Cassazione Penale, Sez. 4, 10 agosto 2015, n. 34695

La Corte di Cassazione si sofferma sul tema della qualificazione come “caso fortuito”, in quanto tale per legge causa di esonero della responsabilità del datore di lavoro, nella materia della prevenzione infortuni. I Supremi Giudici, nel delimitare il perimetro applicativo della causa di non punibilità in questione, escludono che il datore di lavoro possa invocare il “fortuitus” quando il fattore determinante l’incidente sia prevedibile con l’ordinariadiligenza da parte del datore di lavoro.


 

Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: D’ISA CLAUDIO
Data Udienza: 05/05/2015

Fatto

Z.A. ricorre per cassazione avverso la sentenza, indicata in epigrafe, della Corte d’appello di Napoli di conferma di quella di condanna emessa dal Tribunale di Benevento il 23.10.2008 in ordine al delitto di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche.
Lo Z.A., il giorno 8.05.2006, alla guida della macchina operatrice Fiat “Kobelco” targata AA Y 365, svolgendo attività di trasporto di materiale edile nel cantiere, per il rifacimento di alcuni fabbricati nel centro storico di Campolattaro, della “A. ARCHITETTURA E COSTRUZIONI s.r.l.”, della quale era titolare e responsabile, investiva T.G., che a piedi transitava posteriormente al veicolo; l’investito decedeva nell’immediatezza per le lesioni riportate.
L’investimento era causalmente riconducibile alle condizioni di inefficienza degli pneumatici del veicolo, i cui battistrada risultavano fortemente logorati, concorrendo anche nella produzione, dell’evento l’aver utilizzato il veicolo -peraltro a pieno carico operativo- con pneumatici nelle sopra descritte condizioni; su un piano di lavoro con accentuata pendenza, e con bassa coefficiente di attrito (presenza di ghiaia sui piano stradale);
Quindi, all’imputato, sotto il profilo di colpa specifica, nella qualità di titolare della ditta edile e di responsabile del cantiere, venivano contestate le violazioni di cui agli. artt. 374 del DPR n. 547/55 e 22, 12 del D. Lgs. n. 494/96 per non aver tenuto il veicolo in condizioni di efficienza (art. 374), e per non aver rispettato il piano di sicurezza e coordinamento, nella parte relativa all’apprestamento della recinzione del cantiere, in quanto quella apposta, trovandosi a maggior distanza dal muro rispetto a quanto previsto dal piano, consentiva di fatto il passaggio pedonale ed, in specie, il transito del T.G., persona estranea al cantiere, mancando, peraltro, ogni segnalazione di divieto di transito.
Il Tribunale, nell’affermare la responsabilità dell’imputato, non accoglieva la tesi difensiva circa l’interruzione del nesso di causalità per lo scoppio del pneumatico posteriore e per lo spostamento da parte della vittima delle transenne collocate per impedire l’accesso nel cantiere ad estranei, in quanto l’incidente mortale era da ricondurre proprio all’inefficienza dei battistrada del veicolo guidato dall’imputato e dalla violazione del piano di sicurezza che imponeva l’obbligo di impedire ai residenti il passaggio durante l’orario di lavoro.
La Corte d’appello adita dallo Z.A. ha fatto proprio l’impianto motivazionale della sentenza di primo grado ritenendo infondati i motivi posti a base del gravame di merito.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge nella specie degli artt. 40 e 41 del codice penale.
Si argomenta che il Giudice di appello evidenzia due circostanze:
I. Il T.G. era entrato all’interno di un cantiere recintato;
2. Il T.G. aveva spostato le transenne che circondavano il cantiere. Da tale accertamento si evincono due ulteriori dati: il primo riguarda la predisposizione da parte dello Z.A. di adeguate misure poste per interdire l’accesso al cantiere, così come previsto dal Piano di sicurezza, misure che il T.G. evadeva consapevolmente ed in modo imprevedibile, introducendosi furtivamente nel cantiere, e questo è il secondo dato incontrovertibile.
Tali elementi confermano la tesi difensiva secondo cui la condotta del T.G. prima, consistita appunto nello spostare le transenne per entrare nel cantiere, e lo scoppio del pneumatico condotto dallo Z.A. poi, abbiano interrotto, quali cause sopravvenute autonome, il nesso causale, e dunque proprio perché imprevedibili ed inevitabili determinano che l’evento morte non può essere condotto ad una condotta colposa dell’ imputato.
Con il secondo motivo si denuncia altra violazione di legge perla mancata assunzione di una prova decisiva.
La Corte di Appello di Napoli rigettava la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ex art. 603, co. 2, c.p.p. avanzata ai sensi dell’art. 585, comma 4, c.p.p. In particolare, si rappresentava che, a seguito della morte del T.G., le indagini si erano rivolte solo nei confronti dello Z.A.. Dopo la sentenza di primo grado, venivano però avviate nuove indagini nei confronti di ulteriori soggetti che ricoprivano posizioni di garanzia quali responsabili dei lavori, direttori dei lavori, coordinatori della sicurezza in fase di progettazione.
La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale richiesta consisteva nell’acquisire la documentazione di tale processo la cui richiesta di rinvio a giudizio era successiva alla sentenza di primo grado. Né tanto meno si può ritenere, come affermato dal Giudice di seconde cure, che tale rinnovazione doveva considerarsi preclusa per la scadenza del termine stabilito dall’art. 585, comma 4 per la presentazione dei motivi aggiunti. Tale preclusione, è pacifico in giurisprudenza, opera nell’ipotesi diversa di rinnovazione prevista dall’art. 603, co. 1, c.p.p..

Diritto

I motivi esposti sono infondati e determinano il rigetto del ricorso.
Va precisato che la Corte del merito ha affrontato le stesse censure poste a base del presente ricorso e le relative risposte sono pienamente convincenti e condivisibili in quanto aderenti al dato normativo ed alla giurisprudenza di questa Corte.
Analizzando le due principali censure poste a base del primo motivo del ricorso si evidenzia che quella relativa alla dedotta efficienza della chiusura del cantiere per impedire l’ingresso di estranei ad esso attiene ad una questione di mero fatto, risolta dai giudici del merito con motivazione logica ed esauriente con analisi di tutti gli elementi probatori emersi dall’istruttoria di primo grado.
Invero, il dato di fatto rimasto acquisito con certezza è che la persona offesa, come pure altre persone residenti nella zona, attraversavano il cantiere per giungere alla parte opposta in maniera più celere, rimovendo con facilità le transenne ivi apposte, circostanza questa ben conosciuta all’imputato che, pertanto, come puntualmente evidenziato dai giudici del merito, avrebbe dovuto apporre una recinzione più consistente e, comunque, applicare anche delle segnalazioni di divieto di transito.
Non può, quindi, considerarsi, come diversamente sostiene il ricorrente, lo spostamento delle transenne che recintavano il cantiere da parte del T.G. un comportamento imprevedibile.
Sotto questo profilo, dunque, la censura si rivela inammissibile in quanto il controllo di legittimità si appunta esclusivamente sulla coerenza strutturale “interna” della decisione, di cui saggia la oggettiva “tenuta” sotto il profilo logico-argomentativo e, tramite questo controllo, anche l’accettabilità da parte di un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento e da osservatori disinteressati della vicenda processuale. Al giudice di legittimità è invece preclusa – in sede di controllo sulla motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (preferiti a quelli adottati dal giudice del merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa). Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione (assegnatale dal legislatore) di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard minimo di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione. Esaminato sulla base di queste coordinate, il ricorso è inammissibile in quanto tende a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito e non indica in maniera specifica vizi di legittimità o profili di illogicità della motivazione della decisione impugnata ma mira solo a prospettare una ricostruzione alternativa dei fatti, suggerita come preferibile rispetto a quella adottata dai giudici del merito, ricostruzione che è insuscettibile di valutazione in sede di controllo di legittimità.
Per quanto riguarda poi la dedotta interruzione del nesso di causalità per lo scoppio dello pneumatico parimenti è da condividere la motivazione sul punto dell’impugnata sentenza.
In sostanza, anche se nel ricorso non lo si specifica, nel momento in cui si rappresenta che lo scoppio dello pneumatico (non addebitabile a colpa dell’imputato) si atteggia come causa sopravvenuta, che si è inserita nel corso normale degli eventi provocando un cambiamento nel loro usuale succedersi, si invoca il caso fortuito di cui all’art. 45 cod. pen. laddove si pone l’accento sulla istantaneità dello scoppio.
Ebbene, la rilevanza giuridica del caso fortuito è inesorabilmente legata ad un’azione umana, come riconosce la dottrina assolutamente prevalente, e come è rilevato dalla stessa formulazione dell’art. 45 cod. pen. che, adoperando l’espressione «commettere», suppone la presenza di un comportamento umano, attivo o negativo. Dall’incrocio di questo con l’avvenimento casuale deriva la produzione dell’evento, nel senso che questo, secondo il principio della equivalenza delle cause, è eziologicamente riconducibile alla condotta dell’uomo, il quale tuttavia non ne risponde per l’intervento del fattore causale imprevedibile. Dunque, il caso fortuito presuppone l’integrità del rapporto di causalità materiale tra la condotta e l’evento, collocandosi come causa (soggettiva) di esclusione della punibilità. Questa concezione è contrastata da quella, oggettiva, secondo la quale il fortuito escluderebbe il rapporto materiale. In linea di principio, questa Corte ritiene che la concezione soggettiva risponda compiutamente alla logica del sistema normativo, sia perché l’art. 45, pur non definendo il fortuito, si riferisce a questo come ad un evento (imprevedibile) che si inserisce nel corso di un’azione umana, sia perché la tesi che esclude il rapporto di causalità determinerebbe il carattere pleonastico dell’art. 45, che sarebbe un duplicato dell’art. 41 cpv c.p.; il che sembra inammissibile, per la presunzione di coordinata razionalità che deve pur assistere la redazione di un testo normativo improntato a sistematicità. D’altro canto, questa medesima teoria finisce per ammettere che il caso fortuito esclude la colpevolezza, sia pure come conseguenza riflessa del venir meno del rapporto di causalità materiale (Sez. 4, Sentenza n. 10823 del 25/02/2010 Ud. Rv. 246506, Sez. 4, Sentenza n. 44548 del 17/09/2009 Ud. , Rv. 245469; Cass. SU 14 giugno 1980, Felloni; conformi Cass. Ili 18.12.1997, Rosati, RV 209868, CP 1999, 988; Cass. IV 30.10.1990, Lo Nigro, RV 186075).
Dunque, l’accadimento fortuito, per produrre il suo effetto di escludere la punibilità dell’agente – sul comportamento del quale viene ad incidere – deve risultare totalmente svincolato sia dalla condotta del soggetto agente, sia dalla sua colpa. Ne consegue che in tutti i casi in cui l’agente abbia dato materialmente causa al fenomeno – solo, dunque, apparentemente fortuito – ovvero nei casi in cui, comunque, è possibile rinvenire un qualche legame di tipo psicologico tra il fortuito e il soggetto agente, (nel senso che l’accadimento, pure eccezionale, poteva in concreto essere previsto ed evitato se l’agente non fosse stato imprudentemente negligente o imperito) non è possibile parlare propriamente di fortuito in senso giuridico. (Cass. IV 9 dicembre 1988, Savelli, RV 180850).
Orbene, per il caso sottoposto al nostro esame è un dato di fatto oggettivo che lo pneumatico in questione era usurato e che era del tutto prevedibile, anche in ragione del carico trasportato dalla macchina, che lo stesso potesse scoppiare, come in effetti è accaduto; il che esclude che possa configurarsi il caso fortuito, consistente, come già evidenziato, in quell’avvenimento imprevisto e imprevedibile che si inserisce d’improvviso nell’azione del soggetto e non può in alcun modo, nemmeno a titolo di colpa, farsi risalire all’attività psichica dell’agente. (Cass. IV 31 maggio 1990, D’Attico, RV 184515); conformi Cass. IV 11.3.1986, Panzerolli, RV 174028; Cass. V 31.3.1978, n. 12072, CPMA 1979, 1094; Cass. V 28.4.1978, n. 6401, CPMA 1979, 3).
Anche la censura posta a base del terzo motivo è del tutto infondata, in quanto non rileva processualmente se altre persone hanno parimenti posto in essere condotte colpose che hanno determinato l’evento di cui trattasi, ai fini della valutazione della responsabilità colposa del ricorrente che è stata ben delineata (sia sotto il profilo di colpa generica che specifica) nei suoi elementi soggettivi ed oggettivi. Le considerazioni che precedono conducono al rigetto del ricorso ed alla condanna del ricorrente, a norma dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 5 maggio 2015.

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