Cassazione Penale, Sez. 4, 13 gennaio 2016, n. 1036

Infortunio occorso ad un tornitore. Non si può imporre un divieto nel documento di valutazione dei rischi senza fornire istruzioni alternative. Responsabilità datoriale e ruolo del RSPP.


Presidente: D’ISA CLAUDIO
Relatore: PEZZELLA VINCENZO
Data Udienza: 10/12/2015

Fatto

1. La Corte di Appello di Brescia, pronunciando nei confronti dell’odierno ricorrente, B.G., con sentenza del 24.10.2014, confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Brescia, emessa in data 6.12.2010, e disponeva la correzione dell’errore materiale contenuto nel dispositivo della sentenza di primo grado.
Il Tribunale di Brescia aveva dichiarato in primo grado B.G. responsabile del reato p. e p. dagli artt. 590 commi 2 e 3 cod. pen. perché, B.G. in qualità di datore di lavoro in quanto direttore tecnico dello stabilimento di Brescia della Innse Cilindri srl (esercente la produzione e commercializzazione di cilindri per uso siderurgico), con delega specifica in materia di igiene e sicurezza sul lavoro e S.G., nella sua qualità di Responsabile dei settore sicurezza ed ecologia presso il medesimo stabilimento, cagionavano per colpa a S.C. lavoratore dipendente con mansioni di tornitore lesioni personali gravi consistite nello schiacciamento del primo dito della mano sinistra con frattura e ferita lacero contusa con incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni pari a giorni 154 e con grado di invalidità riconosciuta dall’Inail pari al 4%, in particolare S.C., assunto con la mansione di tornitore addetto al carico e scarico dei cilindri in lavorazione sulle macchine senza aver mai partecipato a corsi di formazione specifici, durante l’operazione di caricamento di un rullo di notevoli dimensioni sul tornio “175” (utilizzato, appunto per i cilindri di grosse dimensioni) cercando di orientare il carico con una mano all’interno del mandrino del tornio (come da prassi in uso tra gli operatori) si schiacciava il pollice fra il cilindro e una ganascia del mandrino in contrasto con le prescrizioni di sicurezza del reparto torneria che prevedono di (testo assente) con colpa consistita in negligenza imprudenza imperizia ed inosservanza delle norme per la prevenzione sugli infortuni del lavoro, in particolare per B.G., nella sua qualità di datore di lavoro direttore tecnico dello stabilimento di Brescia, nella violazione dei seguenti articoli di legge: art. 28 comma 2 lettera b) e d) del Dlgs n.81 del 2008, in quanto il documento di valutazione dei rischi non conteneva l’indicazione delle misure e procedure di prevenzione e di protezione concrete ed efficaci per le attività di carico e scarico dei cilindri di grosse dimensioni dalle macchine utensili per ogni turno lavorativo (se non, in termini dei tutto generali l’indicazione di “non guidare con le mani il carico sospeso” e di “non sostare sotto i carichi”) e non conteneva altresì l’indicazione delle misure idonee a ridurre al minimo i possibili rischi di investimento dei pesanti carichi sospesi, trattandosi di attività pericolosa comportante gravi rischi di investimento per gli operatori;
Fatto aggravato per aver cagionato le lesioni personali gravi di cui sopra e violazioni delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. Fatto commesso in Brescia il 04 07 2007
B.G. veniva condannato, alla pena di mesi 3 di reclusione (per un errore materiale nel dispositivo della sentenza impugnata viene indicata quella di mesi 6); nella sola motivazione si fa riferimento alla concessione delle attenuanti generiche, stimate equivalenti all’aggravante.
2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, B.G., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:
a. Errore materiale. Istanza di correzione ai sensi dell’art. 130, comma 1, cod. proc. pen.
Il ricorrente deduce, preliminarmente, che la sentenza impugnata erroneamente indica, quale oggetto d’appello e quale parte appellante un nominativo diverso. L’errore attiene sia all’individuazione dell’imputato, sia all’individuazione del provvedimento appellato, sia infine all’individuazione della pena applicata all’esito del giudizio.
b. Nullità della sentenza ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen., per illogicità manifesta della motivazione, nella parte in cui presume la conoscenza diretta, in capo al datore di lavoro (delegante), di un difetto procedurale ad una fase operativa circoscritta, sebbene il fattore di rischio non sufficientemente schermato sia “quasi impercettibile” e il deficit procedurale non sufficientemente segnalato al delegante dal responsabile per la sicurezza (delegato).
La motivazione della sentenza impugnata avrebbe posto a fondamento della condanna il dato della conoscenza da parte del datore di lavoro della carenza determinante la condotta del lavoratore e l’evento lesivo. Tale presunta conoscenza sussisterebbe nonostante il soggetto titolare di apposita delega, inizialmente coimputato nello stesso giudizio, non avesse mai effettuato la necessaria segnalazione. Tale assunto discenderebbe da deduzioni manifestamente illogiche e solo apparentemente motivate.
Il ricorrente riporta gli elementi fattuali del giudizio che sarebbero incontestati e condivisi nelle sentenza di merito.
La sentenza impugnata avrebbe affermato la sussistenza della responsabilità dell’imputato sulla base di due elementi di fatto: 1) l’impossibilità di non avvedersi, nell’imporre il divieto agli operai di guidare il carico con le mani, senza dare istruzioni alternative, di aver devoluto sostanzialmente agli stessi di scegliere la maniera come ovviare alle problematiche connesse allo svolgimento del lavoro; in conseguenza i lavoratori di fatto violavano il divieto; 2) In ogni caso, il B.G., avrebbe conosciuto il problema e la presenza di un delegato responsabile, sempre presente e referente dei lavoratori, non avrebbe inciso sul percorso logico che porta all’affermazione di responsabilità.
La sentenza sarebbe quindi apodittica ed illogica e gli scarni rimandi alle deposizioni testimoniali sarebbero l’evocazione di supporti istruttori privi di valenza dimostrativa. La motivazione non indicherebbe alcuna fonte probatoria riferibile ad una osservazione diretta ed autonoma, da parte del datore di lavoro delle modalità di svolgimento della procedura lavorativa.
La corte di appello riterrebbe singolare e insufficiente il divieto di accompagnare il carico con le mani.
La sentenza confonderebbe la sussistenza della lacuna procedurale, riscontrata ex post in giudizio, con il tema di una presunta autoevidenza logica ex ante. Detto errore nascerebbe dalla premessa che ciò che si conosce per via logica deduttiva, sarebbe conoscibile a priori da chiunque.
Nel caso di specie non la logica deduttiva, ma la conoscenza positiva dei meccanismi lavorativi determinerebbe la conoscenza del circoscritto parziale deficit procedurale.
L’inadeguatezza del divieto si manifesterebbe per via logica, solo allorquando si sappia positivamente che la sequenza lavorativa pone l’operaio nella necessità di correggere l’eventuale oscillazione, quasi impercettibile del pezzo imbragato. Pertanto solo la conoscenza positiva del fenomeno della quasi impercettibile oscillazione renderebbe evidente la necessità di guidare in altro modo la parte terminale della movimentazione nelle ganasce del tornio. Se invece dì fatto non si ponesse tale esigenza, il divieto di avvicinare le mani al carico sospeso sarebbe esaustivo. Nel caso di specie, la parte lesa riportava di aver inserito le mani nell’intercapedine tra il corpo del cilindro imbracato e le ganasce del tornio, non limitandosi a toccare il pezzo imbragato.
La sentenza impugnata, nell’affermare la contezza da parte del B.G., di tipo deduttivo, della inadeguatezza procedurale del divieto, presumerebbe che il datore avesse conoscenza positiva degli elementi fattuali presupposti e necessari ad inferire in via logica l’insufficienza prevenzionistica dello stesso divieto.
Presumerebbe che il datore di lavoro debba conoscere come si comporta un cilindro pesante decine di tonnellate all’esito di una subfase specifica. Il datore di lavoro dovrebbe conoscere ogni momento di una attività particolare, tra le innumerevoli svolte quotidianamente nello stabilimento.
La motivazione risulterebbe quindi illogica presumendo la conoscenza da parte del datore di lavoro del dato fattuale presupposto, necessario ad articolare il successivo ragionamento deduttivo articolato in sentenza.
La sentenza presenterebbe, poi, carenza di motivazione omettendo di riferire su un tema incompatibile con la tesi del giudicante.
Non vi sarebbe alcun riferimento alle dimensioni dello stabilimento, a fronte di una specifica doglianza di appello.
Altro elemento incompatibile con la tesi espressa in sentenza sarebbe la saltuaria presenza del datore di lavoro che quindi non avrebbe mai potuto sperimentare personalmente l’esistenza del problema di impercettibili oscillazioni.
Ugualmente illogica sarebbe la motivazione laddove affermerebbe che la comprovata effettività della delega di funzioni al S.G. non inciderebbe in alcun modo sul percorso logico che porta all’affermazione della responsabilità del B.G..
Si deduce in ricorso che, nell’ambito di un’organizzazione complessa, invece, è lo stesso sistema prevenzionistico normativo ad incoraggiare lo strumento della delega delle mansioni osservative ad un soggetto diverso dal garante originario. Nel momento in cui vi sia un delegato effettivamente presente, referente diretto dei lavoratori, l’osservazione diretta delle eventuali criticità operative spetterà  secondo la tesi sostenuta al delegato e non all’originario garante. In tal caso, l’imputazione fattuale nei confronti del datore di lavoro, di una conoscenza diretta della criticità procedurale circoscritta, non potrebbe prescindere dalla prova positiva di una sua ingerenza, quanto meno osservativa. In mancanza di tale prova non sarebbe possibile riferire al datore di lavoro delegante la stessa base cognitiva del soggetto delegato, dell’esistenza di eventuali criticità procedurali concrete.
La debolezza argomentativa del provvedimento impugnato sarebbe dimostrato anche nella menzione delle deposizioni testimoniali.
Ci sarebbe un unico lavoratore che avrebbe riferito un mero passaggio in reparto del datore di lavoro. Infine l’illogicità dell’assunzione fattuale troverebbe conferma nell’argomento secondo cui due testi di accusa avrebbero riferito di altri infortuni. Dette testimonianze, solo citate ma non riportate in sentenza, riferirebbero di fatti di tipo diverso da quello verificatosi e non confermati dal registro infortuni dell’azienda.
c. Nullità della sentenza ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., per violazione di legge, in relazione all’art. 27 Cost., agli artt. 40, comma 2 e 43, cod. pen., e agli artt. 15, lett. b), 17 e 28, D. Lgs. 81/2008; nonché ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., per contraddittorietà della motivazione, in relazione all’estensione dell’obbligo impeditivo in capo al datore di lavoro delegante in tema di causalità omissiva e all’estensione delle disposizioni cautelari applicabili ai fini del rimprovero per colpa.
La sentenza affermerebbe che tre argomenti precluderebbero la possibilità di assolvere l’imputato: 1) la figura del responsabile della prevenzione sarebbe un mero ausiliario del datore di lavoro, che mantiene quindi la funzione di garante in relazione all’obbligo di mappatura dei rischi e codificazione delle operazioni operative a fini di sicurezza; 2) il datore di lavoro sarebbe sempre il primo e principale destinatario degli obblighi in materia di sicurezza; 3) la comprovata effettività della delega non inciderebbe sul percorso logico che porta all’affermazione di responsabilità del B.G..
Ritiene il ricorrente che se la sentenza effettivamente avesse dimostrato l’effettiva conoscenza, da parte del B.G., della modalità di movimentazione del cilindro, non sarebbe stato necessario argomentare sul dovere della stessa conoscenza.
Precisa il ricorrente che, nel caso di specie, non sarebbe in discussione il divieto di delegare l’obbligo di analisi dei fattori di rischio e delle procedure operative all’interno del documento di valutazione dei rischi.
Detto obbligo era stato correttamente adempiuto ed era stata prevista una procedura nella quale esisteva un divieto impedito. Il fattore di rischio dell’oscillazione sarebbe definito, dalla stessa sentenza, quasi impercettibile.
Non si tratterebbe, quindi, di un invalido trasferimento di compiti.
L’evento che si è realizzato investirebbe l’aspetto programmatico e dinamico della prevenzione, ossia l’integrazione progressiva delle procedure vigenti.
In definitiva l’obbligo di tutela sarebbe stato adempiuto, mentre il problema di sicurezza si sarebbe realizzato nella fase relativa all’integrazione delle procedure di sicurezza già codificate, che non può prescindere dal coinvolgimento in un sistema organizzativo, come previsto nel T.U. e articolato attraverso la suddivisione dei compiti e delle responsabilità.
Se, quindi, come nel caso in esame, la criticità investe il profilo dinamico o programmatico del sistema di prevenzione, il contenuto dell’obbligo non può più porsi in termini assoluti e svincolati dalla complessità aziendale in capo al datore di lavoro.
Ciò determinerebbe, infatti, un obbligo di presenza assoluta e costante di tutte le attività rischiose. Il datore di lavoro risponderà, piuttosto, nel caso abbia omesso la predisposizione programmatica del sistema di sicurezza o abbia omesso di integrare in modo corretto le criticità emerse. Ma, certamente, allorquando il referente delegato ometta di segnalare una circoscritta criticità, come nel caso di specie, la lacuna causalmente e cautelarmente rilevante potrà individuarsi solo a carico del delegato responsabile.
Nel caso che ci interessa il delegato era, infatti, chiamato a rispondere dell’omessa sorveglianza sulla procedura specifica, che avrebbe determinato la mancata informazione del datore di lavoro, interrompendo il sistema organizzativo volto all’integrazione dinamica delle procedure di sicurezza.
L’impugnata sentenza con argomentazione errata ed illogica escluderebbe l’effetto interruttivo della causalità omissiva in relazione alla violazione posta in essere dal soggetto delegato.
d. Nullità della sentenza ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., per violazione di legge, in relazione all’art. 448, comma 1, c.p.p.; nonché ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), per mancanza di motivazione, in relazione alla richiesta di applicazione del trattamento sanzionatorio di cui all’istanza di patteggiamento depositata prima dell’apertura del dibattimento.
Il ricorrente, prima dell’apertura del dibattimento di primo grado, chiedeva l’applicazione della pena pecuniaria ex art. 444 cod. proc. pen. Il P.M. non prestava il consenso e si apriva il dibattimento. In sede di conclusioni veniva richiesta, in via subordinata, l’applicazione del trattamento sanzionatorio richiesta con la predetta istanza. Ai fini dell’accoglimento della richiesta si sottolineava il carattere quasi impercettibile del fattore di rischio, non esaustivamente schermato dalla procedura operativa esistente, l’emersa vigenza di un sistema organizzativo di sicurezza strutturato e l’adempimento delle prescrizioni elevate dalla ASL.
La sentenza di primo grado rigettava l’istanza limitandosi ad affermare l’insussistenza degli estremi per la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria, per gli specifici precedenti dell’imputato.
Con l’atto di appello si censurava la sentenza evidenziando che nessuna istanza di sostituzione era stata avanzata, posto che la pena richiesta nell’istanza di patteggiamento aveva natura autonomamente pecuniaria.
La sentenza di appello, rigettando implicitamente l’istanza ex art. 448 cod. proc. pen., non enuncia alcun argomento preclusivo, omettendo qualsiasi rivalutazione.
e. Nullità della sentenza ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., per violazione di legge, in relazione all’art. 133, c.p.; nonché ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), per mancanza e contraddittorietà della motivazione, in relazione al trattamento sanzionatorio.
La sentenza impugnata confermerebbe la pena non sospesa di mesi 3 di reclusione facendo riferimento alla gravità della colpa, ai numerosi precedenti specifici e alla dimensione oggettiva della vicenda.
La motivazione fornita risulterebbe meramente apparente in quanto i concetti di gravità della colpa e di dimensione oggettiva sarebbero in netto contrasto con la riconosciuta natura quasi impercettibile del fattore di rischio.
Inoltre la corte di appello, a fronte di un’espressa censura, non valuterebbe l’impatto sulle determinazione della pena né della comprovata vigenza di una delega di funzioni, né del comprovato difetto di qualsiasi segnalazione da parte del preposto.
f. Nullità della sentenza ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., per violazione di legge, in relazione all’art. 163, cod. pen.; nonché ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), per mancanza di motivazione e illogicità manifesta della motivazione, in relazione al rigetto dell’istanza di applicazione della sospensione condizionale della pena.
Sarebbe stata negata la sospensione condizionale della pena senza alcuna motivazione sul punto. Detta carenza di motivazione sarebbe stata dedotta nel primo gravame.
La corte di appello pur acquisendo documentazione comprovante la cessazione della carica da parte del B.G., rilevava di non poter formulare giudizio prognostico favorevole all’imputato a causa dei precedenti e, il venir meno dei poteri, non avrebbe escluso la possibilità di nuova acquisizione degli stessi per l’azienda in questione o altra azienda.
Non vi sarebbe stato alcun riferimento fattuale sul motivo della ritenuta possibilità di acquisizione di posizioni di garanzia per altre aziende.
La motivazione sarebbe illogica ed apparente, in quanto, ad un fatto negoziale certo, viene opposto un apparente argomento totalmente privo di riferimento concreto, traducendosi in un ribaltamento dell’onere della prova.
L’onere motivazionale avrebbe dovuto essere, invece, ancor più rigoroso, trattandosi di una condanna per un delitto colposo.
Chiede, pertanto, in via preliminare la correzione dell’errore materiale, e l’annullamento della sentenza impugnata con ogni conseguente pronuncia.

Diritto

1. I motivi dianzi illustrati sono tutti manifestamente infondati e, pertanto, il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
2. Il ricorrente deduce, alternativamente o cumulativamente, violazione di legge e/o vizio motivazionale, ma, in realtà, richiede a questa Corte di legittimità una rivalutazione del compendio probatorio che certo non è consentita in questa sede.
Sul punto va ricordato che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. vedasi questa sez. 3, n. 12110 del 19.3.2009 n. 12110 e n. 23528 del 6.6.2006).
Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l’illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (sez. 3, n. 35397 del 20.6.2007; Sez. Unite n. 24 del 24.11.1999, Spina, rv. 214794).
Più di recente è stato ribadito come ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene né alla ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento, (sez. 2, n. 21644 del 13.2.2013, Badagliacca e altri, rv. 255542)
Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto.
Non c’è, in altri termini, come richiesto nel presente ricorso, la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. E ciò anche alla luce del vigente testo dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. come modificato dalla l. 20.2.2006 n. 46.
Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.
Il ricorrente non può, come nel caso che ci occupa limitarsi a fornire una versione alternativa del fatto, senza indicare specificamente quale sia il punto della motivazione che appare viziato dalla supposta manifesta illogicità e, in concreto, da cosa tale illogicità vada desunta.
Com’è stato rilevato nella citata sentenza 21644/13 di questa Corte la sentenza deve essere logica “rispetto a sé stessa”, cioè rispetto agli atti processuali citati. In tal senso la novellata previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da “altri atti del processo”, purché specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto.
3. Se questa, dunque, è la prospettiva ermeneutica cui è tenuta questa Suprema Corte, le censure che il ricorrente rivolge al provvedimento impugnato si palesano manifestamente infondate, non apprezzandosi nella motivazione della sentenza della Corte d’Appello di Brescia alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva.
I giudici del gravame di merito con motivazione specifica, coerente e logica hanno, infatti, dato conto della insufficienza (e francamente della “singolarità”) del divieto imposto ai dipendenti nel documento di valutazione dei rischi di guidare con le mani i carichi sospesi non accompagnato da alcuna indicazione in positivo sul come agire in quella situazione. Ciò equivaleva, in sostanza, come rilevano i giudici del gravame del merito, a segnalare il pericolo senza però spiegare come ci si dovesse comportare per evitarlo nell’eseguire la lavorazione di cui si discute.
Come logicamente viene evidenziato in motivazione il B.G. non poteva non avvedersi ab initio, nell’imporre quel divieto senza fornire istruzioni alternative, del fatto che veniva in sostanza devoluto agli stessi lavoratori (come infatti era avvenuto, secondo le deposizioni rese da quelli sentiti come testi) scegliere la maniera con cui ovviare alle problematiche connesse al lavoro da svolgere (e i lavoratori, anche perché non erano stati messi loro a disposizione strumenti alternativi, avevano semplicemente deciso di contravvenire a quel divieto).
Del resto, il cambiamento nelle modalità di esecuzione di quella lavorazione avvenuto anni prima che si verificasse l’infortunio (precedentemente la movimentazione avveniva ad opera di un gruista che adoperava la pulsantiera, mentre un altro operaio si occupava di guidare il cilindro nella giusta direzione), per quanto da mettersi in relazione all’introduzione del telecomando radio, non aveva certo reso più sicura la lavorazione, posto che spesso (come nel caso di specie) la stessa veniva posta in essere da un unico operaio, il quale doveva con una mano azionare il telecomando e con l’altra indirizzare il cilindro verso il mandrino (e nel contempo occorreva guardare anche in altre direzioni).
I giudici del gravame del merito ricordano poi come della saltuaria presenza in reparto del B.G. avevano parlato vari testi, e in particolare l’infortunato, lo S. (che, in particolare, aveva risposto positivamente alla domanda se avesse mai visto passare l’imputato “quando gli operai movimentavano i carichi con le mani’ ed escluso che lo stesso avesse fatto osservazioni), ed anche B. (il quale tuttavia non ricordava se lo avesse visto proprio mentre in era in atto quell’operazione).
4. Ovviamente la Corte territoriale dà anche atto che, in ragione del suo incarico, il S.G. era costantemente presente e costituiva il naturale referente per i lavoratori, ma viene ritenuto non incidere in alcun modo sulla correttezza del percorso logico che porta all’affermazione di responsabilità del B.G..
I giudici del gravame del merito danno anche atto della non delegabilità dell’attività di valutazione del rischio, da far risalire non alD.lgs 81/2008, ma all’art.l c. 4 ter D.Lvo 19.9.94 n. 626 (che fa menzione, tra l’altro, dell’art. 4 c. commi 1 e 2).
Corretto è anche il richiamo alla giurisprudenza di questa Corte di legittimità che ha ritenuto che quell’attività non fosse delegabile anche precedentemente all’entrata in vigore del DLgs 81/2008 (così questa sez. 4, n. 8620 del 31.1.2008, Signorelli, rv. 238972).
Peraltro viene evidenziato che neppure in concreto (e in violazione di quel divieto) l’attività in questione era stata specificamente delegata al S.G..
La Corte territoriale dà anche atto che dei precedenti casi di infortuni analoghi aveva parlato, oltre allo S., anche il teste F., e che, se è vero che il teste B. aveva affermato di non avere trovato nulla a tal riguardo nella documentazione in possesso del proprio ufficio, appare difficile pensare che i predetti abbiano mentito sul punto (tanto più che il F. era teste della difesa).
Peraltro, questa Corte, ha, ancora recentemente, affermato che in tema di infortuni sul lavoro, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell’obbligo di tutela impostogli dalla legge fin quando si esaurisce il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia, per cui l’omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari di tale posizione, (sez. 4, n. 18826 del 9.2.2012, Pezzo, rv. 253850, fattispecie in cui si è ritenuta la responsabilità del datore di lavoro per il reato di lesioni colpose nonostante fosse stata dedotta l’esistenza di un preposto di fatto).
Con motivazione altrettanto logica i giudici bresciani rilevano essere inconferenti, sotto il profilo in esame, i riferimenti difensivi all’attività azienda in materia di formazione dei lavoratori (senza peraltro considerare che vari testi hanno affermato che nessuno aveva loro spiegato come effettuare in concreto l’operazione in questione) e alla ordinarietà in ogni azienda dell’intervento fattivo del R.S.P.P. nello studio e codificazione delle procedure, anche in sede di modifica delle stesse.
In realtà con riguardo, alla responsabilità del RSPP, entrambi i giudici di merito ha fatto buon governo dei principi affermati in materia dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità, ben compendiato nell’arresto costituito da questa sez. 4, n. 25288/2008, rv. 240297, secondo cui il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è un mero ausiliario del datore di lavoro privo di autonomi poteri decisionali e non è dunque destinatario degli obblighi dettati dalla legge in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle sanzioni, penali e amministrative, previste per la loro violazione. Ciò non esclude peraltro  secondo il richiamato dictum  la sua responsabilità penale per l’infortunio conseguito alla mancata adozione di una misura prevenzionale, qualora si accerti che lo stesso abbia indotto il datore di lavoro all’emissione, essendo a lui ascrivibile un titolo di colpa professionale (e, nel caso di specie, il S.G. ha riportato condanna per il fatto in esame).
Corretta in tal senso è l’affermazione che il datore di lavoro è il primo e principale destinatario degli obblighi di assicurazione, osservanza e sorveglianza delle misure e dei presidi di prevenzione antinfortunistica e che non si vede (a fronte della indelegabilità di cui si è detto) per quale ragione chi ricopre una tale posizione, nell’effettuare la valutazione dei rischi, non debba prendere conoscenza di tutte le fasi operative inerenti all’attività dell’azienda.
Rispetto a tale motivata, logica e coerente pronuncia il ricorrente chiede una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione. Ma per quanto sin qui detto un siffatto modo di procedere è inammissibile perché trasformerebbe questa Corte di legittimità nell’ennesimo giudice del fatto.
5. Manifestamente infondati appaiono anche i restanti motivi di ricorso in punto di trattamento sanzionatorio e di diniego della sospensione condizionale della pena.
Quanto al primo, la Corte territoriale afferma che la pena irrogata è del tutto equa e proporzionata alla complessiva dimensione, oggettiva e soggettiva, della vicenda per cui si procede, avuto riguardo, sotto il primo profilo, alla gravità della colpa e ai numerosi precedenti specifici (per lesioni colpose e, in un caso, per omicidio colposo) risultanti a carico del prevenuto; elementi questi che appaiono di peso preponderante rispetto a quelli (peraltro discutibili) addotti dall’appellante.
Si tratta, com’è evidente, anche in relazione alla pena irrogata (di mesi tre di reclusione) che va ben oltre, sotto il profilo della motivazione, rispetto a quanto questa Corte Suprema ritiene già sufficiente.
Per giurisprudenza costante di questa Suprema Corte, infatti, la determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra, infatti, tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima ai minimo, anche nel caso il cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (così sez. 4, n. 21294, Serratore, rv. 256197; conf. sez. 2, n. 28852 dell’8.5.2013, Taurasi e altro, rv. 256464; sez. 3, n. 10095 del 10.1.2013, Monterosso, rv. 255153). Già in precedenza si era, peraltro, rilevato come la specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, specie in relazione alle diminuzioni o aumenti per circostanze, è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. le espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (così sez, 2, n. 36245 del 26,6,2009, Denaro, rv. 245596).
6. Ad analoga conclusione deve pervenirsi quanto al diniego della sospensione condizionale della pena, che i giudici del gravame del merito ritengono di confermare proprio in relazione ai citati precedenti penali, che li portano ad una prognosi favorevole circa il futuro comportamento dell’imputato (né può pervenirsi a diversa conclusione  evidenzia la Corte territoriale in motivazione unicamente sulla base del fatto che siano stati recentemente revocati i poteri precedentemente conferiti a quest’ultima nell’ambito della società, non potendo certo escludersi che egli venga a trovarsi in futuro in un’analoga posizione nella stessa o in altra struttura aziendale).
Il giudice di merito, nel valutare la concedibilità della sospensione condizionale della pena, non ha l’obbligo di prendere in esame tutti gli elementi indicati nell’art. 133 cod. pen., ma può limitarsi ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti (così sez. 3, n. 6641 del 17.11.2009 dep. il 18.2.2010, Miranda, rv. 246184, in un caso in cui la Corte ha ritenuto esaustiva la motivazione della esclusione del beneficio fondata sul riferimento ai precedenti penali dell’imputato; conf. sez. 2, n. 19298 del 15.4.2015, Di Domenico, rv. 263534).
Non va dimenticato, peraltro, che costituisce ius receptum il principio per cui legittimamente il beneficio della sospensione condizionale della pena è negato dal giudice in base a prognosi sfavorevole nella quale rientrano, oltre le sentenze di condanna riportate dall’imputato, anche i precedenti giudiziari di cui all’art. 133 cod. pen. in quanto il giudizio prognostico ex art. 164, comma primo, cod. pen., per altro, è del tutto indipendente dai limiti relativi alla misura della pena fissati dall’art. 163 cod. pen. che determinano la concedibilità in astratto del beneficio ma non certo il contenuto favorevole della prognosi (così questa sez. 4, n. 4073 del 23.2.1996, Avena, rv. 205188).
7. In ultimo, va rilevato che, all’atto in cui è intervenuta la sentenza di appello (in data 24.10.2014) il reato di cui all’imputazione non era ancora prescritto, venendo a spirare il termine massimo di prescrizione, tenuto conto delle intervenute interruzioni, solo in data 4.1.2015.
Tuttavia non può porsi in questa sede la questione della declaratoria della prescrizione maturata dopo la sentenza d’appello, in considerazione della manifesta infondatezza del ricorso.
La giurisprudenza di questa Corte Suprema ha, infatti, più volte ribadito che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen (Cass. pen., Sez. un,, 22 novembre 2000, n. 32, De Luca, rv. 217266: nella specie la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. un., 2 marzo 2005, n. 23428, Bracale, rv. 231164, e Sez. un., 28 febbraio 2008, n. 19601, Niccoli, rv. 239400; in ultimo Cass. pen. Sez. 2, n. 28848 dell’8.5.2013, rv. 256463).
Non appare rilevante, infine, procedersi alla richiesta (ulteriore) correzione di errore materiale in quanto stavolta l’errore materiale segnalato in ricorso, in cui pure effettivamente la Corte territoriale è incorsa, ha investito la sola premessa dell’atto e non crea alcuna confusione in relazione al soggetto appellante e all’atto appellato.
8. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1000,00 in favore della cassa delle ammende
Così deciso in Roma il 10 dicembre 2015

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