Repertorio Salute

Cassazione Penale, Sez. 4, 08 febbraio 2018, n. 6121

Ustioni durante l’uso del macchinario a pressione (brasiera multifunzione a gas). Valutazione dei rischi e formazione.


Ustioni durante l’uso del macchinario a pressione (brasiera multifunzione a gas). Valutazione dei rischi e formazione.Presidente: IZZO FAUSTO
Relatore: BRUNO MARIAROSARIA
Data Udienza: 07/11/2017

Fatto

1. Con sentenza del 10/11/2016, la Corte di appello di Firenze, in riforma della pronuncia assolutoria resa dal Tribunale di Firenze, appellata dal P.M. e dalla parte civile, dichiarava DP.C.. e B.S. colpevoli dei reato di lesioni colpose in danno di più persone offese, con violazione delle norme antinfortunistiche, condannandoli, ciascuno, alla pena di anni uno di reclusione. Per entrambi, era stabilita la pena sospesa e la non menzione nel casellario giudiziale della condanna. Gli imputati erano condannati, in solido, al risarcimento del danno subito dalla parte civile costituita, S.A., da liquidarsi in separata sede, con il riconoscimento di una provvisionale immediatamente esecutiva, pari ad euro 200.000,00 oltre alla refusione delle spese per entrambi i gradi di giudizio.
2. Agli imputati, nelle rispettive qualità di amministratore delegato e direttore generale della soc. “Qualità e Servizi s.p.a”, si contestava di avere cagionato, per colpa generica e specifica, lesioni personali alle dipendenti S.C., B.N. e S.A., le quali, impiegate nell’attività di cottura di pasti destinati alla refezione scolastica nella struttura aziendale denominata “Centro unico di cottura del Comune di Fiesole”, mediante l’impiego di apposito macchinario a pressione (brasiera multifunzione a gas Firex mod. Betterpan DBRG 110), in seguito ad errate manovre di utilizzo della macchina, venivano investite da un imponente getto di calore proveniente dall’acqua in ebollizione, che cagionava loro ustioni in varie parti del corpo, che determinavano nelle dipendenti, una malattia della durata superiore a 40 giorni.
In particolare, si contestavano a DP.C.. profili di colpa generica, sotto il profilo della negligenza ed imprudenza, nonché, profili di colpa specifica, individuati nella violazione dell’art. 17, comma 1, lett. b), D.lgs. 81/08 per non avere, l’imputato, valutato i rischi derivanti dall’impiego dei macchinari agroalimentari multifunzione per la cottura tradizionale o in pressione dei cibi.
Quanto alla B.S., oltre alla colpa generica, consistita in negligenza e imprudenza, si contestava la violazione di cui all’art. 13, comma 1, D. lgs. 81/08 per non avere adeguatamente informato le dipendenti dei rischi specifici cui erano esposte in relazione all’impiego delle macchine agroalimentari multifunzione per la cottura dei cibi.
3. Avverso tale sentenza proponevano ricorso i rispettivi difensori degli imputati, articolando, ciascuno, i motivi di seguito sinteticamente illustrati (ai sensi dell’art. 173, disp. att. cod. proc. pen.).

3.1 Per DP.C…
Primo motivo: inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e di altre norme di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., con riferimento all’art. 17, comma 1, lett. b), D.lgs. 81/2008, anche in relazione agli artt. 28 e 29 del medesimo decreto, per avere, la Corte di appello, ritenuto erroneamente responsabile DP.C.. per l’omessa valutazione dei rischi conseguenti all’utilizzo dei macchinari di cui alla imputazione. L’impugnata sentenza, che ha ribaltato la decisione del Tribunale, muoverebbe da una premessa erronea, incentrando la decisione sulla non delegabilità dell’elaborazione del documento di valutazione rischi, ad opera del datore di lavoro. In realtà, afferma la difesa, il punto nodale della questione, valido al fine di vagliare la responsabilità dell’imputato, risiederebbe nella necessità o meno dell’elaborazione o aggiornamento del documento in questione, a fronte di un documento già esistente ed in presenza di una situazione aziendale rimasta invariata. Si afferma in proposito che: il D.V.R. era stato aggiornato dall’imputato in collaborazione con un tecnico, in data 5/5/2008; che DP.C.. non era tenuto a provvedere ad un ulteriore aggiornamento; che il ricorrente non ha delegato la funzione di elaborazione del documento valutazione rischi ad altri, ma si è avvalso della collaborazione di un professionista qualificato per la sua stesura, come previsto per legge; che il DP.C.., in ossequio allo ius superveniens, in seguito all’entrata in vigore delD.lgs. 81/2008, aveva diligentemente provveduto all’aggiornamento del D.V.R. con la collaborazione dell’ing. A.C., il quale aveva ricevuto incarico, già nell’anno 2006, di R.S.P.P.; che nessuna modifica organizzativa o strutturale dei luoghi di lavoro era intervenuta, medio tempore, nel Centro di cottura di Fiesole, né era stato segnalato ivi alcun infortunio; che il macchinario denominato brasiera, dal quale derivò l’infortunio sul lavoro, era già presente nel reparto dall’anno 2001 ed il documento di valutazione dei rischi, esistente da tempo, aveva preso in considerazione tutti i macchinari in uso presso l’azienda, ivi compresi quelli esistenti nel centro di Fiesole.
Tali aspetti, non considerati o, mal considerati dalla Corte di appello, secondo la prospettazione difensiva, si sarebbero tradotti in una non corretta applicazione delle norme sopra richiamate. La Corte di appello sarebbe incorsa in violazione di legge, attraverso un’errata interpretazione dell’art. 29 D.lgs. 81/2008, assumendo che il cattivo funzionamento di alcune pentole nel centro di cottura e la presenza di una sola cuoca in cucina, dovuta al trasferimento del collega in altra sede ed alla contestuale temporanea assenza del cuoco titolare, rientrerebbero nella previsione di tale norma, con conseguente obbligo del datore di lavoro di rielaborare il documento di valutazione dei rischi. Tali evenienze, secondo la difesa, rappresentando modifiche temporanee e non significative, non avrebbero dovuto determinare l’aggiornamento del documento di valutazione dei rischi.
Secondo motivo: manifesta illogicità della motivazione, riconducibile al vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. per avere, la Corte di appello, erroneamente ascritto a colpa del ricorrente il mancato aggiornamento del documento di valutazione dei rischi. La difesa rileva che gii argomenti fondanti il giudizio di responsabilità a carico di DP.C.., riconducibili al cattivo funzionamento di alcune pentole nello stabilimento di Fiesole ed alla presenza di una sola dipendente addetta alla cucina nel giorno dell’infortunio, sarebbero del tutto illogici. Il datore di lavoro, afferma la difesa, non poteva essere informato costantemente ed in tempo reale di tutto ciò che accadeva nel centro distaccato di Fiesole. Del cattivo funzionamento degli altri macchinari in dotazione al centro di cottura, era stata informata la B.S. la quale doveva occuparsi di fare intervenire gli addetti alla manutenzione. Quanto all’assenza dei dipendenti, non si poteva esigere che l’amministratore delegato della società venisse costantemente aggiornato delle ferie del personale impiegato nel centro di Fiesole, tanto più che, della gestione del personale, si occupava la responsabile di tale centro, nella persona della B.S.. Quindi, le circostanze rappresentate dalla Corte di appello nella sentenza impugnata, oltre a non potere essere immediatamente conosciute da DP.C.., non richiedevano il suo intervento. Parimenti illogica, sarebbe la considerazione contenuta nella sentenza impugnata, in base alla quale, il rischio di coinvolgimento di altri lavoratori nell’attività della cucina, a causa delle carenze del personale ivi preposto, era elevato ed evidente. Nel periodo in cui è avvenuto l’incidente, a causa della chiusura delle scuole, il numero di pasti da preparare era notevolmente inferiore, sicché, le tre persone previste come presenti in tale periodo, erano sufficienti ad attendere alle incombenze necessarie. Le lavoratrici S.A. e B.N., come ha illustrato il Tribunale di Firenze, avrebbero scelto autonomamente di prestare ausilio alla cuoca S.C.. Tale scelta non avrebbe potuto essere in alcun modo prevista dal datore di lavoro. Ne consegue, secondo la difesa, che non può essere ascritta a DP.C.. alcuna colpa, mancando totalmente, nel caso concreto, i parametri della prevedibilità e della esigibilità previsti dall’art. 43, cod. penale.
Terzo e quarto motivo: inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, riconducibili al vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. c). cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 521, 522 cod. proc. pen. laddove la sentenza di appello condanna per il reato di lesioni colpose l’imputato DP.C.., ritenendolo responsabile della violazione della norma di cui all’art. 18, D.lgs. 81/2008 allo stesso mai contestata; erronea applicazione della legge penale, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett b), cod. proc. pen. con riferimento all’art. 43, cod. pen., nonché, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen. laddove la Corte di appello ascrive a colpa dell’imputato, l’omessa formazione delle lavoratrici S.C., S.A. e B.N.. Rileva, la difesa, come la Corte d’appello, in un passaggio della sentenza impugnata, abbia addebitato a DP.C.. la condotta di non avere provveduto all’adeguata formazione delle lavoratrici infortunate. Ciò, in palese violazione del principio della corrispondenza tra accusa e sentenza, sancito dall’art. 521, cod. proc. penale, non essendo, tale violazione, mai stata contestata al ricorrente.
Anche volendo ipotizzare che la responsabilità per la mancata ottemperanza dell’obbligo di formazione sia stata addebitata a DP.C.. a titolo di colpa generica, la sentenza risulterebbe comunque viziata, sotto plurimi profili. In particolare, essa sarebbe del tutto carente sul punto, la Corte di appello ascriverebbe all’imputato una responsabilità da posizione, omettendo di valutare il dato probatorio della esistenza, all’interno della società, di un soggetto a cui era stata conferita delega in materia di sicurezza, prevenzione e formazione. Trascurerebbe, inoltre, dì considerare che la S.C. aveva ricevuto una specifica formazione in affiancamento al cuoco, che le aveva dato indicazione di non usare la brasiera Betterpan in modalità a vapore, con conseguente mancanza del nesso causale tra inottemperanza dell’obbligo formativo e l’evento delle lesioni. In ordine alla posizione delle altre lavoratrici non addette a mansioni di cuoco (S.A. e B.N.), la Corte di appello incorrerebbe in errore, affermando che il DP.C.. aveva un obbligo di formazione nei loro confronti, a prescindere dal tipo di mansioni a cui erano adibite. Nei fare ciò, la Corte di appello, adotterebbe una interpretazione della nozione di luogo di lavoro non pertinente ai fatti in contestazione.
Quinto motivo: Manifesta illogicità della motivazione, laddove l’impugnata sentenza non ha ritenuto che la condotta delle tre lavoratrici potesse integrare una causa da sola sufficiente a determinare l’evento, ai sensi dell’art. 41, comma 2, cod. pen. con conseguente inosservanza dell’art. 41, cod. penale. Secondo la prospettazione difensiva l’operazione compiuta dalle lavoratrici era frutto di una iniziativa imprevedibile ed anomala che avrebbe costituito da sola, causa sufficiente a determinare l’evento.
Sesto e settimo motivo: manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche ; violazione di legge con riferimento all’art. 62-bis, cod. pen. e nella parte riguardante la determinazione della pena.
Ottavo motivo: manifesta illogicità della motivazione, laddove la Corte di appello determina il danno patrimoniale sulla base della sola perizia di parte civile; erronea applicazione della legge penale, laddove la Corte di appello omette di detrarre dall’importo del danno complessivo la rendita proveniente dall’Inail.
Nono motivo: estinzione del reato per intervenuta prescrizione alla data del 19/12/2016.

3.2 Per B.S..
La difesa, nella premessa, lamenta che la Corte di appello di Firenze, nel ribaltare la sentenza assolutoria di primo grado, non ha fornito una motivazione rafforzata e non ha proceduto, d’ufficio, alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Il giudice della sentenza impugnata, afferma la difesa, ha diversamente valutato le prove dichiarative raccolte nel giudizio di primo grado e non ha confutato con argomentazioni precise e puntuali le affermazioni del giudice del dibattimento. Enuncia poi i seguenti motivi di ricorso.
Primo motivo: mancanza di motivazione, anche in relazione all’art. 533, comma 1, cod. proc. pen. per violazione del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen. nella parte in cui si afferma la penale responsabilità della B.S. sul presupposto della necessità dell’ausilio prestato dalle parti offese, B.N. e S.A., alla cuoca S.C., per carenza di personale. Travisamento della prova riconducibile alla mancata valutazione di una prova decisiva e rilevante ai sensi dell’art. 606, lett. e) cod. proc. pen., nella parte in cui si omette di valutare l’ausilio di una terza persona, che aveva il compito di affiancare la S.C. nella cottura dei pasti e che avrebbe raggiunto il luogo di lavoro durante la mattina.
La ricorrente lamenta che la Corte di appello è pervenuta al giudizio di responsabilità, sulla base di una diversa valutazione delle prove orali, astenendosi dal considerare elementi probatori ritenuti fondamentali dal primo giudice ai fini della pronuncia assolutoria.
Secondo motivo: carenza di motivazione in ordine alla valutazione delle concrete funzioni svolte dalla imputata, la quale non era deputata ad occuparsi della formazione-informazione delle lavoratrici all’epoca dell’infortunio. Mancata valutazione delle prove acquisite nel corso della istruttoria dibattimentale, dalle quali risulta che soltanto dopo l’accadimento del fatto furono rilasciate alla B.S. due procure institorie in materia di autocontrollo ai sensi del D.lgs. 193/07 e di sicurezza sul lavoro, ai sensi del D.lgs. 81/2008.
Terzo motivo: violazione dell’art. 18, comma 1, lett. I) in relazione all’art. 37, comma 2, lett. b) e art. 299, d.lgs. 81/2008, nonché dell’art. 27 Cost., nella parte in cui si afferma la responsabilità dell’imputata sulla base della mera investitura formale di Direttore generale pro-tempore della Società “Qualità e Servizi s.p.a.”.
Quarto motivo: manifesta illogicità della sentenza laddove la Corte di appello calcola il danno patrimoniale sulla base della sola perizia della parte civile; erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale, laddove la Corte di appello omette di detrarre dall’importo del danno complessivo, la rendita costituita dall’Inail.

Diritto

1. Deve in primo luogo rilevarsi, come il reato ascritto agli imputati sia estinto per intervenuta prescrizione.
In ordine al tempo necessario a prescrivere, la disciplina attualmente vigente, applicabile al caso in esame, in quanto trattasi di fatto occorso in data 19/6/2009, successivamente alla entrata in vigore della legge 5 dicembre 2005, n.251, prevede un termine massimo di prescrizione di anni sette e mesi sei. In assenza di intervenute cause di sospensione della prescrizione, non rilevate dalla lettura degli atti, tale termine risulta interamente decorso alla data del 19/12/2016. All’uopo, non comporta la sospensione dei termini di prescrizione il rinvio stabilito dalla Corte di appello all’udienza del 26/5/2016, in concomitanza con lo svolgimento dell’astensione proclamata dai difensori dalle udienze, non essendosi perfezionata, in quella udienza, la notifica ad uno degli imputati.
La causa di estinzione del reato per intervenuta prescrizione può e deve essere rilevata anche in sede di legittimità.
Quanto alle più favorevoli forme di proscioglimento, di cui alla previsione dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., esse vengono in rilievo soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale, emergano dagli atti in modo assolutamente evidente e non contestabile, essendo la valutazione da compiersi in tali casi, più vicina al concetto di “constatazione”, che di “apprezzamento”. Essa, invero, è incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274).
Tuttavia, nel giudizio di impugnazione, in presenza di una condanna al risarcimento dei danni o alle restituzioni pronunciata dal primo giudice o dalla Corte d’appello, in seguito a costituzione di parte civile nel processo, è preciso obbligo del giudice, anche di legittimità, secondo il disposto dell’art. 578 cod. proc. pen., esaminare il fondamento dell’azione civile e verificare, senza alcun limite, l’esistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale al fine di confermare o meno la condanna alle restituzioni ed al risarcimento pronunciate nei precedenti gradi.
Nell’ambito del presente giudizio, unica parte civile costituita, risulta essere S.A., in favore della quale, la Corte territoriale, ha emesso pronuncia di condanna al risarcimento del danno a carico degli imputati ed ha riconosciuto la spettanza di una provvisionale. Ebbene, la intervenuta condanna al risarcimento del danno in favore della dipendente S.A., impone alla Corte di verificare il fondamento delle accuse mosse ai ricorrenti e di valutare la consistenza delle doglianze difensive relativamente all’Infortunio occorso alla lavoratrice, non essendo sufficiente limitarsi ad una mera constatazione della mancata ricorrenza di ragioni che escludano, ictu oculi, il reato e la riferibilità di esso alle persone dei ricorrenti.
2. Venendo quindi alle doglianze difensive, appare preliminare rispetto ad ogni altra questione posta dai difensori, valutare le censure sollevate dalla difesa di B.S., attinenti agli aspetti della motivazione rafforzata della sentenza impugnata ed alla necessità della rinnovazione della istruzione dibattimentale, nel caso di rovesciamento, in sede di appello, della sentenza assolutoria resa dal primo giudice.
In particolare, occorre verificare se la Corte d’appello abbia adempiuto all’obbligo della cosiddetta “motivazione rafforzata”, richiesta nella ipotesi in cui il verdetto assolutorio di primo grado sia ribaltato sulla scorta del medesimo compendio probatorio esistente in atti e se, ai fini della diversa decisione assunta, doveva ritenersi necessario il nuovo esame dei testi escussi in primo grado.
Tali tematiche coinvolgono principi che questa Corte ha da tempo elaborato su tali aspetti, stratificati attraverso una serie di pronunce a cui è necessario fare riferimento.
Da lungo tempo, si è affermato che il giudice di appello il quale ritenga di pervenire a conclusioni diverse da quelle accolte dal giudice di primo grado, non può limitarsi ad inserire nella struttura argomentativa della sentenza di primo grado, delle notazioni critiche di dissenso, essendo necessario che egli riesamini, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal giudice di primo grado, che consideri quello eventualmente sfuggito alla sua delibazione e quello ulteriormente acquisito, per dare, riguardo alle parti della sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni (così Sez. U., n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci, Rv. 191229).
Tali principi sono stati successivamente approfonditi, essendosi affermato che, in caso di totale riforma della decisione di primo grado, il giudice dell’appello, ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti
della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della sua incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (così Sez. U., n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679). Si è precisato, sulla base dei principi espressi dalla pronuncia delle Sezioni Unite testé citata, che il giudice debba evidenziare carenze e aporie della decisione non condivisa, sulla base di uno sviluppo argomentativo che si confronti con le ragioni addotte a sostegno del decisum impugnato (cfr. Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Rv. 261327) e che debba dare alla decisione una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni (così Sez. 6, n. 1253 del 28/11/2013, Rv. 258005; Sez. 6, n. 46742 del 08/10/2013, Rv. 257332; Sez. 4, n. 35922 del 11/07/2012, Rv. 254617).
Il tema coinvolge anche quello della corretta interpretazione del canone di giudizio del “ragionevole dubbio”, quale limite alla riforma di una sentenza assolutoria, avendo le Sezioni Unite di questa Corte affermato che: «per effetto del rilievo dato alla introduzione del canone «al di là di ogni ragionevole dubbio», inserito nel comma 1 dell’art. 533 cod. proc. pen. ad opera della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (ma già individuato dalla giurisprudenza quale inderogabile regola di giudizio: v. Sez. U, n. 30328 dei 10/07/2002, Franzese, Rv. 222139), si è più volte avuto modo di puntualizzare che nei giudizio di appello, per la riforma di una sentenza assolutoria, non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera diversa valutazione dei materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, accorrendo una “forza persuasiva superiore”, tale da far venire meno “ogni ragionevole dubbio” (ex plurimis, Sez. 3, n. 6817 del 27/11/2014, dep. 2015, S., Rv. 262524; Sez. 1, n. 12273 dei 05/12/2013, dep. 2014, Ciaramella, Rv. 262261; Sez. 6, n. 45203 del 22/10/2013, Paparo, Rv. 256869; Sez. 2, n. 11883 del 08/11/2012, dep. 2013, Berlingeri, Rv. 254725; Sez. 6, n. 8705 dei 24/01/2013, Farre, Rv. 254113; Sez. 6, n. 46847 del 10/07/2012, Aimone, Rv. 253718); posto che, come incisivamente osservato da Sez. 6, n. 40159 dei 03/11/2011, Galante, la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza» (così in motivazione, Sez. U., n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267486).
Inoltre, nel caso in cui la reformatio in peius sia frutto di una diversa valutazione di prove dichiarative, per effetto della sentenza della Corte E.D.U. del 05/07/2011 nel caso Dan c/ Moldavia, si è chiarito che il giudice ha l’obbligo di rinnovare l’istruttoria dibattimentale e di escutere nuovamente i dichiaranti, qualora valuti diversamente la loro attendibilità rispetto a quanto ritenuto in primo grado (cfr., ex multis, Sez. 5, n. 29827 del 13/03/2015, Rv. 265139; Sez. 6, n. 44084 del 23/09/2014, Rv. 260623; Sez. 3, n. 11658 del 24/02/2015, Rv. 262985).
La pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione nel caso Dasgupta, chiamata a risolvere il profilo della rilevabilità d’ufficio – in sede di giudizio di cassazione – della violazione dell’art. 6 CEDU, per avere, il giudice d’appello, riformato la sentenza assolutoria di primo grado, esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle dichiarazioni di testimoni e senza procedere a nuova escussione degli stessi, ha puntualizzato importanti principi in materia. In particolare, si è ivi affermato che: il mancato rispetto, da parte del giudice dell’appello, del dovere di procedere alla rinnovazione delle fonti dichiarative, in vista di una reformatio in peius, va inquadrato non nell’ambito di una violazione di legge ma in quello di un vizio di motivazione; l’esigenza di rinnovazione della prova dichiarativa si può prospettare anche nell’ambito di un giudizio abbreviato o in caso di impugnazione ai soli effetti civili; la necessità, per il giudice di appello, di procedere anche d’ufficio alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione, sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una dichiarazione ritenuta decisiva, non consente distinzioni a seconda della qualità soggettiva del dichiarante; il dovere di rinnovare gli apporti dichiarativi si configura con riguardo a quelli ritenuti decisivi ai fini del giudizio assolutorio di primo grado.
La pronuncia in commento si fa carico di specificare quali siano le prove decisive, affermando il seguente principio: «Costituiscono prove decisive al fine delia valutazione deila necessità di procedere alla rinnovazione della istruzione dibattimentale delle prove dichiarative nei caso di riforma in appello dei giudizio assolutorio di primo grado fondata su una diversa concludenza delle dichiarazioni rese, quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l’assoluzione e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee ad incidere sull’esito del giudizio, nonché quelle che, pur ritenute dai primo giudice di scarso o nullo valore, siano, invece, nella prospettiva dell’appellante, rilevanti – da sole o insieme ad altri elementi di prova- ai fini dell’esito della condanna» (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267491).
Deve peraltro aggiungersi, che la necessità di provvedere alla rinnovazione della istruttoria, mediante riassunzione della prova dichiarativa, deve escludersi nel caso in cui: 1. L’apporto dichiarativo, che non può formare oggetto di diversificate valutazioni tra primo e secondo grado, sì combini con fonti di prova di diversa natura non adeguatamente valorizzate o erroneamente considerate o addirittura pretermesse dal primo giudice; 2. Nell’ambito della prova dichiarativa, non si discuta del suo contenuto probatorio, ma della qualificazione giuridica.
Invero, sul punto, nella motivazione della più volte citata sentenza delle Sezioni Unite nel caso Dasgupta, si è precisato: «Non potrebbe invece ritenersi “decisivo” un apporto dichiarativo il cui valore probatorio, che in sé considerato non possa formare oggetto di diversificate valutazioni tra primo e secondo grado, si combini con fonti di prova di diversa natura non adeguatamente valorizzate o erroneamente considerate o addirittura pretermesse dal primo giudice, ricevendo soltanto da queste, nella valutazione del giudice di appello, un significato risolutivo ai fini dell’affermazione della responsabilità (per questo ordine di idee, v. Sez. 6, n. 47722 de! 06/10/2015, Arcone, Rv. 265879; Sez. 2, n. 41736 del 22/09/2015, Di Trapani, Rv. 264682; Sez. 3, n. 45453 del 18/09/2014, P., Rv. 260867; Sez. 6, n. 18456 del 01/0712014, dep. 2015, Marziali, Rv. 263944). Neppure può ravvisarsi la necessità della rinnovazione della istruzione dibattimentale qualora della prova dichiarativa non si discuta il contenuto probatorio, ma la sua qualificazione giuridica, come nel caso di dichiarazioni ritenute dal primo giudice come necessitanti di riscontri ex art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., e inquadrabili dall’appellante in una Ipotesi di testimonianza pura (v. in tal senso Sez. 3, n. 44006, del 24/09/2015, B., Rv. 265124)»
Con riferimento alla vicenda in esame, occorre rilevare come la Corte territoriale abbia incentrato il proprio ragionamento, essenzialmente, su elementi che erano stati trascurati dal primo giudice, senza effettuare una rivalutazione delle prove dichiarative rese dai testimoni escussi in dibattimento.
Il giudice di appello, infatti, ha dato alle prove dichiarative il medesimo significato assegnato al Tribunale, provvedendo a valutare elementi pretermessi dal primo giudice e correggendo gli errori di diritto in cui era incorso il primo giudice.
In particolare, la Corte territoriale, ha dato rilievo ad aspetti che il primo giudice aveva considerato in modo superficiale o non aveva considerato affatto, sottolineando: la grave carenza di organico venutasi a creare nel reparto aziendale in cui si è verificato l’infortunio; l’assenza di strumenti di lavoro idonei a consentire alle lavoratrici di svolgere l’attività che dovevano compiere, a causa del malfunzionamento delle altre pentole; la mancata, necessaria informazione dei rischi inerenti all’attività lavorativa, in rapporto all’uso del particolare macchinario denominato brasiera, presente nel reparto di cottura dei cibi; la inadeguatezza ed incompletezza del documento valutazione rischi elaborato dal datore di lavoro.
Oltre a ciò, la Corte territoriale ha rettificato errori di diritto in cui era incorso il giudice di primo grado.
Ed invero, a pagina 19 della sentenza appellata, il Tribunale, dopo avere rilevato che nell’estratto del documento di valutazione dei rischi, nulla era detto circa l’utilizzo della brasiera nella modalità di cottura a pressione, ha affermato, sia pure in forma di domanda retorica, che DP.C.., in qualità di datore di lavoro, non doveva “porsi il problema della completezza del documento di valutazione dei rischi, essendo questo effettivamente esistente in azienda ed essendo stato redatto da un professionista specializzato”.
Orbene, come messo in evidenza dalla Corte di appello in sentenza, nella pagina 7 della motivazione, tale impostazione soffre di un evidente errore in quanto, ai sensi dell’art. 17 d.lgs. n. 81/2008, la valutazione dei rischi è un’attività non delegabile dal datore di lavoro. Anche quando il documento della valutazione dei rischi venga redatto in collaborazione con un tecnico esperto nella materia, è ius receptum nella giurisprudenza di legittimità, il principio della permanenza in capo al datore di lavoro dell’obbligo di verificarne l’adeguatezza e l’efficacia (così, ex multis Sez. 4, n. 27295 dei 02/12/2016, Rv. 270355; conformi: Sez. 4, n. 24452 del 19/03/2015, Rv. 263726; Sez. 4, n. 20129 del 10/03/2016, Rv. 267253; Sez. 4, n. 22147 del 11/02/2016, Rv. 266859).
Altro aspetto significativo, idoneo a rivelare la esistenza di una erronea interpretazione giuridica dei fatti, nella sentenza di primo grado, si ricava dalle considerazioni riguardanti la posizione delle lavoratrici B.N. e S.A., nei confronti delle quali, il giudice di primo grado, afferma che non vi fosse alcun obbligo di formazione e informazione dei rischi esistenti in cucina, non svolgendo le predette mansioni di cuoche, ma essendo addette, rispettivamente, alla ricezione merci (così la B.N.) ed alla formazione delle porzioni dei pasti (così la S.A.).
Anche in questo caso, come evidenziato dal giudice di appello, la sentenza di primo grado risente di una erronea impostazione che non tiene conto dei principi espressi in materia dalla Corte di legittimità, in base ai quali, il luogo di lavoro non è limitato allo spazio strettamente necessario per il compimento della specifica mansione di ciascun lavoratore, ma va ragionevolmente esteso anche alle zone adiacenti, ove gli addetti possano comunque recarsi e muoversi. Pertanto, l’obbligo di informazione sui rischi esistenti in quel luogo e sulle modalità per evitarli, sussiste anche nei confronti di chi non svolga mansioni strettamente connesse ai rischi medesimi (sul punto, si veda infra paragrafo n. 4.4).
Corretta risulta, pertanto, la premessa da cui muove il giudice d’appello, nella parte in cui evidenzia che la sentenza di assoluzione di primo grado si fonda su una erronea valutazione dei dati di fatto e su una erronea applicazione di principi di diritto e che l’adozione della diversa decisione di condanna, è conseguenza, non di una rivalutazione delle prove orali, ma della valutazione di elementi di prova pretermessi dal primo giudice.
Da tutto ciò consegue, la inesistenza dell’obbligo della Corte territoriale di provvedere alla rinnovazione della istruzione dibattimentale.
3. Deve ritenersi adempiuto anche l’obbligo gravante sul giudice di appello, di fornire una motivazione rafforzata. Invero, come si evince dalla lettura della sentenza impugnata, la Corte territoriale ha espresso una motivazione precisa, fondata su specifiche risultanze processuali e del tutto idonea a illustrare l’Itinerario concettuale esperito. D’altronde, dedurre vizio di motivazione della sentenza, significa dimostrare che essa è manifestamente carente di logica e non già opporre alla ponderata ed argomentata valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito, una diversa ricostruzione dei fatti (così Sez. U., n. 16 del 19/6/1996, Di Francesco, Rv 205621). Esula infatti dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa – e, per il ricorrente, più adeguata – valutazione delle risultanze processuali ( Sez. U., n. 6402 del 30/4/1997, Dessimone, Rv. 207941). Nel caso in esame, la Corte d’appello ha ribaltato l’epilogo decisorio sulla base di un’accurata confutazione delle argomentazioni espresse dal Tribunale, incentrate, in particolare, sull’esonero della responsabilità del datore di lavoro, per effetto della delega conferita ad un professionista e sull’esonero di responsabilità del direttore generale dell’azienda, in persona di B.S., in base alla considerazione che la stessa non era mai stata incaricata di occuparsi della formazione ed informazione dei lavoratori e che non aveva mai ricevuto alcuna esplicita delega in materia di sicurezza sul lavoro.
4. Tanto rilevato in via preliminare, occorre evidenziare come i motivi di ricorso di entrambi gli imputati, risultino infondati.
4.1. Deve esaminarsi, in primo luogo, l’aspetto riguardante la legittimità della decisione sul punto concernente la posizione di garanzia rivestita dagli imputati, posizione che è stata messa in dubbio dai ricorrenti. Ebbene, questo aspetto è stato correttamente ed adeguatamente affrontato dalla Corte territoriale in sentenza, dove si evidenzia che DP.C.., in qualità di datore di lavoro, aveva il precipuo compito di valutare, con precisione, tutti i rischi ed i fattori di pericolo cui erano esposti i lavoratori in relazione ai compiti loro affidati e di verificare la efficacia del documento di valutazione dei rischi; la B.S., in qualità di direttore generale e responsabile del centro cottura di Fiesole, per la sua posizione dirigenziale, aveva il compito di fornire adeguate informazioni ai lavoratori addetti a quel reparto, in relazione al funzionamento delle macchine ivi esistenti ed ai rischi a cui si esponevano durante il loro impiego, nonché, di attuare una organizzazione del lavoro che tenesse indenne da eventuali infortuni i lavoratori inesperti.
Con riferimento all’aspetto della titolarità, in capo a B.S., di specifici obblighi di garanzia, di cui la difesa fa questione nel secondo e terzo motivo di ricorso, la Corte territoriale ha correttamente rilevato che la imputata era stata formalmente nominata direttore generale pro-tempore della soc. “Qualità e servizi s.p.a.” dal primo maggio dell’anno 2009 e che, già prima di quella data, si era occupata di una serie di incombenze che rivelavano la sua posizione dirigenziale nell’azienda e nella struttura denominata “Centro cottura di Fiesole”.
La B.S., ha affermato la Corte territoriale, in quanto investita di tale funzione, era destinataria, iure proprio, al pari del datore di lavoro, degli obblighi di formazione e informazione dei lavoratori circa i rischi scaturenti dalle lavorazioni eseguite nel centro di cottura.
L’assunto difensivo, secondo il quale tale responsabilità non è configurabile in capo all’imputata, non è sostenibile. Il ragionamento seguito dalla Corte territoriale, appare immune da vizi logici ed è conforme ai principi espressi in proposito dalla Corte di legittimità, in virtù dei quali, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il direttore generale di una struttura aziendale è destinatario iure proprio, al pari del datore di lavoro, dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega di funzioni. Ciò in quanto, in virtù della posizione apicale ricoperta, assume una posizione di garanzia in materia antinfortunistica a tutela della incolumità e della salute dei lavoratori dipendenti (così Sez. 4, n. 22249 del 14/03/2014, Rv. 259228).
Alla luce della motivazione espressa dalla Corte territoriale, appare infondata anche l’ulteriore censura elevata dalla difesa della ricorrente, in base alla quale lo svolgimento di funzioni verticistiche in un’azienda, non si traduce, in un’automatica assunzione di responsabilità per l’inosservanza della normativa di sicurezza, dovendosi sempre considerare l’effettivo contesto organizzativo esistente. Ebbene, sul punto, la Corte ha offerto sufficiente motivazione, affermando che la ricorrente, in base alle risultanze processuali, aveva da tempo assunto la funzione, anche di fatto, di responsabile del centro, ricavando tale dato dalla predisposizione di turni di servizio degli altri dipendenti (ammessa dalla stessa imputata), dalie dichiarazioni dei testi, dalla documentazione prodotta dalla parte civile. Benché la difesa abbia rilevato che la documentazione prodotta dalla parte civile sia assolutamente inconferente e che il richiamo alle testimonianze assunte in primo grado fosse generico, dalle emergenze probatorie acquisite in primo grado, di cui dà atto il Tribunale in sentenza, risulta che la B.S. si recava nel centro di Fiesole “ad organizzare il lavoro della giornata, ad accertarsi di cosa mancasse ed a prendere gli ordini, che ricevesse e vistasse questi ultimi quando non andava personalmente in loco, che parlava con i dipendenti di come organizzare il lavoro e della manutenzione dei macchinari” (così pag. 18 della sentenza di primo grado).
Orbene, per pacifica giurisprudenza, l’assunzione, in via di fatto, della qualità di datore di lavoro, di dirigente o di preposto determina, in virtù del principio di effettività, l’acquisizione della corrispondente posizione di garanzia in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro (cfr. Sez. 4, n. 22246 del 28/02/2014, Rv. 259224). Sul punto, non può trascurarsi come recenti e importanti arresti della giurisprudenza di legittimità abbiano ribadito il principio secondo cui in tema di reati omissivi colposi, la posizione di garanzia può essere generata non solo da investitura formale, ma anche dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante, mediante un comportamento concludente dell’agente, consistente nella presa in carico del bene protetto (cfr. Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014, Rv. 261107; Sez. 4, n. 2536 del 23/10/2015, Rv. 265797). Parimenti, è ius receptum che, in tema di omicidio o lesioni colpose derivanti da infortuni sul lavoro, se più sono i titolari della posizione di garanzia (nella specie, relativamente al rispetto della normativa antinfortunistica sui luoghi di lavoro), ciascuno è, per intero, destinatario dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, con la conseguenza che, se è possibile che determinati interventi siano eseguiti da uno dei garanti, è, però, doveroso per l’altro o per gli altri garanti, dai quali ci si aspetta la stessa condotta, accertarsi che il primo sìa effettivamente intervenuto, anche quando le posizioni di garanzia siano sullo stesso piano (cfr. Sez. 4, n. 38810 del 19/04/2005, Rv. 232415; Sez. 4, n. 45369 del 25/11/2010, Rv. 249072).
Sulla base di tali considerazioni, appare immune da censure la conclusione cui perviene la Corte territoriale, in base alla quale, la B.S. dovesse considerarsi destinataria delle norme prevenzionali, al pari del coimputato.
In virtù di ciò, come si evidenzia in sentenza, costei avrebbe dovuto informare le dipendenti dei rischi esistenti ed adottare tutte le misura relative alla organizzazione del lavoro necessarie ad evitare che lavoratori inesperti venissero coinvolti in lavorazioni pericolose.
4.2 Quanto alla posizione di DP.C.., è il caso di rammentare, che «In tema di prevenzione degli infortuni, il datore di lavoro ha l’obbligo di analizzare e individuare con il massimo grado di specificità, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda, avuto riguardo alla casistica concretamente verificabile in relazione alla singola lavorazione o all’ambiente di lavoro, e, all’esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall’art. 28 del D.Lgs. n. 81 del 2008, all’interno dei quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori» (così, di recente, Sez. 4, n. 20129 del 10/03/2016, Serafica, Rv. 267253, conformemente all’insegnamento delle Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261109).
In linea con tale insegnamento, la Corte territoriale ha ritenuto che l’imputato non potesse essere mandato esente da responsabilità, come aveva fatto il primo giudice.
Ha invero condivisibilmente affermato che il rischio connesso alla presenza, tra gli strumenti messi a disposizione dei lavoratori, di una macchina (brasiera multifunzione) idonea ad essere utilizzata anche per la cottura a pressione, costituendo un pericolo “notorio anche nelle ordinarie cucine dei privati”, dovesse essere opportunamente previsto e valutato.
Il fatto che quella macchina fosse presente nel Centro di cottura fin dal 2001, non esonerava da responsabilità il datore di lavoro che aveva assunto tale carica successivamente. Invero, come ha correttamente sostenuto la Corte territoriale, da tale momento, il ricorrente diventava titolare in proprio, dell’obbligo di adeguata valutazione dei rischi. Egli, pertanto, avrebbe dovuto prevedere i rischi connessi all’uso di tale macchinario nella sua funzione di pentola a pressione ed adottare tutte le misure necessarie ad evitarli.
Né la circostanza che DP.C.. si sia avvalso della collaborazione di un tecnico, nella redazione del documento di valutazione dei rischi, è circostanza suscettibile di esonero di responsabilità.
Come si è già affermato in precedenza «In tema di infortuni sul lavoro, il conferimento a terzi della delega relativa alla redazione del documento di valutazione dei rischi, non esonera il datore di lavoro dall’obbligo di verifícarne l’adeguatezza e l’efficacia, di informare i lavoratori dei rischi connessi ai lavori in esecuzione e di fornire loro una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro e alle proprie mansioni» (Sez. 4, n. 22147 del 11/02/2016, Morini, Rv. 266859).
Quindi, a parte ogni considerazione sulle modifiche intervenute nell’assetto dell’azienda, riguardanti l’assenza per ferie del cuoco titolare e la mancanza di altre pentole funzionanti, rimane fermo, a monte, l’obbligo, in capo a DP.C.., di una valutazione del rischio che includesse il macchinario della brasiera nella modalità di cottura a pressione.
Tale aspetto è messo in rilievo dalla Corte territoriale a pagina 7 della sentenza impugnata, nella parte in cui afferma: “Il fatto che il datore di lavoro, per operare correttamente tale valutazione, si avvalga di un tecnico esperto nella materia non ne esclude dunque la responsabilità in caso di omissioni o errori, rimanendo egli titolare della funzione fondamentale di garantire la sicurezza sul luogo di lavoro, la quale presuppone, come requisito indispensabile, che i rischi ivi presenti siano in primo luogo esaustivamente e specificamente individuati, al fine di poter poi prevedere le idonee misure precauzionali”.
Alla luce di tali considerazioni, che risultano assorbenti rispetto alle ulteriori tematiche introdotte dalla Corte d’appello e dalla difesa nel ricorso, è indubbiocChe il DP.C.. avesse un preciso obbligo di prevedere e valutare ogni possibile rischio collegato all’uso del macchinario presente nel reparto cottura.
La Corte d’appello, ha anche valutato l’ulteriore aspetto riguardante l’aggiornamento del documento di valutazione dei rischi in relazione ai mutamenti che si erano verificati nel reparto aziendale del centro di Fiesole.
L’assunto difensivo, secondo il quale l’imputato non era tenuto ad aggiornare il documento di valutazione dei rischi, è anch’esso destituito di fondamento. Il documento in questione, è uno strumento duttile, che deve essere adeguato e attualizzato, in relazione ai mutamenti sopravvenuti nell’azienda che sono potenzialmente suscettibili di determinare nuove e diverse esposizioni a rischio dei lavoratori. Sotto questo profilo, la Corte territoriale, ha correttamente applicato i principi stabiliti in materia dalla Corte di legittimità che, in numerose pronunce, ha ribadito che incombe sul datore di lavoro l’onere di provvedere, non solo ad individuare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti aH’intemo dell’azienda, ai fini della redazione del suddetto documento, ma anche di provvedere al suo aggiornamento (così Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014, Rv. 261109).
4.3 Quanto alla doglianza riguardante la mancata contestazione dell’addebito della omessa formazione delle lavoratici, oggetto del terzo motivo di ricorso proposto in favore di DP.C.., occorre rammentare che «In tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (Fattispecie in cui è stata riconosciuta la responsabilità degli imputati per lesioni colpose conseguenti ad infortunio sul lavoro non solo per la contestata mancata dotazione di scarpe, caschi ed imbracature di protezione ma anche per l’omessa adeguata informazione e formazione dei lavoratori)» (così, Sez. 4, n. 35943 del 07/03/2014, Denaro, Rv. 260161; in senso conforme, Sez. 4, n. 51516 del 21/06/2013, Miniscalco, Rv. 257902; Sez. 3, n. 19741 del 08/04/2010, Minardi, Rv. 247171; Sez. 4, n. 31968 del 19/05/2009, Raso, Rv. 245313; Sez. 4, n. 2393 del 17/11/2005, dep. 2006, Tucci, Rv. 232973; Sez. 4, ord. n. 38818 del 04/05/2005, De Bona, Rv. 232427).
Pertanto, alla luce di tale consolidato orientamento, deve ritenersi non fondata la censura difensiva riguardante l’addebito, formalmente non contestato all’imputato, della omessa formazione delle lavoratrici.
4.4. In ordine alle doglianze riguardanti la formazione delle dipendenti coinvolte nell’infortunio che non erano addette alla cucina, avanzate da entrambi i difensori, occorre ritenere pertinente il rilievo effettuato dalla Corte di appello circa la esistenza, sul luogo di lavoro frequentato dalle lavoratrici, di condizioni di rischio per le quali era necessario, comunque, provvedere ad un’adeguata formazione-informazione delle suddette dipendenti. In tale caso, infatti, è corretto riferirsi ad una nozione di luogo di lavoro che non può intendersi limitata alla semplice postazione di lavoro, come sembra prospettare la difesa di DP.C…
La Corte di legittimità ha avuto modo di occuparsi ripetutamente della nozione di luogo di lavoro, anche alla luce deld.lgs. n. 81 del 2008, affermando la permanenza di principi rimasti sostanzialmente immutati nello sviluppo della legislazione antinfortunistica. A norma dell’art. 62, d.lgs. n. 81/2008, sono luoghi di lavoro quelli destinati ad ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell’azienda o dell’unità produttiva, accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro. Si è chiarito che, ai fini della individuazione dei soggetti gravati da obblighi prevenzionistici, la identificazione di uno spazio quale luogo di lavoro, non può prescindere dalla identificazione del plesso organizzativo al quale lo spazio in questione accede. Ciò, si ricaverebbe dalla definizione legale, che prevede un collegamento di ordine spaziale o almeno pertinenziale tra l’azienda o l’unità produttiva e il luogo di lavoro. Inoltre, si desumerebbe dalla stessa logica della normativa prevenzionistica, che attribuisce obblighi prevenzionistici a colui che é titolare di poteri organizzativi e decisionali che trovano, nei luoghi di lavoro, il proprio ambito di estrinsecazione. Si è pure evidenziato, che ogni tipologia di spazio può assumere la qualità di “luogo di lavoro”, a condizione che ivi sia ospitato almeno un posto di lavoro o che esso sia accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro. Sulla base di tali argomentazioni, si è affermato che nella nozione di luogo di lavoro rientra anche quello nel quale i lavoratori si trovino esclusivamente a dover transitare, se tuttavia il transito é necessario per provvedere alle incombenze affidate loro (così, in motivazione, Sez. 4, n. 48246,  del 29/10/2015). Alla luce di tali principi ed in rapporto di continuità con essi, in tempi più di recenti, si è affermato che: «Il datore di lavoro risponde dell’infortunio occorso al lavoratore, in caso di violazione degli obblighi, di portata generale, relativi alla valutazione dei rischi presenti nei luoghi di lavoro nei quali siano chiamati ad operare i dipendenti, e della formazione dei lavoratori in ordine ai rischi connessi alle mansioni, anche in correlazione al luogo in cui devono essere svolte» (così Sez. 4, n. 45808del 27/06/2017, Rv. 271079).
Pertanto, la ricostruzione operata dalla Corte territoriale, è condivisibile, essendo conforme agli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità, l’affermazione secondo la quale le due lavoratrici non addette alla cottura, tra cui la S.A. (la cui posizione viene particolarmente in rilievo, in conseguenza della sua costituzione di parte civile nel giudizio), dovevano essere informate dei rischi presenti in cucina.
4.5 In ordine all’asserita abnormità del comportamento delle lavoratrici, motivo comune ad entrambi i difensori, deve ritenersi infondata la doglianza riguardante la possibilità di ritenere che il comportamento delle lavoratrici sia stato causa sufficiente, da sola, a determinare l’evento, ai sensi dell’art. 41, comma 2, cod. penale.
La giurisprudenza di legittimità, invero, è concorde nel sostenere che non possa discutersi di responsabilità (o anche solo di corresponsabilità) del lavoratore per l’infortunio, quando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità, come nel caso in esame (Sez.4, n.22044 del 2/05/2012, Goracci, n.m.; Sez.4, n.16888 del 07/02/2012, Pugliese, Rv. 252373; Sez.4, n.21511 del 15/04/2010, De Vita, n.m.). Le disposizioni antinfortunistiche perseguono, infatti, il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, per cui gli aspetti del rischio da gestire, da parte del garante, devono necessariamente includere l’esigenza del rispetto della normativa prevenzionale da parte dei lavoratori, dovendo, il datore di lavoro evitare che i destinatari delle direttive di sicurezza, seguino prassi di lavoro non corrette, foriere di pericoli (Sez.4, n.4114 del 13/01/2011, n.4114, Galante, n.m.; Sez. F, n.32357 del 12/08/2010, Mazzei, Rv. 2479962).
E’, pertanto, esente da censure la conclusione del giudice a quo, secondo cui, la condotta colposa degli imputati è stata causa dell’evento lesivo. Tale asserto è perfettamente in linea con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui compito del titolare della posizione di garanzia è di evitare che si verifichino eventi lesivi dell’incolumità fisica, intrinsecamente connaturati all’esercizio di talune attività lavorative, anche nell’ipotesi in cui siffatti rischi siano una conseguenza di eventuali negligenze, imprudenze e disattenzioni dei lavoratori subordinati, la cui incolumità deve
essere protetta con appropriate cautele. Il garante non può, infatti, invocare, a propria scusa, il principio di affidamento, assumendo che il comportamento del lavoratore era imprevedibile, poiché tale principio non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia (Sez. 4., 22/10/1999, Grande, Rv. 214497). Il garante, dunque, ove abbia negligentemente e imprudentemente omesso di attivarsi per impedire l’evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l’errore sulla legittima aspettativa in ordine all’assenza di condotte imprudenti, negligenti o imperite da parte dei lavoratori, poiché il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l’incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse imprudenze e negligenze o dai suoi stessi errori, purché connessi allo svolgimento dell’attività lavorativa (Sez. 4, n. 18998 del 27/3/2009, Rv. 244005).
Deve peraltro evidenziarsi, conformemente a quanto argomentato dal giudice d’appello, come fosse altamente prevedibile la circostanza che la S.A., data l’assenza di altri cuochi, si adoperasse per aiutare l’unica persona presente nel suo reparto, addetta alla cottura dei cibi.
Tale comportamento, non presentando le caratteristiche della eccezionalità e dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive impartite dal garante della sicurezza, non può ritenersi abnorme.
In proposito, la Corte di legittimità ha avuto modo di precisare che: « In tema di prevenzione antinfortunistica, poiché le relative norme mirano a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza ed imperizia, la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell’obbligo di adottare le misure di prevenzione può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un comportamento del lavoratore che presenti i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, che sia del tutto imprevedibile o inopinabile. Peraltro, in ogni caso, nell’ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall’assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento» (Sez. 4, n. 38877 del 29/09/2005, Rv. 232421).
5. Con riferimento all’ulteriore, residua questione posta dalla difesa di B.S. nel primo motivo di ricorso, occorre rilevare come le critiche difensive, attraverso la dedotta illogicità della sentenza, siano tese a richiamare l’attenzione della Corte su aspetti che attengono al merito della vicenda. La critica al percorso argomentativo della Corte territoriale, da parte del difensore dell’imputata, è incentrata sul dato fattuale, pretermesso dal giudice della sentenza impugnata, che sul luogo di lavoro era stata prevista la presenza di un dipendente comunale che avrebbe dovuto coadiuvare la cuoca S.C.. Pertanto, secondo la tesi difensiva, valutando tale elemento, il giudice sarebbe dovuto giungere alla conclusione che non era necessario alcun intervento delle due lavoratrici presenti sul posto (S.A. e B.N.), in favore della cuoca.
L’aspetto evidenziato non è dirimente. Anche a volere ammettere la circostanza rappresentata dalla difesa, essa non spiega alcuna influenza sull’apprezzamento delle violazioni rilevate dalla Corte territoriale in capo ai ricorrenti.
6. Le questioni afferenti al trattamento sanzionatorio adottato dalla Corte di appello, sono superate dalla intervenuta declaratoria di estinzione del reato per prescrizione. Occorre invece por mente alla dedotta erroneità del calcolo della entità della provvisionale riconosciuta alla parte civile, su cui hanno espresso analoghe doglianze entrambi i difensori. La censura è infondata. Invero, per consolidato orientamento della Corte di legittimità, il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva, non è impugnabile per cassazione, in quanto trattasi di statuizione per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinata ad essere travolta dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento (così, ex multis Sez. 2, n. 49016 del 6/11/14 Rv. 261054).
7. Si impone pertanto l’annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza agli effetti penali per essere il reato di lesioni colpose, estinto per intervenuta prescrizione, con rigetto del ricorso agli effetti civili. Si condannano i ricorrenti al pagamento, in solido, delle spese sostenute dalla parte civile, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali per essere il reato di lesioni colpose estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese sostenute dalla parte civile S.A., che liquida in complessivi euro 2.500,00 oltre accessori come per legge.
Roma, così deciso il 7 novembre 2017

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