plurimo, lesioni colpose e di incendio colposo, ha ridotto le somme già liquidate, in favore delle parti civili costituite quali congiunti del M.M., a titolo di provvisionale e di risarcimento del danno.
4. Avverso la sentenza d’appello, a mezzo dei rispettivi difensori, hanno proposto ricorso per cassazione l’imputato, G.DP., la responsabile civile, G. s.r.l. in liquidazione, nonché le parti civili M.S. e Y.M..
5. G.DP. ha proposto ricorso sulla base di due distinti atti d’impugnazione.
5.1. Con il primo atto, a firma dell’avv.to G.LS., l’imputato propone ricorso sulla base di otto motivi d’impugnazione.
5.1.1. Con il primo motivo, il ricorrente si duole della violazione di legge in cui sarebbe incorsa la corte territoriale nell’omettere il rilievo della nullità processuale verificatasi a seguito della mancata acquisizione della memoria offerta in produzione dalla difesa dell’imputato, ai sensi dell’art. 121 c.p.p., dinanzi al giudice dell’udienza preliminare in data 18/3/2009.
5.1.2. Con il secondo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per vizio di motivazione, essendo la corte territoriale incorsa nel travisamento degli esiti dell’istruttoria probatoria condotta nel corso del giudizio, con particolare riguardo alla ricostruzione delle modalità attraverso le quali la ditta M.M. aveva progettato l’esecuzione (mediante imbullonatura e non già mediante saldatura) del sistema delle passarelle sui serbatoi dell’U.O., nonché con riguardo all’assenza di alcun uso dell’esano nel procedimento di raffinazione degli oli vegetali eseguito all’interno dell’azienda U.O.: procedimento realizzato attraverso il ricorso a impianti di tipo fisico, a differenza delle tecniche utilizzate nelle imprese di estrazione dell’olio di sansa.
Più in generale, la corte territoriale avrebbe gravemente tradito le risultanze dell’istruttoria dibattimentale, che avevano smentito l’ipotesi, prospettata dai consulenti tecnici del pubblico ministero, dell’innesco dell’esplosione per effetto della saldatura delle passerelle sui serbatoi dell’olio, essendo piuttosto rimasta confermata l’ipotesi alternativa dell’incendio causato dalla lacerazione delle lamiere del serbatoio n.95 a seguito dello strappo alla base dello stesso scaturito dall’azione, abnorme e imprevedibile, del manovratore della gru e, dunque, di un dipendente dell’appaltatore M.M., alla cui responsabilità doveva essere pertanto integralmente ricondotta la causazione del sinistro.
5.1.3. Con il terzo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per vizio di motivazione, nella forma del travisamento della prova, avendo la corte territoriale, nel procedere alla ricostruzione delle modalità di verificazione dell’innesco dell’incendio (se a seguito dell’esplosione provocata dalla saldatura delle passerelle sul serbatoio dell’olio, o piuttosto in conseguenza dello strappo alla base di questo), acriticamente aderito alle conclusioni dei consulenti tecnici del pubblico ministero, senza rilevarne le gravi contraddizioni, rispetto alle risultanze probatorie acquisite agli atti del giudizio, e senza provvedere all’ammissione di una doverosa perizia d’ufficio indispensabile al fine di dirimere gli insanabili contrasti interpretativi sul punto emersi rispetto alle prospettazioni esplicative e a quelle d’indole tecnico-scientifica avanzate dalla difesa, così come diffusamente e analiticamente riportate in ricorso.
5.1.4. Con il quarto motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione (ancora nella forma del travisamento della prova), avendo la corte territoriale accertato la responsabilità dell’imputato nonostante la mancata acquisizione di alcuna certezza circa l’esatto sviluppo del decorso causale a monte dell’evento lesivo oggetto d’esame, attesa la coesistenza, con quella accusatoria, di un’ipotesi eziologica alternativa, dotata di altrettanto concreta plausibilità (quale quella dell’innesco dell’incendio a seguito dell’abnorme e improvvida manovra del gruista), come visivamente desumibile dai filmati della videosorveglianza acquisiti agli atti del giudizio a loro volta riscontrati dalla corrispondente documentazione fotografica.
5.1.5. Con il quinto motivo il ricorrente si duole della violazione di legge e del vizio di motivazione in cui sarebbe incorsa la corte territoriale nella ricostruzione dei profili della colpa dell’imputato, siccome erroneamente ricondotta a un quadro normativo in relazione al quale nessuna effettiva violazione è risultata concretamente ascrivibile all’imputato, con particolare riferimento al puntuale assolvimento, da parte dello stesso, degli obblighi connessi al coordinamento e alla cooperazione, ai fini della sicurezza dei lavoratori, con l’impresa appaltatrice (ex art. 7 d.lgs. n. 626/94 nella formulazione vigente ratione temporis); impresa appaltatrice alla cui esclusiva responsabilità andava pertanto ricondotta l’eventuale violazione delle disposizioni che imponevano l’assoluto divieto di procedere all’uso della saldatrice per l’assicurazione delle passarelle ai serbatoi dell’olio, siccome espressione normativa finalizzata alla cautela di un rischio specifico dell’appaltatore (ex art. 88-septies, d.lgs. n. 626/94), in nessun modo ascrivibile all’ambito della responsabilità di cooperazione e di coordinamento dell’impresa committente, che aveva peraltro espressamente convenuto con l’impresa appaltatrice il divieto di fare uso delle saldatrici per l’esecuzione dei lavori affidati in appalto.
Per tali ragioni, nessun rimprovero avrebbe potuto muoversi all’imputato in relazione al rispetto della normativa concernente il divieto delle operazioni di saldatura, così come in relazione alla disciplina del trattamento dei materiali o dei prodotti infiammabili o esplosivi o circa la conformità dei serbatoi dell’olio alla normativa di settore per lo stoccaggio degli olii destinati alla raffinazione (cfr. artt. 250, 246, 358 e 365 d.p.r. n. 547/55), come attestato dalle relazioni tecniche acquisite agli atti del giudizio e dalle corrispondenti autorizzazioni rilasciate dalle autorità amministrative competenti.
Né alcuna violazione era emersa in relazione al punto 23 del d.m. 18/2/1982 o del d.m. 31/7/1934, essendo rimasto pacificamente escluso il ricorso di alcuna attività estrattiva (ma di sola raffinazione) all’interno degli stabilimenti della U.O. (con la conseguente esclusione dell’uso di alcun solvente nei procedimenti produttivi ivi seguiti, in considerazione della presenza di tracce solo minime di residui di esano nell’olio di sansa grezza), ed attesa la limitata applicabilità del citato d.m. 31/7/1934 ai soli oli minerali e non a quelli vegetali (come quello di sansa grezza).
Meramente formale, infine, doveva ritenersi la violazione concernente il mancato rinnovo del certificato di prevenzione incendi da parte dell’impresa dell’imputato, considerata la sostanziale irrilevanza dell’aggiunta di quattro serbatoi di stoccaggio alla preesistente struttura aziendale: aggiunta di per sé inidonea a imporre un nuovo preventivo collaudo da parte dell’autorità amministrativa competente.
5.1.6. Con il sesto motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione, avendo la corte territoriale erroneamente ricostruito i profili del concorso di colpa del M.M. nella produzione dell’evento dannoso (anche per effetto del travisamento degli elementi di prova sul punto acquisiti), determinandolo in una misura (pari a un terzo) palesemente sproporzionata e sottostimata rispetto all’entità del concorso dell’imputato, atteso il carattere determinante e decisivo dei gravissimi aspetti della colpa dell’appaltatore nell’economia causale dell’evento.
5.1.7. Con il settimo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione, essendo la corte territoriale pervenuta alla determinazione del trattamento sanzionatorio inflitto a carico dell’imputato (pari a cinque anni e quattro mesi di reclusione) sulla base di un grave travisamento degli elementi di prova acquisiti in relazione al minimo (se non nullo) contributo causale alla produzione dell’evento, nonché in relazione al carattere sostanzialmente trascurabile, sul piano eziologico, dei pretesi profili di colpa dell’imputato, con la conseguente illogica applicazione dei parametri legislativi di commisurazione della pena, tanto con riguardo alla determinazione della pena-base (erroneamente riferita al quarto comma, come novellato, dell’art. 589 c.p., anziché al terzo comma dello stesso articolo, ratione temporis), quanto in relazione al giudizio di bilanciamento delle circostanze attenuanti generiche, ingiustificatamente ritenute equivalenti alle contestate aggravanti.
5.1.8. Con l’ottavo motivo, il ricorrente si duole della violazione di legge in cui sarebbe incorsa la corte territoriale nell’omettere il rilievo del difetto di legittimazione attiva (con la conseguente esclusione) dell’Inail a costituirsi parte civile nei confronti dell’imputato, attesa la sopravvenienza al fatto dell’art. 1, co. 910, lett b), della legge 27/12/2006 n. 296, che ha per la prima volta introdotto, sul piano sostanziale, il diritto dell’Inail ad agire in via di regresso nei confronti del committente chiamato a rispondere in solido con l’appaltatore per gli infortuni subiti dai dipendenti di questi, con la conseguente irrilevanza della modificazione dell’art. 7 del d.lgs. n. 626/94 (operata dalla legge n. 123/2007) alla quale la giurisprudenza di legittimità (sul punto richiamata dalla corte territoriale) ha attribuito la volontà di riconoscere all’Inail la legittimazione a costituirsi parte civile nei confronti del datore di lavoro per l’esercizio dell’azione di regresso.
Allo stesso modo, la corte territoriale avrebbe erroneamente disatteso l’eccezione di esclusione sollevata dall’imputato nei confronti del Ministero dell’Ambiente (anch’esso costituitosi parte civile), avendo erroneamente interpretato le norme del d.lgs. n. 152/2006, con particolare riguardo alla preclusione all’esercizio o alla prosecuzione dell’azione civile sancita dall’art. 315 d.lgs. n. 152/2006 cit., avuto riguardo all’avvenuta riparazione in forma specifica del danno ambientale come attestato dallo stesso giudice d’appello.
Peraltro, laddove il ministero in esame avesse agito al fine di ottenere la restituzione delle somme dallo stesso versate in favore della Presidenza del Consiglio dei ministri (e da questa attribuite al commissario delegato in persona del presidente della regione dell’Umbria), detta somma avrebbe dovuto essere rivendicata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, attraverso la corrispondente rituale costituzione di parte civile: azione che sarebbe risultata peraltro priva di fondamento, atteso il sopravvenuto venir meno di alcun danno, a seguito del ripristino dello stato dei luoghi a cura e spese dell’imputato e della società responsabile civile.
Proprio in forza di tali premesse, secondo la prospettazione del ricorrente, deve ritenersi errata la sentenza impugnata nella parte in cui ha disatteso il riconoscimento del difetto di legittimazione attiva della regione Umbria, siccome priva di titoli necessari a costituirsi parte civile, a seguito della già nominata reintegrazione in forma specifica del danno ambientale e dall’avvenuta ricezione, da parte dell’ente regionale, di somme dalla Presidenza del Consiglio dei ministri di gran lunga superiori a quelle che la stessa assume di aver speso. Premesse, a loro volta suscettibili di rendere infondato il riconoscimento della provvisionale liquidata, tenuto altresì conto del carattere del tutto indimostrato del danno all’immagine lamentato dall’ente territoriale.
Da ultimo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per aver omesso di estendere la riduzione delle somme riconosciute a titolo di provvisionale e di danno nei confronti di tutte le parti civili, compresi gli enti pubblici, avuto riguardo al concorso di colpa positivamente riconosciuto in capo al M.M..
5.1.9. Con l’ultimo motivo di ricorso, l’imputato propone istanza per la sospensione dell’esecuzione delle condanne civili pronunciate a suo carico, ai sensi dell’art. 612 c.p.p., in ragione della rilevante entità delle poste risarcitone e del concreto rischio d’impossibilità della relativa ripetizione, anche nei confronti dei soggetti già individuati quali corresponsabili dei danni.
5.2. Con il secondo atto, a firma dell’avv.to G.V., l’imputato propone ricorso sulla base di cinque motivi d’impugnazione.
5.2.1. Con il primo motivo, il ricorrente si duole della violazione di legge e del vizio di motivazione in cui sarebbe incorsa la corte territoriale (anche ai sensi degli artt. 24 e 111 della Costituzione e della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: cd. Cedu) nell’omettere il rilievo della nullità processuale verificatasi a seguito della mancata acquisizione della memoria offerta in produzione dalla difesa dell’imputato, ai sensi dell’art. 121 c.p.p., dinanzi al giudice dell’udienza preliminare in data 18/3/2009.
5.2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione di legge (anche ai sensi degli artt. 24 e 111 della Costituzione e della Cedu), avendo la corte territoriale erroneamente disatteso l’istanza di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in sede d’appello, attesa l’assoluta necessità di procedere alla rivalutazione degli elementi di prova acquisiti nel corso del procedimento al fine di escludere, oltre ogni ragionevole dubbio, la responsabilità penale dell’imputato.
5.2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente si duole della violazione di legge e del vizio di motivazione in cui sarebbe incorsa la corte territoriale (anche ai sensi degli artt. 24 e 111 della Costituzione e della Cedu) per aver erroneamente omesso di disporre una perizia quale prova decisiva (anche ai fini dell’art. 606, lett d), c.p.p.) allo scopo di dirimere gli irriducibili contrasti di natura tecnico-scientifica insorti nel corso del giudizio tra gli ausiliari del pubblico ministero e il consulente tecnico dell’imputato.
5.2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per vizio di motivazione, avendo la corte territoriale confermato la responsabilità penale dell’imputato sulla base di una travisata interpretazione delle informazioni probatorie di natura dichiarativa e documentale complessivamente acquisite nel corso del giudizio, con particolare riguardo agli elementi di prova relativi alla ricostruzione dei passaggi essenziali del dinamismo causale che condusse all’evento lesivo oggetto di giudizio.
In particolare, il ricorrente si duole della scorretta interpretazione fornita dalla corte territoriale delle risultanze dei filmati registrati dalle telecamere della sorveglianza, dalle quali era emerso in modo inequivocabile l’avvenuto innesco delle fiamme per effetto dell’abnorme e improvvida manovra del gruista dipendente della ditta M.M.; manovra dalla quale era dipesa la lacerazione dalla base del serbatoio di stoccaggio dell’olio di sansa e la successiva deflagrazione dell’incendio.
Viceversa, i giudici del merito sono pervenuti alla conferma della ricostruzione esplicativa dei consulenti del pubblico ministero sulla base di un’errata e contraddittoria interpretazione degli elementi probatori disponibili (e, in primo luogo, della natura e delle caratteristiche dell’esano e delle relative possibili quantità rinvenibili nell’olio di sansa già estratto), di per sé inidonea a garantire una sufficiente contezza della prospettazione accusatoria, al di là di ogni ragionevole dubbio.
Particolarmente significative in tal senso, secondo il ricorrente, devono ritenersi le lacune argomentative e probatorie del discorso condotto dalla corte territoriale con riguardo all’innesco dell’esplosione a seguito della pretesa saldatura del sistema delle passarelle sul tetto del serbatoio dell’olio e alla successiva esplosione di questo: circostanze del tutto sfornite di adeguato supporto probatorio, ed anzi smentite dal contenuto dei diversi elementi di prova dichiarativa, filmica e documentale richiamati in ricorso (e inspiegabilmente trascurati dai giudici del merito), oltre che di congruenti conferme sul piano tecnico-scientifico.
5.2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione, avendo la corte territoriale ricostruito la pretesa posizione di garanzia dell’imputato sulla base di una scorretta interpretazione del significato della relazione contrattuale tra il committente e l’appaltatore, trascurando la considerazione dell’avvenuta scrupolosa osservanza, da parte dell’imputato, di tutte le norme cautelari allo stesso riferibili (con particolare riguardo alla correttezza della scelta dell’appaltatore e alla gestione dei rischi interferenziali, senza alcuna ingerenza nell’attività aziendale del M.M.), e viceversa erroneamente ascrivendo, a carico dell’imputato, talune responsabilità proprie dell’appaltatore in relazione alla gestione di rischi specifici di questo e dallo stesso non adeguatamente cautelati.
In particolare, del tutto erronea, siccome frutto di un travisamento della prova, deve ritenersi l’affermazione sostenuta dalla corte territoriale secondo cui l’imputato avrebbe concordato – o, quantomeno, tollerato – l’iniziativa del M.M. di procedere alla saldatura delle passerelle sui serbatoi dell’olio, essendo piuttosto risultata l’avvenuta espressa proibizione, da parte del G.DP., del ricorso alla saldatura di dette passerelle in ragione della pericolosità dell’operazione; circostanza, peraltro, ben nota allo stesso appaltatore, anche in ragione della relativa conoscenza ultradecennale delle attività e dei luoghi aziendali della U.O., ad ulteriore conferma, per altro verso, della ragionevolezza e della legittimità dell’affidamento riposto dall’imputato in ordine alla sicura idoneità dell’appaltatore all’esecuzione in piena autonomia delle lavorazioni allo stesso affidate.
Sotto altro profilo, la corte territoriale sarebbe incorsa nell’erronea applicazione della normativa secondaria di cui al d.m. 31/7/1934 e al d.m. 16/2/1982, siccome fonti normative del tutto estranee al caso di specie, neppure applicabili in via analogica. Né all’imputato sarebbe stata ascrivibile la consapevolezza del rischio d’incendio connesso alla presenza di esano nell’olio di sansa, avuto riguardo al basso limite d’infiammabilità dello stesso (peraltro eventualmente presente solo in forma di residui), con la conseguente esclusione dei necessari presupposti per un adeguato riscontro del coefficiente soggettivo della colpa.
Da ultimo, il ricorrente si duole dell’avvenuto illogico riconoscimento del concorso di colpa dell’appaltatore nella sola misura del 30%, a dispetto della decisiva entità del relativo apporto causale rispetto alla concreta verificazione dell’evento lesivo.
5.3. Con memoria depositata in data 14/5/2015, i difensori dell’imputato hanno proposto due motivi nuovi, ex art. 585 c.p.p..
Con il primo motivo, i difensori dell’imputato eccepiscono la violazione di legge in cui sarebbe incorsa la corte territoriale, per aver omesso di rilevare l’intervenuta prescrizione del reato di incendio colposo ascritto al G.DP., essendo decorso il termine di sei anni dal fatto (sette anni e mezzo per l’incidenza delle interruzioni) previsti dall’art. 157 c.p., così come ristabilito a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 143 del 28/5/2014.
Con il secondo motivo, i difensori dell’imputato ribadiscono la censura avanzata nei confronti della sentenza impugnata, con particolare riguardo all’applicazione analogica dei decreti ministeriali 31/7/1934 e 16/2/1982 operata dai giudici del merito, attesa l’inapplicabilità agli oli vegetali (come l’olio di sansa) della normativa di sicurezza dettata con riguardo alla gestione degli oli minerali, in conformità all’espressa motivazione sul punto elaborata dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 3664 del 10/4/2014 richiamata in memoria.
6. Il responsabile civile G. s.r.l. in liquidazione (già U.O. s.p.a.), a mezzo del proprio difensore, propone ricorso sulla base di cinque motivi d’impugnazione.
6.1. Con il primo motivo la responsabile civile censura la sentenza impugnata per violazione di legge, recuperando il medesimo motivo di impugnazione già avanzato dall’imputato con riguardo all’omesso rilievo della nullità processuale verificatasi a seguito della mancata acquisizione della memoria offerta in produzione dalla difesa dell’imputato, ai sensi dell’art. 121 c.p.p., dinanzi al giudice dell’udienza preliminare in data 18/3/2009.
6.2. Con il secondo motivo, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per vizio di motivazione, nella forma del travisamento della prova, avendo la corte territoriale erroneamente ricostruito il dinamismo causale alla base dell’evento dannoso verificatosi, in contrasto con le obiettive risultanze dell’istruzione dibattimentale, dalla quale era emerso come l’impresa M.M. avesse progettato (in accordo con la società committente) la realizzazione del sistema delle passarelle sui serbatoi dell’olio mediante imbullonatura, senza alcun ricorso alla tecnica della saldatura, che, ove eventualmente praticata, avrebbe dovuto integralmente ricondursi all’autonoma e arbitraria iniziativa dei dipendenti dell’appaltatore, stante il mancato intervento di alcuna accettazione o tolleranza da parte della committenza.
Sotto altro profilo, la società ricorrente evidenzia l’insussistenza di alcuna rimproverabilità, a proprio carico, dell’inosservanza, da parte dell’appaltatore, delle misure di prevenzione in relazione ai rischi specifici di questo, attesa la mancata riscontrabilita, in connessione alle lavorazioni affidate all’impresa M.M., di rischi di tipo interferenziale in ipotesi riconducibili alla responsabilità dell’U.O. s.p.a..
La società committente avrebbe, pertanto, integralmente provveduto all’assolvimento dei doveri di cooperazione previsti dall’art. 7 del d.lgs. n. 626/94, affidando l’incarico de quo a un’impresa dotata della necessaria competenza tecnica e gestendo gli eventuali rischi interferenziali nel pieno rispetto dell’autonomia dell’impresa appaltatrice, attenendosi al dovere di non ingerenza nell’esecuzione dei relativi lavori.
6.3. Con il terzo motivo la società ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione, nella forma del travisamento della prova, avendo la corte territoriale, nel procedere alla ricostruzione delle modalità di verificazione del sinistro (se a seguito dell’esplosione provocata dalla saldatura delle passerelle sul serbatoio dell’olio, o piuttosto in conseguenza dello strappo delle lamiere del serbatoio provocato dal gruista), acriticamente aderito alle conclusioni dei consulenti tecnici del pubblico ministero, senza rilevarne le gravi contraddizioni, rispetto alle risultanze probatorie acquisite agli atti del giudizio, e senza provvedere all’ammissione di una doverosa perizia d’ufficio indispensabile al fine di dirimere gli insanabili contrasti interpretativi sul punto emersi rispetto alle prospettazioni esplicative e a quelle di indole tecnico-scientifica avanzate dalle difese, così come diffusamente e analiticamente riportate in ricorso.
6.4. Con il quarto motivo, la società ricorrente si duole della violazione di legge e del vizio di motivazione in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata, con particolare riguardo al travisamento della prova concernente la violazione del divieto della saldatura, nella specie rigorosamente imposto dalla società committente all’impresa appaltatrice.
Sotto altro profilo, la ricorrente ribadisce l’avvenuto pieno rispetto, da parte della stessa, dei propri doveri di scelta dell’impresa appaltatrice (in relazione alla sussistenza dei requisiti di capacità economica e di competenza tecnica) nonché di cooperazione per la gestione dei rischi interferenziali, con particolare riferimento alla determinazione delle modalità di realizzazione del sistema delle passarelle mediante la tecnica dell’imbullonatura, con la conseguente illogicità del riconoscimento della responsabilità dell’imputato (e, conseguentemente, della società responsabile civile), nella causazione dell’evento lesivo, in una misura pari a due terzi, del tutto sproporzionata rispetto al carattere determinante e largamente decisivo delle più gravi responsabilità riscontrabili nella condotta dell’impresa appaltatrice.
6.5. Con il quinto motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione, avendo la corte territoriale erroneamente omesso di rilevare il difetto di legittimazione dell’Inail, nonché del Ministero dell’ambiente e della Regione Umbria, a costituirsi parte civile, in forza delle medesime argomentazioni già in precedenza illustrate con riguardo al ricorso dell’imputato.
Da ultimo, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per aver omesso di estendere la riduzione delle somme riconosciute a titolo di provvisionale e di danno nei confronti di tutte le parti civili, compresi gli enti pubblici, atteso il concorso di colpa positivamente riconosciuto in capo al M.M..
6.6. Con un ultimo motivo, la società responsabile civile propone istanza per la sospensione dell’esecuzione delle condanne civili pronunciate a proprio carico, ai sensi dell’art. 612 c.p.p., in ragione della rilevante entità delle somme individuate e del concreto rischio d’impossibilità della relativa ripetizione, anche nei confronti dei soggetti già accertati quali corresponsabili dei danni.
7. Le parti civili M.S. e Y.M., a mezzo del medesimo difensore, propongono ricorso sulla di base di due autonomi (sebbene sostanzialmente sovrapponibili) atti d’impugnazione, articolati in sei motivi di censura.
7.1. Con il primo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione di legge, avendo la corte territoriale, in difformità sul punto dalla decisione del primo giudice, affermato la sussistenza del concorso di colpa di M.M. nella causazione dell’evento dannoso oggetto di giudizio, del tutto trascurando la decisiva circostanza costituita dalla grave omissione, ascrivibile al G.DP., circa l’informazione sui rischi specifici inerenti le lavorazioni affidate in appalto all’impresa del M.M., con particolare riguardo alla presenza di solventi (fonte di atmosfere esplosive) contenuti nel serbatoio sul quale l’appaltatore era stato chiamato a eseguire la propria opera.
Proprio la mancata consapevolezza, da parte dell’appaltatore, dei rischi specifici connessi al contenuto dei serbatoi, aveva indotto il M.M., senza alcuna obiezione da parte del committente (ed anzi nella piena consapevolezza di questo), a fare uso delle saldatrici nel corso delle lavorazioni destinate alla collocazione delle passerelle sui serbatoi aziendali della U.O..
Al riguardo, nessuna violazione dell’art. 250 d.p.r. n. 547/55 (là dove impone, tra gli altri, il divieto dell’uso di saldatrici su recipienti chiusi) avrebbe potuto ascriversi al M.M. (come viceversa erroneamente ritenuto dalla corte territoriale), attesa la limitata inerenza di detta norma (alla stregua di un’interpretazione sistematica del relativo testo) alle sole lavorazioni effettuate su recipienti contenenti sostanze pericolose e, pertanto, in corrispondenza di situazioni di fatto nella specie non riconoscibili, né adeguatamente prospettate alla consapevolezza dell’appaltatore, anche attraverso l’eventuale collocazione di segnaletiche o avvertenze in prossimità dei luoghi di lavoro, pur ammessa la qualificazione, alla stregua di “recipienti chiusi”, dei serbatoi de quibus dotati di sfiatatoio.
Del pari erronea, secondo la prospettazione dei ricorrenti, deve ritenersi l’interpretazione fornita dalla corte territoriale delle disposizioni di cui agli artt. 7 e 88-septies del d.lgs. n. 626/94 (in tema di cooperazione nella gestione dei rischi interferenziali), avendo i giudici d’appello trascurato la considerazione di tutte le implicazioni derivabili (con specifico riguardo alla posizione del M.M.) dalle gravi inadempienze dell’imputato in relazione ai propri doveri di coordinamento delle attività d’impresa e di individuazione delle misure di prevenzione e di protezione dei lavoratori dai rischi connessi all’esecuzione di attività lavorative in corrispondenza dei serbatoi della U.O. s.p.a..
7.2. Con il secondo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione di legge, avendo la corte territoriale erroneamente riconosciuto il concorso di colpa del M.M. nella causazione dell’evento dannoso oggetto di giudizio, in contrasto con gli stessi principi dettati dal codice civile in materia di attività pericolose (in assenza di alcun caso fortuito idoneo a escludere la responsabilità del danneggiante: art. 2050 cc), nonché in tema di concorso del fatto colposo del danneggiato (art. 1227 cc), di regola non invocabile laddove il danneggiato non abbia tempestivamente rimosso una situazione pericolosa creata dallo stesso danneggiante.
Nella specie, la dove l’imputato avesse tempestivamente trasferito all’impresa appaltatrice le dovute conoscenze sui rischi specifici esistenti all’interno dell’azienda del committente, il M.M. avrebbe certamente evitato di esporre se stesso e i propri lavoratori ai gravi rischi allo stesso celati, la cui pretesa insussistenza era stata per altro verso confermata dalla mancanza di alcuna reazione del committente all’uso coram populo delle saldatrici da parte degli operai dell’impresa appaltatrice, semmai valendo sul punto l’applicabilità della disciplina penalistica sull’errore dell’agente determinato dall’altrui inganno che, ai sensi dell’art. 48 c.p., rende l’autore mediato responsabile del fatto materialmente commesso dal soggetto ingannato.
7.3. Con il terzo motivo, le parti civili ricorrenti censurano la sentenza impugnata per vizio di motivazione, avendo la corte territoriale illogicamente ritenuto di ascrivere al M.M. la responsabilità del concorso nella causazione dell’evento dannoso oggetto di giudizio, dopo aver accertato inequivocabilmente:
1) l’omessa valutazione, da parte dell’imputato, dei gravi rischi connessi allo stoccaggio dell’olio di sansa grezza nei serbatoi aziendali; 2) la conseguente omessa informazione dell’appaltatore in ordine al ricorso di detti rischi, e 3) la mancata adozione delle necessarie misure di prevenzione funzionali alla preservazione della sicurezza dei lavoratori.
In particolare, i profili di contraddittorietà della decisione relativa al ritenuto concorso di colpa del M.M. emergerebbero con evidenza dal rilievo, fatto proprio dai giudici d’appello, secondo cui, laddove l’appaltatore fosse stato reso edotto dei rischi specifici esistenti in loco, si sarebbe certamente astenuto dal ricorso all’uso delle saldatrici; uso nella specie propiziato dalle gravi omissioni e inadempienze dell’imputato, da considerare, conseguentemente, quali uniche ed esclusive condizioni causalmente efficienti in relazione alla determinazione del fatto.
Sul punto, la corte territoriale avrebbe erroneamente trascurato un’adeguata valutazione del principio dell’affidamento, contraddittoriamente escludendo (dopo aver enumerato le forme delle gravi responsabilità del G.DP.) che il M.M. potesse legittimamente confidare nell’avvenuta valutazione, da parte dell’imputato, di tutti i rischi connessi all’esercizio di attività lavorative in ambito aziendale, con la conseguente erroneità dell’assunto, illogicamente sostenuto dalla corte territoriale, per cui il M.M. avrebbe agevolmente potuto riconoscere le prevedibili fonti di rischio connesse allo stoccaggio dell’olio di sansa nell’azienda della società committente.
Al riguardo, i ricorrenti si dolgono del travisamento della prova testimoniale in cui sarebbe incorsa la corte territoriale nell’interpretazione delle dichiarazioni rese dal teste C., là dove ha inequivocabilmente attestato la consuetudine, largamente invalsa nell’azienda dell’imputato, dell’uso di saldatrici, sui cui rischi non era mai stata sollevata obiezione di sorta.
7.4. Con il quarto motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione, per avere la corte territoriale erroneamente ritenuto sussistente un preteso nesso di causalità tra i profili di colpa ascritti alla condotta del M.M. e l’evento dannoso oggetto dell’odierno esame, avendo al riguardo trascurato come tale ultimo evento in nessun caso avrebbe potuto considerarsi la concretizzazione dei rischi cautelati dalle norme di colpa specifica asseritamente violate dall’appaltatore; violazioni nella specie individuate nel (colpevole) mancato riconoscimento del rischio generico connesso all’espletamento di lavori su un silos contenente oli vegetali, e non già del rischio specifico riguardante il pericolo di deflagrazione derivante dall’innesco di una miscela esplosiva dovuto alla presenza dell’esano.
7.5. Con il quinto motivo, i ricorrenti si dolgono della violazione di legge e del vizio di motivazione in cui sarebbe incorsa la corte territoriale nel pronunciare l’assoluzione del G.DP. (perché il fatto non costituisce reato) in relazione all’imputazione di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro.
Al riguardo, le parti civili evidenziano gli aspetti di erroneità, contraddittorietà e illogicità delle argomentazioni sul punto valorizzate dalla corte territoriale, avendo quest’ultima attribuito sul punto un’impropria rilevanza all’esclusione dell’aggravante della colpa cosciente relativamente al delitto di omicidio, trascurando la significativa circostanza che l’imputato non avesse mai concretamente provveduto a valutare e gestire i rischi specifici inerenti alla giacenza nei serbatoi aziendali di olio di sansa grezza, a dispetto della sicura concretezza del rischio di formazione di miscele esplosive, in tal senso non potendo l’imputato non rappresentarsi la situazione di pericolo esistente all’interno dei luoghi aziendali e, conseguentemente, non rispondere dell’imputazione sollevata nei relativi confronti anche nella prospettiva soggettiva del dolo.
7.6. Con il sesto e ultimo motivo, i ricorrenti si dolgono del vizio di motivazione e della violazione di legge in cui sarebbe incorsa la corte territoriale nel quantificare immotivatamente nella misura di un terzo l’entità del concorso di colpa riconosciuto in capo al M.M., e nel procedere erroneamente alla riduzione nella misura di un terzo anche dell’importo liquidato, a titolo di risarcimento del danno o di mera provvisionale, con riguardo ai pregiudizi vantati iure proprio (e non già iure successionis) dai prossimi congiunti del M.M..
8. Con memoria depositata in data 25/11/2014, il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, nel confutarne le argomentazioni, ha concluso per il rigetto del ricorso dell’imputato.
9. Con memoria di replica ex art. 611 c.p.p., depositata in data 14/5/2015, i difensori dell’imputato, nel confutarne le argomentazioni, hanno concluso per il rigetto del ricorso delle parti civili e per il contestuale accoglimento delle proprie impugnazioni.
10. Con memoria depositata in data 25/5/2015, l’Inail ha concluso per il rigetto delle impugnazioni proposte dall’imputato, con la conferma delle statuizione civili emesse in proprio favore dalla corte territoriale.
11. Con due distinti memorie depositate in data 27/5/2015, le parti civili, M.S. e Y.M., nel richiamare talune delle argomentazioni già illustrate con i ricorsi originariamente proposti, hanno concluso per il relativo accoglimento.
12. All’odierna udienza, le parti civili, Ministero dell’Ambiente, Regione Umbria, Comune di Campello sul Clitunno e Inail hanno concluso in conformità alle note scritte contestualmente depositate.

Diritto

13. Entrambi i ricorsi proposti nell’interesse dell’imputato G.DP. devono ritenersi privi di fondamento, ad eccezione delle questioni riguardanti l’intervenuta prescrizione dei reati d’incendio colposo e di lesioni personali colpose allo stesso contestati, con la conseguente necessaria rideterminazione del trattamento sanzionatorio.
Integralmente infondati, viceversa, devono ritenersi il ricorso proposto dal responsabile civile, G. s.r.l., e i ricorsi proposti dalle parti civili, M.S. e Y.M..
14. Devono essere preliminarmente disattesi i motivi d’impugnazione proposti dall’imputato e dal responsabile civile in relazione alla pretesa nullità processuale verificatasi (anche ai sensi degli artt. 24 e 111 della Costituzione e della Cedu) a seguito della mancata acquisizione, da parte del giudice per le indagini preliminari, all’udienza del 18/3/2009, della memoria offerta in produzione dalla difesa dell’imputato ai sensi dell’art. 121 c.p.p.
Sul punto – prima ancora del rilievo concernente la mancata tempestiva sollevazione, da parte del difensore dell’imputato, della corrispondente eccezione (in ragione della natura intermedia dell’eventuale nullità denunciata: cfr. Sez. 1, Sentenza n. 31245 del 07/07/2009, Rv. 244321) – dev’essere in ogni caso affermato il carattere dirimente (ai fini del rigetto della censura in esame) dell’argomentazione relativa alla mancata consumazione, nella specie, di alcun concreto vulnus delle prerogative defensionali dell’imputato, avendo avuto modo, il difensore del G.DP., di illustrare oralmente, alla medesima udienza, i contenuti della predetta memoria non acquisita, rimanendo del tutto irrilevante (sul piano della meritevolezza o dell’apprezzabilità in termini giuridici) il prospettabile interesse dell’imputato a presentare in una determinata forma (scritta, piuttosto che orale) i contenuti delle argomentazioni destinate a sostenere le proprie ragioni difensive.
Al riguardo, è appena il caso di richiamare la decisiva incidenza nell’occasione spiegata dalla norma di cui all’art. 183 c.p.p., secondo cui, salvo che sia diversamente stabilito, devono ritenersi in ogni caso sanate le nullità processuali eventualmente consumatesi nel corso del procedimento, là dove la parte si sia in concreto avvalsa della facoltà al cui esercizio l’atto omesso o nullo è preordinato (cfr. art. 183, lett. b), c.p.p.).
15. Parimenti privi di fondamento devono ritenersi tutti i motivi articolati dai difensori dell’imputato e dal responsabile civile in relazione alla ricostruzione del nesso di causalità tra le condotte omissive contestate all’imputato e tutti gli eventi lesivi allo stesso ascritti.
Sul punto, rilevano le censure critiche sollevate dalle difese in relazione alla corretta configurazione giuridica della posizione di garanzia dell’imputato, nonché i motivi d’impugnazione illustrati in relazione al preteso travisamento degli esiti dell’istruzione probatoria, ivi compresa la ritenuta pregiudiziale adesione della corte territoriale alle conclusioni raggiunte dai consulenti del pubblico ministero, rispetto alle contrastanti valutazioni tecniche della difesa.
Detto travisamento avrebbe in particolare investito l’errata sottovalutazione, da parte del giudice a quo, dell’ipotesi ricostruttiva alternativa sostenuta dalla difesa (incline ad accreditare la spiegazione causale della deflagrazione dell’incendio a seguito della lacerazione del serbatoio n. 95 da parte del gruista della ditta M.M.), con la conseguente consumazione di un chiaro e irriducibile vizio motivazionale della decisione impugnata, non adeguatamente scongiurato dalla rinnovazione dell’istruzione probatoria in sede d’appello, come puntualmente (benché inutilmente) invocato dalla difesa dell’imputato e del responsabile civile con particolare riguardo all’ammissione di una (decisiva) perizia d’ufficio.
16. Sui punti da ultimo indicati, osserva in primo luogo il collegio come la motivazione dettata dalla corte territoriale a sostegno del rigetto dell’istanza di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, e in particolare dell’ammissione di una perizia d’ufficio, debba ritenersi del tutto immune da vizi d’indole logica o giuridica, correttamente elaborata e, pertanto, idonea a sottrarsi integralmente alle censure sollevate dall’imputato.
In termini generali, varrà sottolineare come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, nel giudizio d’appello, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, prevista dall’art. 603, co. 1, c.p.p., è subordinata alla verifica dell’incompletezza dell’indagine dibattimentale e alla conseguente constatazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria; tale accertamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, che deve ritenersi incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata (cfr., da ultimo, Sez. 6, Sentenza n. 8936 del 13/01/2015, Rv. 262620).
Nel caso di specie, la corte territoriale ha espressamente evidenziato l’insussistenza di alcuna necessità di procedere alla rinnovazione del dibattimento, così come di disporre una perizia d’ufficio con eventuale funzione di ‘arbitraggio’ tra le contrastanti prospettazioni tecniche dell’accusa pubblica e della difesa, ben potendo pervenire alla decisione di merito, dirimendo le questioni controverse sulla base del complesso degli elementi di prova acquisiti e di quanto dagli stessi direttamente o logicamente rappresentato.
Si tratta di argomentazioni dotate di coerente linearità – idonee a dar conto in modo logico della superfluità degli incombenti istruttori invocati dalle difese -che le censure degli odierni ricorrenti non valgono a compromettere.
Peraltro, del tutto correttamente il giudice d’appello ha escluso la decisività dell’ammissione della perizia invocata dalle difese, richiamando l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui deve ritenersi ‘prova decisiva’, ai sensi dell’art. 606 lett. d) c.p.p., quella sola prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia (Cass., Sez. 2, n. 16354/2006, Rv. 234752; Cass., Sez. 6, n. 14916/2010, Rv. 246667), ovvero quella prova che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (Cass., Sez. 3, n. 27581/2010, Rv. 248105).
Con particolare riguardo al procedimento peritale, questa stessa corte di legittimità ha ripetutamente statuito il principio, consolidatosi nel tempo, in forza del quale la perizia non può farsi rientrare nel concetto di ‘prova decisiva’, giacché la sua disposizione, da parte del giudice, in quanto legata alla manifestazione di un giudizio di fatto, ove assistito da adeguata motivazione, è insindacabile ai sensi dell’articolo 606, lett. d) c.p.p. (v. Cass., Sez. 5, n. 12027/1999, Rv. 214873 e successive conformi fino a Sez. 4, Sentenza n. 7444 del 17/01/2013, Rv. 255152).
17. Quanto alle censure sollevare dalle difese dell’imputato e del responsabile civile, in ordine alle forme del dinamismo causale ch’ebbe a condurre alla verificazione del grave evento lesivo oggetto di giudizio, osserva il collegio come, attraverso ciascuna delle doglianze avanzate con le odierne impugnazioni, i ricorrenti abbiano circoscritto il proprio discorso critico sulla sentenza impugnata a una discordante lettura delle risultanze istruttorie acquisite nel corso del giudizio, in difformità rispetto alla complessiva ricostruzione operata dai giudici di merito, limitandosi a dedurre i soli elementi astrattamente idonei a supportare la propria alternativa rappresentazione del fatto (peraltro, in modo solo parziale, selettivo e non decisivo), senza farsi carico della complessiva riconfigurazione dell’intera vicenda sottoposta a giudizio, sulla base di tutti gli elementi istruttori raccolti, che, viceversa, la corte d’appello ha ricostruito con adeguata coerenza logica e linearità argomentativa.
Sul punto, è appena il caso di richiamare il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale la modificazione dell’art. 606 lett. c) c.p.p., introdotta dalla legge n. 46/2006 consente la deduzione del vizio del travisamento della prova là dove si contesti l’introduzione, nella motivazione, di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, ovvero si ometta la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia. Il sindacato della corte di cassazione resta tuttavia quello di sola legittimità, sì che continua a esulare dai poteri della stessa quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione anche laddove venga prospettata dal ricorrente una diversa e (secondo il proprio giudizio) più adeguata valutazione delle risultanze processuali (v., ex multis, Cass., Sez. 2, n. 23419/2007, Rv. 236893).
Da ciò consegue che gli “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame” menzionati dal testo vigente dell’art. 606, comma primo, lett. e), c.p.p., non possono che essere quelli concernenti fatti decisivi che, se convenientemente valutati anche in relazione all’intero contesto probatorio, avrebbero potuto determinare una soluzione diversa da quella adottata, rimanendo esclusa la possibilità che la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione si tramuti in una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito (Cass., Sez. 4, n. 35683/2007, Rv. 237652).
Sotto altro profilo, con riguardo alla valutazione e all’interpretazione delle risultanze testimoniali valorizzate dai giudici del merito – di cui i ricorrenti hanno in questa sede contestato il corretto compimento -, osserva il collegio come secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, ai fini della correttezza e della logicità della motivazione della sentenza, non occorre che il giudice di merito dia conto, in essa, della valutazione di ogni deposizione assunta e di ogni prova, come di altre possibili ricostruzioni dei fatti che possano condurre a eventuali soluzioni diverse da quella adottata, egualmente fornite di coerenza logica, ma è indispensabile che egli indichi le fonti di prova di cui ha tenuto conto ai fini del suo convincimento, e quindi della decisione, ricostruendo il fatto in modo plausibile con ragionamento logico e argomentato (cfr. Cass., Sez. 1, n. 1685/1998, Rv. 210560; Cass., Sez. 6, n. 11984/1997, Rv. 209490), sempre che non emergano elementi obiettivi idonei a giustificare il ricorso di un ragionevole dubbio sulla responsabilità dell’imputato: evenienza, quest’ultima, risolutamente esclusa da entrambi i giudici del merito, sulla base di una motivazione coerente e congruamente argomentata.
Tale principio, in particolare, appare coerente con il circoscritto orizzonte riservato all’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata.
Conviene sul punto insistere nel rilevare l’estraneità, alle prerogative del giudice di legittimità, del potere di procedere a una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (v. Cass., Sez. Un., n. 6402/1997, Rv. 207944, ed altre di conferma).
In altri termini, una volta accertata la coerenza logica delle argomentazioni seguite dal giudice di merito, non è consentito alla Corte di cassazione prendere in considerazione, sub specie di vizio motivazionale, la diversa valutazione delle risultanze processuali prospettata dal ricorrente secondo il proprio soggettivo punto di vista (Cass., Sez. 1, n. 6383/1997, Rv. 209787; Cass., Sez. 1, n. 1083/1998, Rv. 210019).
Quanto alle doglianze avanzate dai ricorrenti in ordine alla pretesa inattendibilità scientifica della ricostruzione delle cause dell’incendio fatta propria dai giudici d’appello, osserva il collegio, in conformità al consolidato insegnamento di questa corte di legittimità, come, in tema di prova, in virtù del principio del libero convincimento, il giudice di merito può scegliere, tra le diverse tesi prospettate dai consulenti delle parti, quella che ritiene condivisibile, purché dia motivatamente conto delle ragioni della scelta, nonché del contenuto della tesi disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti (Cass., Sez. 4, n. 34747/2012, Rv. 253512; Cass., Sez. 4, n. 45126/2008, Rv. 241907; Cass., Sez. 4, n. 11235/1997, Rv. 209675), come puntualmente e scrupolosamente avvenuto nel caso di specie.
Peraltro, l’esigenza di fornire una congrua motivazione del rigetto delle tesi e delle deduzioni contrarie a quelle condivise, può ritenersi adeguatamente soddisfatta dal giudice anche attraverso l’esame complessivo delle ragioni giustificative della decisione, allorché le articolazioni dello sviluppo argomentativo della sentenza appaiano tali da lasciar ritenere implicitamente superate le deduzioni disattese, per la logica incompatibilità delle stesse con l’obiettiva ricostruzione dei fatti operata dal giudice sulla base delle fonti probatorie richiamate e della coerente connessione delle stesse da parte del consulente richiamato.
In breve – e per concludere sul punto – il canone del giudizio di condanna rappresentato dal superamento del ragionevole dubbio (secondo la regola codificata dall’art. 533 c.p.p.) non può essere utilizzato, nel giudizio di legittimità, per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto emerse in sede di merito su segnalazione della difesa, là dove tale duplicità sia stata oggetto di puntuale e motivata disamina da parte del giudice di appello. La plausibilità della ricostruzione difensiva, infatti, per essere ragionevole e legittimare il dubbio assolutorio dev’essere ancorata al rigoroso valore rappresentativo delle risultanze processuali, assunte nella loro oggettiva consistenza, e non può risolversi nella reinterpretazione critica degli esiti probatori in chiave funzionale alla conferma di una diversa proposta ermeneutica; la fonte del ragionevole dubbio, infatti, non può che essere quella oggettivamente scaturente dal compendio probatorio acquisito nel processo, ovvero dalle lacune istruttorie non colmate su aspetti rilevanti del fatto da giudicare; essa non consiste, quindi, in un’operazione meramente ermeneutica delle risultanze processuali, in contrasto con la soluzione interpretativa motivatamente adottata dal giudice nel confermare l’ipotesi accusatoria espressa nel capo di imputazione (cfr. sul punto, Sez. 1, Sentenza n. 53512 del 11/07/2014, Rv. 261600).
18. Fermi i principi di diritto sin qui richiamati, osserva il collegio come, nel caso di specie, la corte territoriale abbia ricostruito, le scansioni del decorso causale ch’ebbe a provocare l’incendio oggetto d’esame, sulla base di un discorso giustificativo dotato di adeguata coerenza logica e congruità argomentativa, elaborandone i passaggi in piena fedeltà al significato rappresentativo di tutti gli elementi probatori complessivamente acquisiti al giudizio.
E invero, i giudici d’appello, dopo aver sottolineato le evidenze attestanti l’esplosione del serbatoio n. 95 (comprovata dall’obiettiva visione dei filmati registrati dalle telecamere di videosorveglianza, dal boato udito dai testi in occasione del sinistro, dall’ascesa del serbatoio per circa una decina di metri, nonché dall’immediato sviluppo delle fiamme), ha di seguito dato conto degli elementi di prova in forza dei quali è stata raggiunta la dimostrazione che, al momento della deflagrazione, sul serbatoio n. 95 erano in corso operazioni di saldatura.
Al riguardo, la corte territoriale ha sottolineato la situazione di urgenza che, al novembre del 2006 (epoca del fatto), si era venuta a creare al fine di provvedere alla realizzazione del sistema delle passerelle sui serbatoi aziendali, essendo ormai prossima la scadenza del 31 dicembre 2006 imposta, dall’Agenzia delle Dogane, al fine di regolarizzare le modalità dei accesso ai contenuti del deposito doganale gestito dall’U.O..
Prima ancora dell’installazione delle passerelle sul serbatoio n. 95 (prevista per la data del 25/11/2006), erano state già realizzate quelle corrispondenti ad altri serbatoi posti all’esterno dei locali aziendali che, secondo la diretta constatazione dello stato dei luoghi (rappresentato anche dalle fotografie acquisite agli atti, scattate dopo il sinistro), erano state installate previa saldatura sul tetto dei serbatoi di almeno due staffe ad L, alle quali sarebbe dovuta poi essere imbullonata la passarella.
La tecnica di installazione prevedeva che la passarella (a sua volta risultante dall’assemblaggio di tre tronconi), dovesse essere tenuta sollevata sopra i serbatoi dal braccio della gru manovrata da K.D., in attesa della saldatura delle staffe e della successiva imbullonatura a queste della passarella (circostanze emerse dalle dirette rilevazione dei consulenti, dalle dichiarazioni dei testi oculari, nonché confermate dallo K.D. incaricato di manovrare la gru).
Di seguito, la corte territoriale ha evidenziato come la tecnica della saldatura sopra il tetto dei serbatoi fosse stata ripetutamente eseguita in quei giorni, come attestato dal recupero, sul tetto del serbatoio n. 94 (prossimo a quello n. 95) della staffa saldata proprio quella mattina, risultata talmente adesa al serbatoio da non essersi staccata nonostante la violentissima esplosione e il successivo volo.
Sullo stesso tetto del serbatoio n. 95, esploso per primo, fu rinvenuto in sede di sopralluogo un cordone di saldatura indicante un’analoga operazione in corso (sebbene non ancora completata): rilievo suffragato dalla circostanza che la squadra dei tecnici operativi sul serbatoio n. 95 aveva portato con sé sopra il serbatoio due staffe che, al momento dell’esplosione, non erano ancora state saldate.
Il diretto e immediato rapporto tra la realizzazione della saldatura e l’esplosione del serbatoio è stato inoltre confermato dall’eloquente circostanza che il cadavere dell’operaio T.M. (proprio quello incaricato delle saldature, secondo il racconto del teste K.D.) era stato rinvenuto, a seguito del fatto, avvolto dal cavo della saldatrice (a sua volta rinvenuta in terra tra i serbatoi nn. 96 e 100) con la pinza portaelettrodo in una mano; occorrenza a sua volta coerente con il mancato riscontro, nei campioni biologici dei cadaveri delle vittime, di carbossiemoglobina, a dimostrazione che gli operai caduti non avevano avuto alcuna attività respiratoria dopo l’esplosione, per l’inusitata repentinità dell’evento.
Sul punto, con motivazione del tutto immune da vizi d’indole logica o giuridica, la corte territoriale ha evidenziato come le riprese delle videocamere della sorveglianza invocate dalla difesa dell’imputato non conducessero in alcun modo a sostenere la tesi dell’assenza di alcuna operazione di saldatura sul serbatoio n. 95, attesa l’estraneità di quest’ultimo al campo visivo delle videocamere e la ridotta capacità di queste di assicurare una fedele e precisa registrazione dei luoghi d’interesse, in ragione del relativo posizionamento.
Quanto all’alternativa spiegazione causale degli eventi sostenuta dalla difesa dell’imputato (circa il preteso innesco dell’incendio a seguito del sollevamento del serbatoio n. 95 per effetto di un’improvvida manovra del gruista), la corte territoriale ne ha evidenziato, in modo coerente e congruamente argomentato, il carattere meramente congetturale, attesa, da un lato, l’assoluta implausibilità della circostanza che lo stesso gruista avesse potuto prolungare la propria erronea manovra di sollevamento per circa 50 secondi (come sostenuto dalle difese) senza alcuna reazione dei colleghi, e avuto riguardo, dall’altro, alla circostanza che la passarella sostenuta dal gruista non era stata affatto solidarizzata al tetto del serbatoio, non essendo emerso alcun indice istruttorio idoneo a confermare l’esistenza di punti in corrispondenza dei quali avrebbe potuto realizzarsi una qualche imbragatura della passarella o stabilirsi un qualche collegamento saldo e affidabile, tale da reggere a una prolungata azione di trazione e capace di determinare lo sradicamento del serbatoio alla base.
Anche in relazione alla mancata conferma di tale prospettazione alternativa, del tutto coerentemente (e in forza di plausibili scansioni argomentative) la corte territoriale ha giudicato irrilevanti i resoconti filmati della videosorveglianza, attesa la perfetta compatibilità tra le risultanze di detti filmati e la spiegazione causale dell’esplosione a seguito della saldatura, secondo la tesi fornita dai consulenti del pubblico ministero.
Ciò posto, una volta comprovata l’azione di saldatura sopra il serbatoio n. 95 – ed esclusa la ragionevole plausibilità di qualsivoglia decorso causale alternativo -, la corte territoriale ha coerentemente dato conto dell’inveramento, nel caso di specie, della legge scientifica richiamata a copertura della produzione del fenomeno esplosivo così minuziosamente ricostruito: fenomeno propriamente provocato dall’innesco, per effetto della saldatura, della miscela di aria ed esano formatasi sopra la superficie dell’olio di sansa grezza contenuto nel citato serbatoio.
Sul punto, il giudice a quo ha diligentemente valorizzato gli elementi di prova in forza dei quali doveva ritenersi certamente contenuta, nell’olio di sansa grezza conservato all’interno del serbatoio n. 95, una quantità di esano sufficiente alla creazione della ridetta miscela potenzialmente esplosiva, come confermato dalle analisi condotte dal laboratorio chimico della Camera di Commercio di Torino sui campioni di olio prelevati dopo il sinistro presso U.O., nonché presso altre ditte alle quali U.O. inviava olio di sansa grezza per la lavorazione (tra l’altro Adria Olii e PA.OIL): campioni di olio adeguatamente rappresentativi dei contenuti dei serbatoi, come confermato dalle deposizioni sul punto rese dai testi escussi (cfr. pagG. 117 s. della sentenza impugnata).
Anche in relazione alle caratteristiche di infiammabilità dell’esano, la corte territoriale, dopo aver correttamente evidenziato come le stesse dovessero essere determinate per via sperimentale (ossia con immediato riferimento ai materiali concretamente oggetto d’esame), ha dato conto dei valori nella specie rinvenuti, ritenendo confermata (sulla base di un ragionamento probatorio congruamente argomentato) la circostanza della presenza presso U.O., il giorno 24 novembre, di olio di sansa grezza con flash point (limite di infiammabilità) di appena 29 gradi (cfr. pagG. 121-126): un dato propriamente riguardante il contenuto del serbatoio n. 95, come comprovato dalle risultanze delle bolle acquisite, valutate congiuntamente alla verifica (consentita dalle riprese delle telecamere di sicurezza) delle autobotti in arrivo e in partenza nei giorni immediatamente precedenti quello del sinistro, e con la decifrazione del sistema computerizzato Visual VEGA, utilizzato presso U.O. per tenere sotto controllo il contenuto dei singoli serbatoi, o comunque di gran parte dei serbatoi, compreso quello numero 95.
Muovendo da tali premesse, la corte territoriale ha quindi provveduto a calcolare le temperature verosimilmente presenti in corrispondenza del serbatoio n. 95 alla data del 25 novembre 2006, giungendo a stabilire, sulla base di un percorso argomentativo logico e largamente plausibile, che all’interno del ridetto serbatoio, alla data indicata, in ragione della temperatura esterna (oltre che della formazione di vapore e delle bolle d’aria createsi per l’insufflaggio delle pompe), si erano create condizioni particolarmente propizie al formarsi di una miscela esplosiva sopra la superficie del liquido, caratterizzata dall’indicato (relativamente basso) limite di infiammabilità.
Sulla scorta di tali dati, la corte territoriale ha quindi evidenziato i dati offerti del lavoro sperimentale dei consulenti tecnici, tenendo conto della colorazione della macchia formatasi nella parte sottostante il tetto del serbatoio, in corrispondenza della saldatura (macchia dello stesso tipo, benché più piccola, della corrispondente macchia prodotta dalla saldatura della staffa sul serbatoio n. 94), pervenendo (dopo aver puntualmente e approfonditamente considerato l’implausibilità di ciascuna delle tesi sostenute dalla difesa) alla dimostrazione secondo cui alla macchia rinvenuta sul tetto del serbatoio n. 95 corrispondesse, al momento della saldatura, una temperatura non inferiore ai 700/750 gradi, di per sé sufficiente a indurre – come nella specie puntualmente avvenuto -l’esplosione della sottostante miscela infiammabile.
Ciascuno dei passaggi argomentativi sin qui concisamente richiamati, in relazione alla ricostruzione del decorso causale ch’ebbe a provocare l’evento lesivo oggetto di giudizio, deve dunque riconoscersi dotato di assoluto rigore logico e di coerente linearità. La motivazione in tal senso elaborata dalla corte territoriale, costantemente fedele alle risultanze istruttorie di volta in volta richiamate, vale in tal senso a imporsi alle contrastanti tesi sostenute dalla difesa dell’imputato; tesi che i giudici d’appello hanno puntualmente e analiticamente esaminato, evidenziandone gli aspetti d’indole meramente congetturale, così pervenendo alla dimostrazione della relativa assoluta implausibilità.
I motivi d’impugnazione riferiti a ciascuno di tali punti devono, conseguentemente, ritenersi del tutto privi di fondamento.
19. Parimenti infondate devono ritenersi le censure sollevate dall’imputato e dal responsabile civile in relazione alla riconduzione dell’evento lesivo alla responsabilità causale del G.DP. e al fatto colposo di questi; così come prive di alcun fondamento risultano le doglianze avanzate dalle parti civili in relazione all’accertamento del concorso del fatto colposo del M.M..
Sul tema della responsabilità dell’imputato, la corte territoriale ha preliminarmente evidenziato come, nel novembre del 2006, secondo quanto emerso dalle risultanze istruttorie richiamate in motivazione, il M.M. (già investito dall’imputato per la realizzazione dell’opera in esame, in forza di un rapporto contrattuale di appalto) avesse avviato i lavori di realizzazione delle passarelle “alla luce del sole”, ossia coram populo all’interno dell’area aziendale di pertinenza dell’U.O., utilizzando strumenti che dovevano essere collegati all’impianto elettrico di pertinenza della stessa impresa committente; strumenti tra i quali era compresa la saldatrice, nella specie caratterizzata da un lungo filo che pendeva dal serbatoio alla vista di tutti.
Le attività di realizzazione delle passarelle mediante la tecnica della saldatura erano state già completate in relazione a taluni serbatoi, prima di procedere alle lavorazioni sul serbatoio n. 95, senza che nessuno avesse avuto nulla da ridire e, segnatamente, il dipendente della committente U.O., tale St., incaricato delle funzioni di responsabile del reparto.
Sul punto, la corte territoriale ha espressamente rimarcato come, nonostante la presenza, all’interno dell’area di U.O., di eloquenti cartelli che ammonivano circa il divieto di fumare e di usare fiamme libere, lo St. non avesse ritenuto opportuno chiedere chiarimenti circa l’utilizzo della saldatrice sui serbatoi dell’olio (circostanza a lui perfettamente nota, come emerso dagli elementi probatori puntualmente richiamati in sentenza), piuttosto dandosi da fare affinché i lavoratori operativi sopra i serbatoi potessero collegare le proprie attrezzature (ivi compresa la saldatrice) al quadro elettrico posto all’interno dell’area aziendale dell’impresa committente.
Peraltro, proprio al fine di dar conto della palese indulgenza mostrata dagli esponenti dell’impresa committente, rispetto alla pericolosa tecnica di lavorazione mediante saldatura utilizzata dalla ditta del M.M., la corte territoriale ha significativamente richiamato, sulla base di un coerente e corroborato percorso argomentativo, i passaggi relativi all’ideazione e alla successiva realizzazione (da ultimo nel novembre del 2006) del sistema delle passarelle sui serbatoi dell’U.O.: una fase particolarmente dibattuta e protratta nel tempo, fino al punto di costringere l’impresa appaltatrice a provvedere nel giro di poche settimane (entro la scadenza del dicembre del 2006) alla realizzazione di quanto previsto mediante il ricorso alla via più breve: ossia mediante la tecnica implicante la possibilità di realizzare le passarelle attraverso la diretta saldatura delle stesse sopra i serbatoi.
Poste tali premesse in fatto, la corte territoriale ha quindi correttamente proceduto a definire i tratti della specifica posizione di garanzia dell’imputato, provvedendo alla ricognizione degli indici normativi comportanti l’impegno del datore di lavoro committente di adempiere al generale obbligo di sicurezza sullo stesso incombente in ordine all’analisi dei rischi indotti dalle lavorazioni affidate in appalto e alla relativa gestione, nella specie consistente nella previsione (e nella cooperazione alla successiva attuazione) delle misure idonee ad eliminarli o a prevenirli.
Sul punto, del tutto ineccepibili devono ritenersi i richiami, contenuti nella sentenza impugnata, all’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, nel caso di prestazione lavorativa in esecuzione di un contratto d’appalto, il committente è costituito come corresponsabile con l’appaltatore per le violazioni delle misure prevenzionali e protettive sulla base degli obblighi sullo stesso incombenti ex art. 7 D.Lgs. n. 626 del 1994 (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 1825 del 04/11/2008, Rv. 242345).
Con riguardo a tali ipotesi, la responsabilità del committente (pur rimanendo legata agli eventi causalmente collegati alle proprie omissioni colpose, specificamente determinate dalle legge, che risultino imputabili alla sfera di controllo dello stesso committente: v. Sez. 4, Sentenza n. 6784 del 23/01/2014, Rv. 259286) chiede d’essere commisurata all’esatto adempimento degli obblighi d’informazione (da garantire all’appaltatore) riguardanti i rischi propri dell’ambiente di lavoro e di cooperazione all’apprestamento delle misure di protezione e prevenzione (Sez. 3, Sentenza n. 6884 del 18/11/2008, Rv. 242735), con la conseguenza che l’eventuale responsabilità ascrivibile all’appaltatore non esclude quella del committente, chiamato in ogni caso a rispondere dell’evento lesivo qualora questo sia causalmente ricollegabile a una sua omissione colposa (Sez. 4, Sentenza n. 37840 del 01/07/2009, Rv. 245275).
Muovendo da tale ultime considerazioni, del tutto coerentemente la corte territoriale ha dato conto del plateale inadempimento, da parte dell’imputato (quale responsabile della società committente), degli obblighi di valutazione e di analisi degli specifici rischi indotti dalla giacenza di olio di sansa grezza nei serbatoi aziendali, non essendo stato reperito alcun documento dal quale potesse desumersi l’avvenuta valutazione dell’eventuale presenza di esano nell’olio di sansa grezza (quanto meno prevedibile in forme di tracce o residui più o meno rilevanti sul piano quantitativo, avendo i giudici di merito specificamente accertato come la presenza dell’esano nell’olio di sansa grezza fosse a tutti nota e unanimemente confermata: cfr. paG. 155 della sentenza d’appello), ovvero l’avvenuta adozione delle misure di prevenzione necessarie al fine di scongiurare il rischio della formazione e della deflagrazione di miscele esplosive nei serbatoi contenenti olio di sansa.
Conseguentemente, proprio l’imprudente omessa valutazione dei rischi a monte del processo produttivo ha comportato la successiva palese omissione dell’obbligo informativo nei confronti della ditta appaltatrice, a nulla valendo l’eventuale generica consapevolezza, da parte del M.M., della pericolosità dell’uso di fiamme libere all’interno dell’area aziendale (vietate mediante l’apposizione di cartelloni), ovvero della pericolosità del ricorso alla tecnica della saldatura sui serbatoi aziendali, dovendo l’obbligo informativo del committente estendersi alla dettagliata e compiuta analisi dei rischi specifici inerenti le lavorazioni conferite in appalto, ossia a tutte quelle situazioni e insidie che, dipendendo proprio dal luogo di lavoro e dalla natura dei materiali esistenti, devono essere poste a conoscenza dell’appaltatore affinché questi possa regolarsi di conseguenza.
Del tutto opportunamente, d’altro canto, la corte territoriale ha evidenziato come, in relazione all’esistenza dei rischi concretamente oggetto d’esame, il committente non avrebbe mai potuto disgiungere le proprie responsabilità da quelli gravanti sull’appaltatore, trattandosi nella specie di rischi immanenti al deposito di olio di sansa grezza, comportante pericoli incombenti, non solo sui lavoratori della ditta appaltatrice, ma più in generale su tutte le persone presenti nell’area aziendale e nelle sue immediate vicinanze, stanti le intuibili conseguenze (tutte purtroppo verificatesi) di un’esplosione del serbatoio e di un conseguente incendio.
Alla grave omissione concernente la trasmissione, nei confronti dell’appaltatore, delle informazioni concernenti i rischi propri dell’ambiente di lavoro, si è inoltre associata l’omissione riguardante la collaborazione nell’apprestamento delle misure di protezione e di prevenzione a tal fine necessari, avendo anzi la corte territoriale eloquentemente sottolineato come la realizzazione, da parte della ditta M.M., del sistema delle passerelle attraverso l’utilizzo di modalità inidonee e pericolose, fosse stata già pienamente accettata dalla committenza, che non ebbe a muovere alcun rilievo di sorta rispetto alla saldatura delle passerelle già così compiutamente realizzate “alla luce del sole”.
Ciò posto, sulla base di linee argomentative pienamente coerenti e logicamente inappuntabili, i giudici d’appello hanno scandito i diversi passaggi del giudizio controfattuale relativo al nesso di causalità tra le omissioni dell’imputato e l’evento lesivo in concreto verificatosi, sottolineando come, là dove l’imputato avesse concertato modalità operative e predisposto misure prevenzionali idonee – successivamente esercitando il dovuto controllo a fronte del plateale utilizzo di strumenti pericolosi – il sinistro sarebbe stato certamente scongiurato, dovendo ritenersi che in concreto fu proprio l’utilizzo di una saldatrice a determinare l’innesco della miscela esplosiva formatasi all’interno del serbatoio n. 95, propiziata anche dalla mitezza della temperatura in loco.
Allo stesso modo, del tutto correttamente la corte territoriale ha evidenziato come, nel caso in cui il M.M. fosse stato reso consapevole della natura e della consistenza effettiva dei rischi specifici esistenti, lo stesso si sarebbe ben guardato dal far ricorso all’uso di saldatrici o comunque dall’operare con quelle modalità, essendo impensabile che potesse altrimenti esporre se stesso e gli altri suoi dipendenti ad un pericolo mortale a quel punto talmente elevato.
Proprio con riguardo alla valutazione della rilevanza causale delle condotte omissive contestate al G.DP. (nella specie revocata in dubbio dall’imputato, sul presupposto della prevedibilità della condotta imprudente che sarebbe stata seguita in ogni caso dal M.M., quand’anche tempestivamente allertato), osserva il collegio come, con riguardo al tema dedotto (riconducibile al quadro teorico della cd. causalità della colpa), valga richiamare i principi generalmente condivisi, tanto nella giurisprudenza pratica quanto nella riflessione della letteratura giuridica, in tema di colpa cd. ‘relazionale’, ossia là dove la ricostruzione del comportamento alternativo lecito sia condotta (non già in un contesto monosoggettivo, bensì) nella prospettiva dell’interazione (e dunque della ‘relazione’) tra due o più soggetti.
Le esemplificazioni di scuola alludono, al riguardo, a tutte quelle situazioni in cui il comportamento alternativo lecito avrebbe dovuto tradursi nella sollecitazione, nella segnalazione o, comunque, nel coinvolgimento di ulteriori soggetti, che a loro volta avrebbero dovuto attivarsi, in base a doveri “divisi” o “comuni” (quindi operando in via autonoma ovvero interagendo con altri) secondo le prescrizioni di ulteriori regole cautelari (si pensi alla cooperazione colposa, al concorso di cause colpose indipendenti, alla delega di funzioni, al principio di affidamento e ai relativi limiti nei settori della circolazione stradale, dell’attività medico-chirurgica in équipe, etc).
In tali casi, l’ipotetico comportamento alternativo lecito non incide (per definizione) in maniera diretta su fattori biologici, meccanici, o comunque naturali (innescando immediatamente – sia pure in via congetturale – un decorso causale strido sensu inteso, diverso da quello realmente verificatosi), proiettandosi in una duplice dinamica ipotetica, destinata a tener conto, sia delle (ipotetiche) reazioni comportamentali dei soggetti che avrebbero dovuto interagire, sia degli (ipotetici) effetti concreti delle condotte che quei medesimi soggetti avrebbero dovuto realizzare.
In tali casi, l’ascrizione normativa dell’evento colposo, in quanto concretamente evitabile, non poggerà sulla prospettazione ipotetica di decorsi causali governati da leggi scientifiche (nessuna legge scientifica potendo spiegare come si sarebbero comportati altri soggetti, chiamati ad interagire nel caso concreto), bensì assumendo che il soggetto che sarebbe stato attivato dal comportamento alternativo lecito avrebbe agito correttamente.
Tale valutazione dovrà quindi essere condotta secondo parametri standardizzati (e quindi evocando più l’agente “modello”, che l’agente “in carne ed ossa” destinato in ipotesi controfattuale a fornire il proprio apporto), con la conseguente sostanziale irrilevanza del possibile dubbio (in questa sede infondatamente prospettato) circa l’inutilità o addirittura la dannosità in concreto del (negligente) apporto altrui (su tali punti v., di recente, Sez. 4, Sentenza n. 31244 del 2 luglio 2015, Meschiari).
Sotto altro profilo, del tutto opportunamente la corte d’appello di Perugia ha evidenziato come, pur avendo il M.M. imprudentemente (o negligentemente) trascurato di adempiere ai propri obblighi di accertamento e di analisi dei rischi indotti dalle lavorazioni accettate in appalto, la causazione dell’evento lesivo dovesse comunque in ogni caso ricollegarsi (anche) alle descritte omissioni dell’imputato committente, da un lato perché l’imprudente condotta del M.M. non potè in nessun caso considerarsi arbitraria, abnorme o imprevedibile (avendo l’appaltatore protratto l’attività di saldatura per giorni alla luce del sole senza alcun rilievo della committenza, pur se in violazione dell’ipotetico espresso divieto di quest’ultima) e, dall’altro, essendo l’imputato a sua volta inadempiente in relazione all’adozione delle misure prevenzionali da attuare, non solo a tutela dei lavoratori della ditta appaltatrice, bensì al fine di garantire la sicurezza degli stessi lavoratori della propria azienda.
Del tutto puntuali, infine, devono ritenersi le considerazioni svolte dalla corte territoriale in relazione al coefficiente psicologico dell’imputato (id est della componente più propriamente soggettiva della colpevolezza) in ordine alla causazione del sinistro, avendo i giudici d’appello dato conto della comprovata consapevolezza, da parte del G.DP., della presenza di esano all’interno dell’olio di sansa grezza: consapevolezza non estesa alla natura dei rischi connessi a quella presenza, essendo peraltro emerso come presso U.O. non venissero effettuate analisi volte ad accertare i quantitativi di esano eventualmente presenti nell’olio conservato, confidandosi sulla presenza, nell’olio conservato, di soli residui inidonei a determinare particolari rischi.
Orbene, proprio la consapevolezza della fisiologica presenza di residui di esano nell’olio di sansa grezza avrebbe dovuto indurre l’imputato a valutare la possibilità che i quantitativi di olio fossero di volta in volta qualitativamente diversi (ossia combinati con quantità di esano volta a volta diverse), come reso possibile da una non sempre identica e affidabile metodica di estrazione dell’olio, tanto più in ragione della provenienza dell’olio da ditte straniere utilizzanti tecnologie non conosciute.
Sul punto, la corte territoriale ha correttamente affermato come l’effettuazione di mirate analisi e l’utilizzazione di appropriati accorgimenti avrebbe potuto prevenire il rischio di immissione nei serbatoi di olio con basso punto di infiammabilità in relazione alla quantità di esano in esso presente, sottolineando come, operando alla stregua di un parametro di agente-modello ragionevolmente configurabile (intento ad acquisire il massimo di informazioni in ordine al tipo di materiale trattato e ad ispirarsi al criterio della migliore prevenzione attuabile), l’imputato avrebbe dovuto valutare il rischio presente nel deposito, monitorando l’olio di sansa e, conseguentemente, elaborando una strategia di prevenzione, pervenendo da ultimo ad informare l’appaltatore dell’esistenza del rischio e delle misure da adottare al fine di prevenirlo.
Al riguardo, è appena il caso di evidenziare come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, il datore di lavoro è tenuto a ispirare la propria condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza. L’art. 2087 cod. civ., infatti, nell’affermare che l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa misure che, secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, sollecita obbligatoriamente il datore di lavoro ad aprirsi alle nuove acquisizioni tecnologiche (cfr. Sez. 4, Sentenza n. 7402 del 26/04/2000, Rv. 216476).
Nel quadro di tale discorso, la corte territoriale ha opportunamente sottolineato come U.O. non avesse mai apprestato alcun meccanismo di prevenzione circa i rischi di incendio, non essendo stato indicato alcun pericolo di incendio in relazione all’esano disciolto nell’olio di sansa contenuto nei serbatoi; questi ultimi erano privi di dispositivi tali da favorire la dispersione di sovrappressioni e altresì carenti sul piano strutturale in relazione al rischio di cedimenti; nessuno strumento era stato realizzato per la segnalazione della formazione di miscele esplosive o per l’inertizzazione delle stesse, né erano stati creati bacini esterni di contenimento o impianti idrici antincendio dimensionati in relazione a incendi di serbatoi e bacini di notevoli proporzioni; lo stesso certificato di prevenzione-incendi era scaduto, né era stata introdotta una modifica quantitativa del precedente sistema tale da adeguarlo in rapporto al consistente aumento del numero dei serbatoi verificatosi medio tempore.
Si tratta di considerazioni legate all’approfondimento dei tradizionali canoni della colpa generica che la corte territoriale risulta aver elaborato nel rispetto di un’adeguata misura di coerenza logica e linearità argomentativa, sì da attestare in termini ragionevoli la sicura rimproverabilità, a carico dell’imputato (in ragione dell’esigibilità, dallo stesso, dei comportamenti alternativi omessi), della mancata analisi dei rischi connessi allo svolgimento dei processi produttivi governati e alla trascurata gestione degli stessi rischi: considerazioni alle quali l’accenno, contenuto nella sentenza impugnata, ai diversi parametri normativi di colpa specifica eventualmente richiamabili nulla aggiungono di diverso o decisivo, per tale via dovendo ritenersi integralmente assorbita ciascuna delle censure sollevate dall’imputato e dal responsabile civile (ancora con la memoria depositata dai difensori del G.DP. in data 14/5/2015) in ordine all’asserita erronea interpretazione, da parte del giudice territoriale, delle norme di legge sul punto rilevanti.
20. Le considerazioni da ultimo richiamate, al fine di evidenziare gli aspetti di rimproverabilità della condotta dell’imputato, inducono, peraltro, a ritenere integralmente corrette le valutazioni operate dalla corte territoriale in relazione all’assoluzione del G.DP. dall’imputazione relativa al reato di cui all’art. 437 c.p., riguardante la dolosa omessa collocazione, ovvero la rimozione o il danneggiamento, di cautele contro gli infortuni sul lavoro.
Sul punto, la corte territoriale, muovendo dalla corretta premessa della necessaria rappresentazione, da parte dell’imputato, ai fini della ravvisabilità del dolo, dell’esistenza di concrete situazioni di pericolo discendenti dallo svolgimento del processo produttivo, ha coerentemente escluso l’effettiva consapevolezza, da parte del G.DP., della sussistenza effettiva di condizioni di pericolo tali da imporre le cautele correlate alla presenza e alla possibile formazione di miscele esplosive.
In tema, è appena il caso di richiamare il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale, nel reato di rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, il dolo è correlato alla consapevolezza dell’esistenza di una situazione di pericolo discendente dal funzionamento di un’apparecchiatura, segnale o impianto destinato a prevenire l’infortunio e privo della cautela imposta, e alla volontà di accettare il rischio di quest’ultimo, consentendo il funzionamento senza la cautela stessa (Sez. 1, Sentenza n. 17214 del 01/04/2008, Rv. 240002; Sez. 4, Sentenza n. 4675 del 17/05/2006, Rv. 235665).
Al riguardo, la corte d’appello, sulla base di un percorso argomentativo probatoriamente fondato e congruamente argomentato, ha coerentemente sottolineato come, benché il G.DP. fosse certamente gravato dall’obbligo di valutare convenientemente i rischi (e dunque di avvedersi dei pericoli) indotti dalle modalità del processo produttivo aziendale, non vi fosse prova che lo stesso avesse acquisito una chiara consapevolezza di detti rischi (con particolare riguardo al rischio di incendio), con la conseguente volontaria omissione delle cautele indispensabili a fronteggiarli.
Si tratta di argomentazioni dotate d’indiscutibile coerenza logica, fedeli alle risultanze dell’istruzione dibattimentale e giuridicamente corrette, come tali pienamente idonee a sottrarsi alle censure sul punto sollevate dall’impugnazione delle parti civili.
21. Del tutto prive di fondamento devono inoltre ritenersi le censure avanzate dalle stesse parti civili in relazione all’accertamento del concorso di colpa del M.M. nella produzione dell’evento lesivo oggetto di giudizio.
Sul punto, la corte territoriale, con motivazione fedele alle risultanze probatorie e argomentata in modo lineare e giuridicamente corretto, dopo aver ribadito l’elevato grado della colpa ascrivibile al G.DP. nella causazione degli eventi de quibus, ha sottolineato come anche alla condotta colposa di M.M. dovesse attribuirsi un rilevante ruolo nell’economia del dinamismo causale che condusse al sinistro.
Al M.M., infatti, in qualità di datore di lavoro dell’impresa appaltatrice, competeva la specifica e autonoma posizione di garanzia a tutela dei propri dipendenti, con la conseguente stringente incombenza, sullo stesso, del dovere di approfondire l’analisi dei rischi connessi all’esecuzione della prestazione allo stesso affidata in appalto e di governarne la gestione, attraverso l’adozione di tutte le misure idonee a garantire la sicurezza dei propri lavoratori.
In termini corretti sul piano giuridico e coerenti in termini argomentativi, dunque, la corte territoriale ha evidenziato come, pur avendo il G.DP. omesso di fornire al M.M. una dettagliata informazione circa la natura dei pericoli connessi all’ambiente di lavoro, l’appaltatore, “anche in qualità di tecnico esperto e imprenditore di lungo corso”, avrebbe in ogni caso dovuto, a sua volta, procedere alla valutazione dei possibili rischi e della natura dei pericoli esistenti in loco, tanto più alla luce del rischio generico legato all’utilizzazione della saldatrice sopra i serbatoi dell’olio, di cui lo stesso M.M. aveva in precedenza espressamente dichiarato di essere consapevole, al punto di affermare (come asseverato da alcuni testi, compreso il F., soggetto originariamente contattato per la realizzazione del lavoro nell’interesse di U.O.) che, ove scoperto a ricorrervi, il G.DP. “lo avrebbe cacciato”.
Al riguardo, è appena il caso di ribadire in questa sede l’orientamento anche di recente riaffermato da questa corte di legittimità, ai sensi del quale, in materia di infortuni sul lavoro, l’appaltatore deve ritenersi responsabile per la mancata adozione di misure atte a prevenire il rischio di infortuni a carico dei propri dipendenti; misure da individuarsi di volta in volta in ragione delle peculiarità della sede di lavoro (Sez. 4, Sentenza n. 3774 del 09/10/2014, Rv. 262123), dovendo dunque l’appaltatore necessariamente avvedersi della specifica situazione nella quale all’occorrenza è chiamato ad operare.
Nel caso di specie, pur non avendo ottenuto dal committente le necessarie informazioni sui rischi specifici connessi alle lavorazioni allo stesso affidate in appalto, il M.M., in qualità di appaltatore e datore di lavoro – come correttamente sottolineato dalla corte territoriale -, avrebbe in ogni caso dovuto procedere, proprio a tutela dei lavoratori della propria impresa, ad approfondire le ricerche e a chiarire il senso ultimo dei generici rischi a lui rappresentati in ordine all’utilizzo della saldatrice sul tetto dei serbatoi dell’olio (peraltro in un ambiente di lavoro già manifestamente allertato in relazione al divieto di fiamme libere), senza confidare sulle scarne e generiche raccomandazioni allo stesso prospettate dal G.DP..
Del tutto correttamente, pertanto, i giudici d’appello, nell’attestare il concorso di colpa del M.M. nella produzione dell’evento, si sono allineati all’insegnamento di questa corte di legittimità, ai sensi del quale, in tema d’infortuni sul lavoro, il principio dell’affidamento dev’essere contemperato con il principio di salvaguardia degli interessi dei lavoratori ‘garantiti’ dal rispetto della normativa antinfortunistica; da tanto conseguendo che il datore di lavoro, garante dell’incolumità personale dei suoi dipendenti, è tenuto a valutare tutti i rischi ai quali espone questi ultimi e a prevenirli, non potendo invocare a sua discolpa, in difetto della necessaria diligenza, prudenza e perizia, eventuali responsabilità altrui (v. Sez. 4, Sentenza n. 22622 del 29/04/2008, Rv. 240161).
Tali considerazioni valgono a superare ogni alternativa prospettazione avanzata dalle parti civili, in ordine all’eventuale scorretta interpretazione, da parte della corte territoriale, di norme di legge specificamente richiamate (come quelle di cui agli artt. 250 d.p.r. n. 547/55; 7 e 88-septies d.p.r. n. 626/94; 1227 e 2050 cc, ovvero ancora del meccanismo dell’agente mediato per inganno ex art. 48 cp.), trattandosi piuttosto, nella specie, propriamente dell’accertata violazione, da parte dell’appaltatore/datore di lavoro, del dovere di rendersi consapevole dei rischi specifici cui espone i propri dipendenti e di gestirne adeguatamente l’incidenza: difetto di consapevolezza e di adeguata gestione (causalmente connesso alla produzione dell’evento lesivo, come diffusamente argomentato dalla corte territoriale) nella specie integralmente imputabile alla responsabilità per negligenza o imprudenza dello stesso appaltatore.
È appena il caso di evidenziare – anche ai fini del rigetto delle corrispondenti censure dell’imputato, del responsabile civile e delle parti civili (sia pure, queste ultime, per ragioni del tutto opposte ai primi) – come la determinazione dell’entità concorso di colpa del M.M. (commisurata “in non più di un terzo”, in relazione al trattamento sanzionatorio e ai fini delle statuizioni civili: cfr. paG. 179 della sentenza impugnata), in quanto giustificata sulla base di una motivazione logicamente coerente e congruamente argomentata, sfugga alla valutazione di questa corte di legittimità, trattandosi di questione di fatto, integralmente affidata alla discrezionalità del giudice di merito.
Peraltro, con riguardo alla doglianza delle parti civili ricorrenti, circa l’erronea riduzione, nella misura di un terzo (corrispondente all’entità del concorso di colpa riconosciuto in capo al M.M.) dell’importo liquidato a titolo di risarcimento del danno o di mera provvisionale, con riguardo ai pregiudizi vantati iure proprio (e non iure successionis) dai prossimi congiunti dello stesso M.M., osserva il collegio come del tutto correttamente la corte d’appello si sia sul punto allineata al consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, di recente confermato dalle sezioni civili di questa corte, ai sensi del quale, in materia di responsabilità civile, in caso di concorso della condotta colposa della vittima di un illecito mortale nella produzione dell’evento dannoso, il risarcimento del danno, patrimoniale e non, patito iure proprio dai congiunti della vittima deve essere ridotto in misura corrispondente alla percentuale di colpa ad essa ascrivibile (Cass. Civ., Sez. 3, Sentenza n. 23426 del 04/11/2014, Rv. 633334).
22. L’accertata infondatezza dei motivi di ricorso in questa sede avanzati in punto di responsabilità dal G.DP. non esime peraltro il collegio (in parziale accoglimento dell’istanza al riguardo avanzata dai relativi difensori con la memoria depositata in data 14/5/2015) dal rilievo dell’intervenuta prescrizione, alla data odierna, dei reati allo stesso ascritti di incendio colposo e di lesioni personali colpose (ai danni di K.D.), trattandosi di fatti commessi alla data del 25/11/2006, entrambi soggetti al termine prescrizionali di sei anni (estensibile a sette anni e mezzo in ragione delle intervenute interruzioni).
In particolare, con riguardo al reato di incendio colposo vale richiamare l’incidenza della sentenza della Corte costituzionale n. 143 del 28/5/2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 157, sesto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede che i termini di cui ai precedenti commi del medesimo articolo sono raddoppiati per il reato di incendio colposo (art. 449, in riferimento all’art. 423 del codice penale).
Allo stesso modo, con riguardo al reato di lesioni personali colpose commesso in concorso con i reati di omicidio colposo plurimo (art. 589, ult. comma, c.p.), vale richiamare l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità ai sensi del quale il reato di omicidio colposo plurimo (ex art. 589, ult. comma, c.p.) non è configurabile come reato unico ma come concorso formale di più reati, unificati soltanto quoad poenam, sicché il termine di prescrizione del reato va computato con riferimento a ciascun evento di morte o di lesioni, dal momento in cui ciascuno di essi si è verificato (v. Sez. 4, Sentenza n. 47380 del 29/10/2008, Rv. 242827).
Al riguardo, occorre sottolineare, in conformità all’insegnamento ripetutamente impartito da questa Corte, come, in presenza di una causa estintiva del reato, l’obbligo del giudice di pronunciare l’assoluzione dell’imputato per motivi attinenti al merito si riscontri nel solo caso in cui gli elementi rilevatori dell’insussistenza del fatto, ovvero della sua non attribuibilità penale all’imputato, emergano in modo incontrovertibile, tanto che la relativa valutazione, da parte del giudice, sia assimilabile più al compimento di una ‘constatazione’, che a un atto di ‘apprezzamento’ e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (v. Cass., n. 35490/2009, Rv. 244274).
E invero il concetto di ‘evidenza’, richiesto dal secondo comma dell’art. 129 c.p.p., presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara e obiettiva, da rendere superflua ogni dimostrazione, concretizzandosi così in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l’assoluzione ampia, oltre la correlazione a un accertamento immediato (cfr. Cass., n. 31463/2004, Rv. 229275).
Da ciò discende che, una volta sopraggiunta la prescrizione del reato, al fine di pervenire al proscioglimento nel merito dell’imputato occorre applicare il principio di diritto secondo cui ‘positivamente’ deve emergere dagli atti processuali, senza necessità di ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato a quanto allo stesso contestato, e ciò nel senso che si evidenzi l’assoluta assenza della prova di colpevolezza di quello, ovvero la prova positiva della sua innocenza, non rilevando l’eventuale mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede il compimento di un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze (v. Cass., n. 26008/2007, Rv. 237263).
Tanto deve ritenersi certamente non riscontrabile nel caso di specie, avendo questa Corte positivamente riscontrato l’infondatezza di tutte le doglianze avanzate dall’odierno ricorrente avverso la sentenza di condanna pronunciata nei propri confronti.
Ne discende che, ai sensi del richiamato art. 129 c.p.p., la sentenza impugnata va annullata senza rinvio agli effetti penali (restando viceversa fermo il dovere di provvedere sui motivi d’impugnazione concernenti gli effetti civili, ex art. 578 c.p.p., su cui v. supra e infra), limitatamente alla condanna per i reati di incendio colposo e lesioni personali colpose, perché estinti per prescrizione.
Dall’accertamento della prescrizione dei reati di incendio colposo e di lesioni personali colpose segue peraltro la necessità di procedere alla rideterminazione della pena a carico dell’imputato (attesa la formulazione onnicomprensiva della motivazione dell’aumento di pena disposto ex art. 589 c.p. dalla corte territoriale: cfr. pagG. 179-180 della sentenza a quo), con il conseguente annullamento sul punto della sentenza impugnata (e l’assorbimento di ogni connessa questione relativa al trattamento sanzionatorio dedotta con i motivi di ricorso), con rinvio alla Corte d’appello di Firenze affinché provveda al riguardo.
23. Pervenendo alla definizione dei motivi d’impugnazione concernenti le statuizioni civili della sentenza d’appello (nella specie formulati dall’imputato, dal responsabile civile e dalle parti civili), osserva il collegio come gli stessi debbano ritenersi integralmente privi di fondamento.
Con riguardo alle censure (sollevate dall’imputato e dal responsabile civile) riguardanti la legittimazione dell’Inail ad agire nel processo penale al fine di far valere l’azione di regresso nei confronti del datore di lavoro, osserva il collegio come del tutto correttamente la corte territoriale ne abbia confermato la sussistenza sulla base dell’art. 2 della legge n. 123/2007 (poi confermato dall’art. 61 d.lgs. n. 81/2008), in tal senso adeguandosi all’orientamento fatto proprio da questa corte, ai sensi del quale, in caso d’esercizio dell’azione penale per i reati d’omicidio colposo e lesioni colpose commessi con violazione delle norme antinfortunistiche, l’Inail è legittimato a costituirsi parte civile e ad esercitare nel procedimento penale l’azione di regresso nei confronti del datore di lavoro eventualmente imputato (Sez. 4, Sentenza n. 47374 del 09/10/2008, Rv. 241902).
Tale disciplina, in ragione dell’indole processuale che la caratterizza, obbedendo al principio che impone la coerenza dell’atto (nella specie, dell’atto di costituzione di parte civile) alla normativa in vigore al tempo del suo compimento (tempus regit actum), induce a ritenere del tutto legittima la costituzione di parte civile dell’Inail in questa sede contestata, essendo intervenuta, detta costituzione, successivamente all’introduzione delle norme richiamate, rimanendo pertanto del tutto irrilevante la circostanza della sopravvenienza di queste ultime al tempo della commissione dei reati oggetto di giudizio, come infondatamente ed erroneamente sostenuto negli odierni ricorsi dell’imputato e del responsabile civile.
24. Del pari privi di fondamento devono ritenersi i motivi d’impugnazione avanzati dall’imputato e dal responsabile civile con riguardo all’omessa esclusione del Ministero dell’Ambiente, ai sensi dell’art. 315 d.lgs. n. 152/2006, sul presupposto dell’asserita avvenuta riparazione in forma specifica del danno ambientale.
Sul punto, la corte territoriale, con motivazione immune da vizi d’indole logica o giuridica, ha espressamente sottolineato come, nel caso di specie, non si fosse mai addivenuto all’emissione dell’ordinanza di cui all’art. 313 d.lgs. cit. con i contenuti di cui all’art. 314 (che peraltro sarebbe spettato al Ministro dell’Ambiente adottare all’esito di appropriata procedura), bensì unicamente alla imposizione ad U.O., per ragioni di cautela, nell’alveo delle misure contemplate dall’art. 305 del codice dell’ambiente, di interventi specifici privi di alcuna connotazione idonea a qualificarla quali azione reintegrativa di tipo pararisarcitorio, ai sensi e per gli effetti degli artt. 313 e 114 del codice dell’ambiente.
Del resto, la stessa corte territoriale ha sottolineato come tali ultimi interventi furono imposti ed eseguiti dopo che cospicui altri interventi erano stati curati, con impiego di mezzi e di personale qualificato della parte pubblica, allo scopo di scongiurare il peggio, ossia di impedire l’ulteriore contaminazione di strade e acque pubbliche bloccando il flusso dell’olio nel fiume Clitunno.
Sulla base di tali premesse, la corte territoriale ha dunque dato conto come l’azione successivamente posta in essere da U.O. non fosse in alcun modo valsa da sola a porre rimedio al danno provocato dalla commissione dei reati, avendo esclusivamente concorso a ricreare condizioni di sicurezza e di accettabilità delle aree e dei beni coinvolti dal sinistro.
25. Parimenti prive di pregio devono ritenersi le doglianze sollevate dall’imputato e dal responsabile civile in relazione alla legittimazione processuale della Regione Umbria, avendo quest’ultima agito al fine di ottenere la riparazione del grave vulnus arrecato al proprio territorio in relazione a pregiudizi concernenti beni suoi propri.
Sul punto, varrà sottolineare il corretto allineamento della corte d’appello all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali spetta non soltanto al Ministro dell’Ambiente per il risarcimento del danno ambientale ma anche agli enti locali territoriali, i quali deducano di avere subito, per effetto della condotta illecita, un danno diverso da quello ambientale, avente natura anche non patrimoniale (Sez. 4, Sentenza n. 24619 del 27/05/2014, Rv. 259153).
Al riguardo, la corte territoriale, sulla base di un discorso giustificativo logicamente e giuridicamente corretto, ha evidenziato l’irrilevanza degli eventuali fondi stanziati dallo Stato in favore della Regione al termine dell’emergenza, essendo tali interventi espressione di scelte di carattere politico generale, avulsi dal quadro degli interventi posti in essere al fine di ovviare al disastro creato dalla deflagrazione del serbatoio dell’U.O. e di per sé inidonei ad essere inquadrati come forme di compensano lucri cum damno, riflettendo nella realtà – come correttamente e plausibilmente sostenuto dai giudici d’appello – “una causale in ultima analisi diversa, oggi legata all’esigenza del completamento delle opere e dei programmi avviati dalla Regione in materia ambientale”.
26. Da ultimo, è appena il caso di rilevare la radicale infondatezza delle censure avanzate dall’imputato e dal responsabile civile in relazione all’omessa estensione, da parte della corte territoriale, della riduzione delle somme riconosciute a titolo di provvisionale e di danno nei confronti di tutte le parti civili, compresi gli enti pubblici, in dipendenza del concorso di colpa riconosciuto in capo al M.M., essendo detta riduzione evidentemente giustificata in relazione ai soli congiunti del M.M. (quale corresponsabile dei danni oggetto di riparazione) e non già nei confronti di soggetti diversi (come quelli pubblici), del tutto estranei alla sfera giuridico-patrimoniale del medesimo M.M., rispetto ai quali tutti i danneggianti rimangono obbligati, in solido tra loro (ossia per l’intero, nei rapporti esterni), al risarcimento dei danni provocati.
27. La decisione dettata in questa sede in relazione ai motivi d’impugnazione avanzati dall’imputato e dal responsabile civile con riguardo alle statuizioni civili della sentenza d’appello, vale a ritenere integralmente assorbito il dovere di provvedere sulle istanze di sospensione dell’esecuzione delle condanne civili, ai sensi dell’art. 612 c.p.p., avanzate con i rispettivi ricorsi.
28. All’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata agli effetti penali, limitatamente alla condanna per i reati di incendio colposo e lesioni colpose, perché estinti per prescrizione; all’annullamento con rinvio della stessa sentenza per la rideterminazione della pena a carico dell’imputato; al rigetto nel resto dei ricorsi di quest’ultimo (con la conferma delle statuizioni civili) e al rigetto integrale dei restanti ricorsi, segue la condanna del responsabile civile G. s.r.l. in liquidazione, nonché delle parti civili, M.S. e Y.M., al pagamento delle spese processuali, mentre devono essere compensate le spese del presente giudizio tra le parti civili ricorrenti, l’imputato e il responsabile civile, in ragione della reciproca soccombenza.
Il G.DP. e il responsabile civile G. s.r.l. devono essere condannati in solido tra loro, siccome soccombenti, alla rifusione delle spese del presente giudizio in favore del Ministero dell’Ambiente, della Regione Umbria, del Comune di Campello sul Clitunno e dell’Inail, secondo la liquidazione di cui al dispositivo.

P.Q.M.

la Corte Suprema di Cassazione, annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali, limitatamente alla condanna per i reati di incendio colposo e lesioni colpose perché estinti per prescrizione; e l’annulla con rinvio alla Corte d’appello di Firenze per la rideterminazione della pena a carico dell’imputato G.DP. .
Rigetta nel resto i ricorsi del suddetto imputato, confermando le statuizioni civili.
Rigetta i restanti ricorsi e condanna il responsabile civile G. s.r.l. in liquidazione, nonché le parti civili, M.S. e Y.M., al pagamento delle spese processuali.
Dichiara compensate tra le parti civili ricorrenti e l’imputato e il responsabile civile le spese del presente giudizio.
Condanna il G.DP. e il responsabile civile G. s.r.l. in solido alla rifusione delle spese del presente giudizio sostenute dalle parti civili, Ministero dell’Ambiente, Regione Umbria, Comune di Campello sul Clitunno e Inail, liquidate in euro 450,00 per il Ministero dell’Ambiente e in euro 2.500,00 per ciascuna delle restanti parti, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 3/6/2015.

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