Mancanza di istruzioni sulla possibilità per i dipendenti di abbandonare rapidamente il posto di lavoro in caso di pericolo di caduta di lastre di marmo. Nessun comportamento abnorme dell’apprendista.
Presidente: D’ISA CLAUDIO
Relatore: MONTAGNI ANDREA
Data Udienza: 01/06/2016
Fatto
1. La Corte di Appello di Catania, con sentenza in data 29.09.2015, per quanto rileva in questa sede, confermava la sentenza di condanna resa dal Tribunale di Ragusa il 27.02.2014, nei confronti di S.R. e SA.R., in relazione al reato di lesioni colpose, di cui al capo b). Ai prevenuti, nella qualità di amministratori della L. srl, per colpa consistita nell’aver omesso di disporre idonee cautele e di impartire istruzioni in ordine alla possibilità per i dipendenti di abbandonare rapidamente il posto di lavoro in caso di pericolo di caduta di lastre di marmo sollevate da autogru, si contesta di aver cagionato le lesioni descritte in rubrica al dipendente C.B., che era intento al carico di lastre di marmo su un autocarro e che si trovava in uno spazio intermedio, insufficiente ad evitare danni fisici a seguito di eventuali cadute delle lastre; lesioni conseguenti alla caduta addosso al dipendente di lastre scivolate dall’imbracatura dell’autogrù.
La Corte di Appello, richiamato il disposto di cui all’art. 33, comma 13, d.lgs. 626/1994, rilevava che gli imputati non avevano adottato le cautele necessarie affinché i dipendenti non venissero investiti dal materiale. Segnatamente, il Collegio evidenziava che i prevenuti non avevano fornito istruzioni ai dipendenti, su come controllare le lastre, mentre erano ferme, una volta sollevate da terra. Nel procedere alla ricostruzione della dinamica del sinistro, la Corte territoriale si soffermava sulla deposizione del teste P., il quale al momento dell’incidente si trovava con l’apprendista C.B.. Ciò posto, la Corte riferiva che il teste P., del servizio di prevenzione infortuni, aveva chiarito che nell’azienda vi era una sottovalutazione dei rischi derivanti dalla caduta delle lastre; e che gli ispettori del lavoro avevano impartito prescrizioni, all’indomani del sinistro, proprio al fine di evitare l’accesso dei dipendenti nello spazio ristretto tra i cavalletti. La Corte distrettuale escludeva che la condotta del dipendente infortunato potesse qualificarsi come eccezionale o imprevedibile, giacché era stato accertato che abitualmente gli addetti al controllo delle lastre entravano all’Interno degli stretti corridoi che si formavano tra le lastre medesime.
2. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Catania hanno proposto ricorso per cassazione S.R. e SA.R., a mezzo del difensore.
Con il primo motivo i ricorrenti reiterano la censura afferente alla intervenuta violazione di legge in riferimento al principio di necessaria correlazione tra il fatto contestato e quello ritenuto in sentenza. Le parti osservano che il primo giudice ebbe a ritenere integrati profili di colpa diversi da quelli descritti nel capo a) della rubrica ed espressamente richiamati nel capo b), ipotesi di reato per cui oggi si procede. Osservano, al riguardo, che il Tribunale ha valorizzato una presunta scorretta modalità operativa di controllo delle lastre in movimento. Sul punto, rilevano che dalla istruttoria dibattimentale era emerso che le lastre erano ferme.
Ciò posto, i ricorrenti osservano che la Corte di Appello ha individuato un ulteriore profilo di colpa a carico dei prevenuti, nella mancanza di istruzioni impartite ai dipendenti, profilo estraneo alla contestazione originaria, ove si faceva specificamente riferimento alla norme cautelari dettate dal d.lgs. n. 626/94, art. 33, comma 13; e dal d.P.R. n. 547/1955, art. 389, lett. b). E rilevano che erroneamente la Corte di Appello, anche su detto punto, ha ritenuto corretta la sentenza di primo grado.
Con ulteriore motivo le parti denunciano il travisamento della prova, refluente sulla affermazione di responsabilità.
A sostegno dell’assunto, i ricorrenti osservano che i giudici hanno omesso di rilevare le plurime discrasie in cui è incorsa la parte civile, rispetto alla ricostruzione della dinamica del sinistro; e di qualificare come abnorme la condotta posta in essere dall’operaio apprendista, rimasto infortunato. Gli esponenti riportano, quindi, stralci delle dichiarazioni rese dalla parte offesa C.B. ed altri testi in dibattimento. Osservano che i giudici di merito hanno confuso l’imbracatura delle lastre con l’attività di controllo delle lastre; che erroneamente hanno fatto riferimento agli esiti del sopralluogo effettuato dall’Ispettorato del Lavoro in data 23.01.2008, laddove l’incidente si era verificato il 20.06.2007; e che le nuove prescrizioni di sicurezza concordate tra la società L. e l’Ispettorato riguardano lo svolgimento della futura attività aziendale e non possono assumere portata retroattiva, con riguardo al giorno in cui ebbe a verificarsi l’incidente.
Con altro motivo le parti denunciano il vizio motivazionale, osservando che a carico dei prevenuti non è stata accertata la violazione di leggi o di norme di comportamento in tema di sicurezza. Osservano di aver impartito ai dipendenti specifiche istruzioni per garantire la massima sicurezza, anche avvalendosi di consulente esterno. E considerano che la Corte territoriale non ha rilevato i fattori di interruzione del nesso causale, discendenti al comportamento dei colleghi di lavoro dell’infortunato.
Con l’ultimo motivo i ricorrenti osservano che il datore di lavoro, nel caso in cui le lastre siano ferme, come nel caso di specie, non ha alcuna istruzione da impartire ai lavoratori. Rilevano che i giudici di merito hanno omesso di considerare la presenza di vie di fuga laterali rispetto alla posizione delle lastre sollevate; che neppure è stato considerato il legittimo affidamento riposto dagli esponenti sul rispetto delle direttive ricevute, da parte dei dipendenti, avuto riguardo al fatto che il lavoratore infortunato aveva da poco partecipato ad un corso di formazione sulle corrette modalità di movimentazione dei carichi.
Diritto
1. Il ricorso in esame, muove alle considerazioni che seguono.
2. Occorre primieramente rilevare che il termine prescrizionale massimo relativo all’ipotesi di reato in addebito, pari ad anni sette e mesi sei, risulta decorso in data 20.11.2015, tenuto conto delle intervenute sospensioni.
Come noto, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva. Occorre, peraltro, considerare che le Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione hanno chiarito che il disposto di cui aH’art. 129 cod. proc. pen., laddove impone di dichiarare la causa estintiva quando non risulti evidente che il fatto non sussiste, che l’imputato non lo ha commesso, ecc., deve coordinarsi con la presenza della parte civile e di una condanna in primo grado che impone ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen. di pronunciarsi sulla azione civile; e che in tali ipotesi, la valutazione della regiudicanda non deve avvenire secondo i canoni di economia processuale che impongono la declaratoria della causa di proscioglimento quando la prova della innocenza non risulti ictu oculi. La pronuncia ex art. 578 cod. proc. pen. impone, cioè, pur in presenza della causa estintiva, un esame approfondito di tutto il compendio probatorio, ai fini della responsabilità civile (Cass. Sez. U, sentenza n. 35490 del 28.5.2009, dep. 15.09.2009, Rv. 244273).
3. Tanto ritenuto, è dato procedere all’esame delle diverse questioni affidate ai motivi di ricorso.
4. L’eccezione processuale relativa alla intervenuta violazione dei principi dettati dall’art. 521 cod. proc. pen., denunciata con il primo motivo, non ha pregio.
Come noto, la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che le norme di cui agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen., avendo lo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell’accusa e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato, non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto da una modificazione dell’imputazione che pregiudichi le possibilità di difesa dell’imputato. La nozione strutturale di “fatto”, contenuta nelle disposizioni in questione, va cioè coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa. Il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del pubblico ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice) risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (Cass. Sez. 4, sentenza n. 41663 del 25/10/2005, Rv. 232423). In tale ambito ricostruttivo, si è chiarito che sussiste il mutamento del fatto, quando la fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge subisca una radicale trasformazione nei suoi tratti essenziali, tanto da realizzare un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisce un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Cass. Sez. 6, sentenza n. 36003 del 14/06/2004, Rv. 229756).
Orbene, nel caso di specie, la Corte territoriale ha del tutto correttamente richiamato il contenuto della originaria contestazione, che fa riferimento alla mancata adozione di cautele ed istruzioni in ordine alla possibilità per i dipendenti di abbandonare rapidamente il posto di lavoro in caso di pericolo di caduta delle lastre di marmo sollevate mediante autogru. Muovendo da tale postulato, il Collegio ha quindi chiarito che la lastra aveva potuto investire il C.B., solo perché l’imbragatura aveva ceduto, proprio dal lato ove si trovava il predetto lavoratore; e che, nel momento in cui le lastre erano ferme – specifico segmento dell’attività lavorativa, certamente ricompreso nell’oggetto della contestazione, sopra richiamato – era usuale per gli operai entrare nei corridoi tra le lastre per controllarle sui due lati.
Come si vede, il percorso motivazionale sviluppato dalla Corte territoriale, nell’escludere la ricorrenza del denunciato difetto di correlazione tra accusa e sentenza, discende dalla individuazione di profili di colpa, riferibili agli odierni imputati, che risultano del tutto coerenti rispetto al contenuto descrittivo della contestazione, come esplicitato negli originari capi di imputazione.
5. In tali termini si introduce l’esame congiunto dei restanti motivi di ricorso, affidati a censure che involgono la comune doglianza, circa la mancata qualificazione del comportamento posto in essere dalla vittima come abnorme, rispetto alle prescrizioni di sicurezza impartite dagli esponenti.
Giova premettere che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di legittimità “deve essere limitato soltanto a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l’adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali” (in tal senso, “ex plurimis”, Sez. 3, n. 4115 del 27.11.1995, dep. 10.01.1996, Rv. 203272).
Così delineato l’orizzonte del presente scrutinio, deve osservarsi che la Corte di Appello di Catania ha escluso che il comportamento posto in essere dal C.B. possa qualificarsi come abnorme, secondo le valutazioni che seguono. Il Collegio ha chiarito che era condotta usuale quella di rimanere ai lati delle lastre, quando ancora erano in movimento; e che, nel momento in cui le lastre erano ferme, era parimenti usuale che i lavoratori entrassero nei corridoi formatisi tra le lastre. La Corte distrettuale ha quindi chiarito che presso l’azienda di cui si tratta, se pure ben organizzata, c’era una sottovalutazione del rischio che i dipendenti addetti al controllo delle lastre potessero essere investiti dalle lastre cadute accidentalmente; con la precisazione che l’organizzazione del piazzale non era adeguata a garantire le vie di fuga ai dipendenti nel caso di caduta accidentale delle lastre e che, proprio per tale ragione, gli ispettori del lavoro aveva prospettato, all’indomani del sinistro, diverse soluzioni organizzative relative alle modalità di controllo della lastre.
Sulla scorta di tali plurimi e conferenti rilievi, saldamente ancorati all’acquisito compendio probatorio e logicamente conferenti, la Corte di Appello ha evidenziato che la condotta tenuta dal C.B. non presentava i caratteri dell’eccezionalità e dell’imprevedibilità; e che, al contrario, risultava accertato che i dipendenti addetti al controllo delle lastre erano soliti entrare all’interno degli stretti corridoi tra le lastre medesime, al fine di procedere ai compiti loro assegnati; e che tale procedura non garantiva uno spazio sufficiente per darsi alla fuga, in caso di caduta delle lastre.
A margine di tali rilievi, il Collegio chiariva che era risultato assodato che al momento in cui ebbe a verificarsi l’incidente non erano state adottate le opportune cautele; e che specifiche cautele erano state poste in essere solo successivamente all’infortunio, al fine di evitare il ripetersi di incidenti di tale natura. Preme evidenziare che la Corte di Appello ha considerato che le linee guida adottate dalla regione Toscana non hanno valore normativo generale, come sottolineato dalla difesa degli imputati; e che, non di meno, l’attività di controllo delle lastre di marmo, di cui si tratta, implica un evidente fattore di rischio per i dipendenti e richiede l’adozione di cautele e la consegna di specifiche istruzioni relative alle modalità di effettuazione delle operazioni di controllo.
Ebbene, la valutazione effettuata dalla Corte territoriale si colloca del tutto coerentemente nell’alveo del consolidato orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, sul tema di interesse. La Corte regolatrice ha da tempo chiarito che nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento negligente del medesimo lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre comunque alla insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente. Sul punto, si è pure precisato che le norme antinfortunistiche sono destinate a garantire la sicurezza delle condizioni di lavoro, anche in considerazione della disattenzione con la quale gli stessi lavoratori effettuano le prestazioni. Deve perciò rilevarsi che le richiamate considerazioni, svolte in sede di merito, si collocano appieno nell’alveo dell’orientamento espresso ripetutamente dalla Corte regolatrice, in riferimento alla valenza esimente da assegnare alla condotta colposa posta in essere dal lavoratore, rispetto al soggetto che versa in posizione di garanzia. Questa Suprema Corte, infatti, ha affermato che, nel C.B. della sicurezza del lavoro, gli obblighi di vigilanza che gravano sul datore di lavoro risultano funzionali anche rispetto alla possibilità che il lavoratore si dimostri imprudente o negligente verso la propria incolumità; e che può escludersi l’esistenza del rapporto di causalità unicamente nei casi in cui sia provata l’abnormità del comportamento del lavoratore infortunato e sia provato che proprio questa abnormità abbia dato causa all’evento. Nella materia che occupa deve, cioè, considerarsi abnorme il comportamento che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro. Deve pure osservarsi che la giurisprudenza di legittimità ha più volte sottolineato che l’eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti aventi l’obbligo di sicurezza che si siano comunque resi responsabili della violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica (cfr. Sez. 4, sentenza n. 3580 del 14.12.1999, dep. il 20.03.2000, Rv. 215686); e ciò con specifico riferimento alle ipotesi in cui il comportamento del lavoratore – come certamente è avvenuto nel caso di specie – rientri pienamente nelle attribuzioni specificamente attribuitegli (Sez. 4, Sentenza n.10121 del 23.01.2007, dep. 9.03.2007, Rv. 236109).
Deve conclusivamente rilevarsi che le valutazioni effettuate dai giudici di merito, in ordine alla non abnormità del comportamento imprudente posto in essere dal lavoratore infortunato, risultano immuni dalle dedotte censure.
6. Per quanto detto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, ai fini penali, perché il reato è estinto per prescrizione. Il ricorso, infatti, se pure non meritevole di accoglimento, per le ragioni sopra esposte, non presenta profili di inammissibilità. Di converso, il ricorso deve essere rigettato a fini civili, con conferma delle relative statuizioni.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio agli effetti penali perché il reato è estinto per prescrizione.
Rigetta il ricorso agli effetti civili.
Così deciso in Roma in data 01.06.2016.