Repertorio Salute

Cassazione Penale, Sez. 4, 11 marzo 2016, n. 10193

Caduta dai piani alti del fabbricato in costruzione: mancanza di parapetti e di qualsiasi presidio di sicurezza che potesse evitare la caduta dall’alto.


Presidente: BLAIOTTA ROCCO MARCO
Relatore: TANGA ANTONIO LEONARDO
Data Udienza: 10/02/2016

Fatto

1. Con sentenza n. 4897/14 dell’01/10/2014, la Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Avellino, in composizione monocratica, in data 30/06/2011, con la quale R.L. veniva condannato alla pena di anni 2 di reclusione in relazione ai reati di cui agli artt.40, 589, commi 1 e 2, c.p., per aver cagionato la morte di G.C., con l’aggravante di aver commesso il fatto con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.
2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione R.L., a mezzo del proprio difensore, lamentando:
I) omessa motivazione in ordine alla ricostruzione del fatto fondando la decisione solo sulla testimonianza, per altro de relato, del teste G.G., fratello della vittima;
II) omessa motivazione circa la dosimetria della pena e la mancata concessione delle attenuanti generiche;
III) vizio motivazionale in ordine alla testimonianza del teste Z., inopinatamente e apoditticamente ritenuto inattendibile.
2.1. In data 04/02/2016 ha depositato memoria il difensore della parte civile G.G. con la quale si rappresenta l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza del ricorso di cui si chiede il rigetto.

Diritto

3. Il ricorso è infondato.
4. Il ricorrente ignora le analitiche ragioni esplicitate dal giudice di appello per rigettare analoghi motivi di gravame.
4.1. La Corte territoriale ha, in vero, fornito puntuale spiegazione del ragionamento posto a base del rigetto di tutti i motivi d’impugnazione procedendo alla coerente e corretta disamina di ogni questione di fatto e di diritto.
5. Nel caso di specie si tratta, in vero, di censure con cui si pretende di rivalutare le acquisizioni probatorie e la condotta dell’imputato, prerogativa, questa, riservata al giudice di merito e preclusa in sede di legittimità. Giova rammentare che “esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità, la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali” (Sez. Un. 30.4.1997, Dessimone). L’impugnata sentenza -unitamente a quella originaria confermata-, in realtà, hanno reso compiuta ed esaustiva motivazione, come tale non meritevole di alcuna censura, in ordine a tutte le doglianze sollevate con l’atto di appello (Sez. 4 n. 16390 del 13/02/2015).
5.1. In ordine alla definizione dei confini del controllo di legittimità sulla motivazione in fatto può dirsi ormai consolidato il principio giurisprudenziale, ripetuto in plurime sentenze delle Sezioni unite penali, per il quale la Corte di cassazione ha il compito di controllare il ragionamento probatorio e la giustificazione della decisione del giudice di merito, non il contenuto della medesima, essendo essa giudice non del risultato probatorio, ma del relativo procedimento e della logicità del discorso argomentativo. La Corte ha, in vero, più volte chiarito che non è sufficiente che gli atti indicati dal ricorrente siano contrastanti con le valutazioni del giudice o siano astrattamente idonee a fondare una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudice; gli atti del processo su cui fa leva il ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione devono essere autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudice e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente contraddittoria la motivazione. E ciò, nella specie, non è. In secondo luogo la Corte ha chiarito che resta preclusa al giudice di legittimità la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti.
5.2. Quanto alla dedotta illogicità della motivazione, è consolidata in giurisprudenza la massima secondo cui la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito propone effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione è compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento.
6. Tutti i motivi d’impugnazione illustrati dal ricorrente – congiuntamente esaminabili in ragione dell’intima connessione delle questioni dedotte- sono, in vero, infondati.
6.1. Osserva il collegio come, con riguardo agli aspetti evidenziati nell’impugnazione (concernenti un ipotetico travisamento della prova), il ricorrente si sia limitato a prospettare un’alternativa ipotesi interpretativa, fondata su una rilettura delle evidenze probatorie acquisite, senza giungere all’effettiva dimostrazione del concreto e rilevante travisamento della prova infondatamente denunciato. Sul punto, è appena il caso di richiamare il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale la modificazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006 consente la deduzione del vizio del travisamento della prova là dove si contesti l’introduzione, nella motivazione, di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, ovvero si ometta la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia (Sez. 4, n.49361 del 04/12/2015) .
7. Per completezza vale replicare che, nel caso che occupa, la disamina dei motivi del ricorso proposti impone una triplice comune premessa: in punto di contenuto del concetto di colpa in materia di prevenzione sugli infortuni sul lavoro; in punto di individuazione dei soggetti che, nella suddetta materia, assumono il ruolo di garante dell’Incolumità fisica del prestatore di lavoro; nonché in punto di idoneità delle eventuali condotte negligenti riferibili al dipendente infortunato ad interrompere, ai sensi dell’art. 41 c.p., comma 2, il nesso di causalità sussistente tra l’omissione colposa di un garante e l’evento lesivo che ne è derivato.
7.1. Sotto il primo profilo, si rammenta che la colpa è l’inosservanza di cautele doverose nell’esercizio di attività consentite; e che l’elemento peculiare della responsabilità colposa è che l’offesa non deve essere oggetto di volizione: il concetto di antidoverosità, invero, richiama una nozione di imputazione normativa dell’offesa. In altri termini, il giudizio colposo si sostanzia nel raffronto fra il comportamento effettivamente tenuto dal soggetto agente e il comportamento (ottemperante alla regola cautelare) che avrebbe potuto e dovuto realizzare. La colpa presenta dunque un profilo oggettivo (l’antidoverosità) e uno soggettivo (la concreta capacità dell’agente di adeguarsi alla regola cautelare). In particolare, la colpa specifica, presa in considerazione dall’art. 43 c.p., comma 1, è determinata dall’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline concernenti l’esercizio di attività considerate pericolose dall’ordinamento e perciò consentite subordinatamente al rispetto di regole cautelari compendiate in atti normativi (leggi, regolamenti) ovvero provvedimentali (ordini) ovvero codificate in discipline (circolari, regole dell’arte o dell’esperienza). La differenza fra colpa generica e colpa specifica riposa sulla diversa tecnica di redazione del modello legale. Nella prima specie di colpa i concetti di negligenza, imprudenza e imperizia sono concretizzati attraverso la previsione di regole cautelari extragiuridiche di estrazione sociale, parametrate sulla figura ipotetica del c.d. agente modello della stessa condizione sociale e professionale del soggetto attivo. Per converso, nella seconda specie di colpa, come sopra rilevato, le regole cautelari a contenuto preventivo sono codificate in documenti normativi o provvedimentali. In linea di principio, l’osservanza di queste regole esclude il profilo dell’antidoverosità, salvo che residui un margine di colpa generica. Occorre ancora chiarire che per dar luogo all’addebito a titolo di colpa specifica non è sufficiente la mera inosservanza della regola cautelare codificata (profilo oggettivo), ma è altresì necessario che l’autore avesse in concreto la possibilità di evitare il prodursi dell’evento offensivo (profilo soggettivo). Opinando altrimenti verrebbero a profilarsi i contorni di una culpa in re Ipsa derivante della mera trasgressione, in contrasto con il principio costituzionale della personalità della responsabilità penale (art. 27 Cost., comma 1). Ai medesimi fini, è infine opportuno precisare che per configurare l’ascrizione dell’evento a titolo di colpa specifica, è necessario che, a seguito della violazione della regola preventiva trasgredita, si sia prodotta proprio l’offesa che essa mirava a evitare (cd. nesso di congruità fra regola cautelare violata ed evento verificatosi).
7.2. Quanto poi alla individuazione dei soggetti garanti, si rileva che il legislatore, ha fissato i principi rinvenibili nelle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008. Alla stregua di essi il datore di lavoro, è il primo destinatario delle disposizioni antinfortunistiche. In generale, dalla sopra richiamata disciplina normativa si desume il principio, secondo il quale, in caso di presenza del titolare di una posizione di garanzia (nella specie il ricorrente) costui ha il dovere di attuare tutte le misure di prevenzione e protezione dei rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa.
8. Precisati i principi che precedono, occorre complessivamente replicare ai motivi di ricorso.
8.1. In virtù delle congrue e logiche motivazioni rese dai giudici del merito, e perciò non suscettibili di rivalutazione e di censura in sede di giudizio di legittimità, è indubitabile che:
8.1.1. il R.L. fosse titolare (e perciò titolare della descritta posizione di garanzia) dell’impresa in cui prestava lavoro la vittima;
8.1.2. alla data del fatto la vittima lavorava nel cantiere in contrada “Figlioli” di Montoro Inferiore;
8.1.3. la vittima è caduto dai piani alti del fabbricato in costruzione mentre era intento a schiodare una tavola di legno da un pilastro;
8.1.4. detto fabbricato in costruzione era privo di parapetti e di qualsiasi presidio di sicurezza che potesse evitare la caduta dall’alto;
8.1.5. il R.L., soggetto destinatario dei citati obblighi di sicurezza, ha violato prescrizioni in materia antinfortunistica di cui all’imputazione; in particolare di quelle prevista dagli artt.7 (idoneità delle opere provvisionali -nel caso di specie non allestite al momento del fatto-), 16, (“Nei lavori che sono eseguiti ad un’altezza superiore ai m. 2, devono essere adottate, seguendo lo sviluppo dei lavori stessi, adeguate impalcature e ponteggi o idonee opere provvisionali o comunque precauzioni atte ad eliminare i pericoli di caduta di persone e di cose”; nel caso di specie -giova ribadirlo- non allestite al momento del fatto), e 24 (“Gli impalcati e ponti di servizio, le passerelle, le andatoie, che siano posti ad un’altezza maggiore di m. 2, devono essere provvisti su tutti i lati verso il vuoto di robusto parapetto…”; nel caso di specie -giova ribadirlo ancora- non allestite al momento del fatto) D.P.R. 164/1956 che hanno la funzione primaria di eliminare o almeno ridurre i rischi per l’incolumità fisica dei lavoratori intrinsecamente connaturati ai processi produttivi dell’attività di impresa edilizia, anche nelle ipotesi in cui siffatti rischi derivino da condotte colpose dei prestatori di lavoro;
8.1.7. nulla è emerso che possa lasciar presumere che il rispetto delle norme cautelari violate non fosse concretamente esigibile dal R.L., nelle condizioni date.
9. I giudici del merito, in vero, disattendendo le fantasiose affermazioni del ricorrente, hanno logicamente e congruamente motivato anche valorizzando le testimonianze (queste pienamente attendibili a differenza di quella resa dal teste Z. -contraddittorio, reticente, oltre che sfuggente- il quale arrivava a negare di aver lavorato nel cantiere in questione): a) di G.G. (tutt’altro che de relato) secondo il quale la vittima lavorava da circa due mesi come muratore nel cantiere -in contrada “Figlioli”- in cui si è verificato l’infortunio mortale e che quella sera si era recato proprio in quel cantiere per recuperare l’auto del fratello (la vittima) dopo che questi era stato ricoverato in ospedale; b) di P., abitante nei pressi del cantiere in parola, che dichiarava di “aver assistito de visu alla messa In sicurezza del cantiere nei giorni successivi all’incidente con la realizzazione lungo tutto il perimetro del fabbricato di ponteggi e parapetti fino a quel momento inesistenti” ; del maresciallo C.C. C. il quale riferiva che, alla data del suo sopralluogo (15/10/2007, e quindi pochi giorni dopo il decesso della vittima), “detto cantiere … appariva perfettamente in regola… i ponteggi installati apparivano essere nuovi di zecca senza alcun segno di usura”-, a ciò si aggiunga l’esito del sopralluogo secondo cui “..tutti gli elementi metallici della protezione all’atto del sopralluogo del 15 ottobre, non mostravano segni di ossidazione, graffi o schizzi di malta e cemento” a riprova del fatto che le misure di prevenzione infortuni furono poste in essere solo dopo il fatto in questione.
10. Prive di pregio appaiono, quindi, le tesi del ricorrente finalizzate ad insufflare il dubbio che l’infortunio mortale si fosse verificato in altro luogo (nel fondo in contrada S. Eustacchio) dubitando circa “l’eventuale vantaggio che il R.L. avrebbe ottenuto nel simulare il sinistro come avvenuto altrove, atteso che, in entrambi i casi, l’imputato sarebbe stato raggiunto da profili di addebito” (pag. 11 di ricorso) senza rammentare che, se così fosse stato, l’infortunio sarebbe avvenuto al fuori del cantiere (e quindi senza indagini sulla esistenza dei presidi di sicurezza dovuti) e per un imprevedibile attività della vittima che si sarebbe accinta a potare un albero (attività esorbitante dai suoi doveri di muratore dipendente del R.L.) da cui sarebbe poi precipitato. Ma tant’è.
10.1. Vale, per completezza, ancora rammentare che, come risulta dal già citato verbale di sopralluogo del 15/10/2007, l’operante dell’Arma rilevò la presenza di tracce di sangue (coperte da recente riporto di terriccio) proprio nei punti indicati dal fratello della vittima nel cantiere in località “Figlioli”.
11. In ordine alle doglianze relative alla dosimetria della pena e alla mancata concessione delle attenuanti generiche, anche queste del tutte prive di pregio, va qui riaffermato il principio che, soprattutto dopo la specifica modifica dell’art. 62-bis c.p. operata con il D.L. 23 maggio 2008, n. 2002 convertito con modifiche dalla L. 24 luglio 2008, n. 125, è assolutamente sufficiente che il giudice si limiti a dar conto, come nel caso in esame, di avere valutato e applicato i criteri di cui all’art.133 c.p., sottolineando -tra l’altro- in motivazione il pessimo comportamento processuale dell’imputato. In tema di attenuanti generiche, infatti, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo l’affermata insussistenza. Al contrario, secondo una giurisprudenza consolidata di questa Corte Suprema, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio (così, ex plurimis, sez. 1, n. 11361 del 19/10/1992, Gennuso, rv. 192381; sez. 1 n. 12496 del 02/09/1999, Guglielmi ed altri, rv. 214570; sez. 6, n. 13048 del 20//06/2000, Occhipinti ed altri, rv. 217882; sez. 1, n. 29679 del 13/06/2011, Chiofalo ed altri, rv. 219891). In altri termini, dunque, va ribadito che l’obbligo di analitica motivazione in materia di circostanze attenuanti generiche qualifica la decisione circa la sussistenza delle condizioni per concederle e non anche la decisione opposta specie se, come nel caso che occupa, non è stato dedotto dall’imputato alcun elemento su cui fondarne la concessione (sez.2, n. 38383 del 10/07/2009, Squillace ed altro, rv. 245241, e sez.4, n. 43424 del 29/09/2015).
11.1. Giova, ancora, rammentare che le censure relative alla dosimetria della pena vanno ritenute manifestamente infondate in quanto la motivazione addotta dalla Corte territoriale deve ritenersi ampia, congrua, logica e coerente con gli evidenziati elementi negativi, sicché non è censurabile in questa sede di legittimità, essendo stato correttamente esercitato il potere discrezionale spettante al giudice di merito in ordine al trattamento sanzionatorio. La valutazione dei vari elementi rilevanti ai fini della dosimetria della pena detentiva rientra nei poteri discrezionali del giudice il cui esercizio (se effettuato nel rispetto dei parametri valutativi di cui aM’art. 133 c.p., come nel caso di specie) è censurabile in cassazione solo quando sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico. Ciò che qui deve senz’altro escludersi (sez. 2, n. 45312 del 03/11/2015; sez. 4 n. 44815 del 23/10/2015).
12. Il ricorso va, quindi, rigettato con ogni conseguenza di legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 10/02/2016

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