Cassazione Penale, Sez. 4, 13 maggio 2016, n. 20067

Caduta dal vano scala. Responsabilità degli amministratori e direttori tecnici dell’impresa edilizia quali gestori del rischio.


Presidente: BLAIOTTA ROCCO MARCO
Relatore: TANGA ANTONIO LEONARDO
Data Udienza: 10/03/2016

Fatto

1. Con sentenza n. 778 del 04/05/2015, la Corte di Appello di Lecce confermava la sentenza del Tribunale di Lecce, in data 09/10/2012 la quale condannava T.S. e T.L. alla pena di € 1000,00 ciascuno, in relazione al reato di cui all’art. 590, commi 1, 2 e 3, c.p. perché nella, qualità di amministratori della “T. Costruzioni s.r.l” corrente in Lecce, nonché datori di lavoro di R.A., per colpa consistita in imperizia, imprudenza, negligenza, inosservanza delle norme dettate per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (artt.68 e 10 D.P.R. 164/1956, vigenti all’epoca e poi sostituiti dagli artt. 146 e 115 D.lgs. 81/2008), cagionavano al dipendente lesioni personali guarite in un tempo superiore a gg. 40, con inabilità permanente al 28%, consistite in “frattura scomposta pluriframmentaria polso destro e sinistro, trauma cranico con frattura tetto orbita parete anteriore seno frontale lamina etmoide a sinistra”.
In Lecce il 19/09/2007.
1.1. La Corte territoriale, facendo proprie le conclusioni a cui era pervenuto il primo giudice, ha ritenuto che il giorno dell’incidente il R.A. stava regolarmente lavorando sul cantiere (unitamente ad altri lavoratori); in particolare egli si trovava sulla torretta del vano scala ascensore posta all’ultimo piano dell’edificio in costruzione intento ad impalcare il solaio di copertura, e non poteva, pertanto, ipotizzarsi ragionevolmente che la circostanza che il R.A. stesse lavorando fosse il frutto di un’autonoma ed anomala sua iniziativa. Per la Corte del merito, inoltre, risultava evidente che il R.A. stesse lavorando in condizioni di sicurezza inadeguate dando per certo che il vano scala teatro del sinistro non era provvisto di protezioni atte ad evitare la caduta dall’alto di persone (ponteggi perimetrali) e proprio tale mancanza di prevenzioni consentiva la caduta della vittima con le conseguenze riportate al punto che precede.
2. Avverso la suddetta sentenza d’appello propongono ricorso per cassazione T.S. e T.L., a mezzo del proprio difensore, lamentando (in sintesi giusta il disposto di cui all’art.173, comma 1, disp. att. c.p.p.):
I) vizi motivazionali in ordine ai segnalati punti di impugnazione già espressi con l’atto di appello, avendo il giudice territoriale omesso l’esame, e quindi la motivazione, circa la circostanza essenziale e determinante del comportamento anomalo del lavoratore, da cui è derivato l’evento in questione.
2.1. I medesimi motivi sono stati poi esplicati e ribaditi con memoria difensiva datata 16/02/2016.

Diritto

3. Il ricorso è manifestamente infondato.
4. I ricorrenti ignorano le analitiche ragioni esplicitate dal giudice di appello per rigettare analoghi motivi di gravame.
4.1. La Corte territoriale ha, in vero, fornito puntuale spiegazione del ragionamento posto a base del rigetto di tutti i motivi d’impugnazione procedendo alla coerente e corretta disamina di ogni questione di fatto e di diritto.
5. Nel caso di specie si tratta., in vero, di censure con cui si pretende di rivalutare le acquisizioni probatorie e le condotte degli imputati, prerogativa, questa, riservata al giudice di merito e preclusa in sede di legittimità. Giova rammentare che “esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità, la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali” (Sez. Un. 30.4.1997, Dessimone). L’impugnata sentenza -unitamente a quella originaria confermata-, in realtà, hanno reso compiuta ed esaustiva motivazione, come tale non meritevole di alcuna censura, in ordine a tutte le doglianze sollevate con l’atto di appello (Sez. 4 n. 16390 del 13/02/2015).
5.1. In ordine alla definizione dei confini del controllo di legittimità sulla motivazione in fatto può dirsi ormai consolidato il principio giurisprudenziale, ripetuto in plurime sentenze delle Sezioni unite penali, per il quale la Corte di cassazione ha il compito di controllare il ragionamento probatorio e la giustificazione della decisione del giudice di merito, non il contenuto della medesima, essendo essa giudice non del risultato probatorio, ma del relativo procedimento e della logicità del discorso argomentativo. La Corte ha, in vero, più volte chiarito che non è sufficiente che gli atti indicati dal ricorrente siano contrastanti con le valutazioni del giudice o siano astrattamente idonee a fondare una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudice; gli atti del processo su cui fa leva il ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione devono essere autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudice e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente contraddittoria la motivazione. E ciò, nella specie, non è. In secondo luogo la Corte ha chiarito che resta preclusa al giudice di legittimità la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti.
6. Osserva il collegio come, con riguardo agli aspetti evidenziati nell’impugnazione (concernenti un ipotetico travisamento della prova), i ricorrenti si siano limitati a prospettare un’alternativa ipotesi interpretativa, fondata su una rilettura delle evidenze probatorie acquisite, senza giungere all’effettiva dimostrazione del concreto e rilevante travisamento della prova infondatamente denunciato. Sul punto, è appena il caso di richiamare il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale la modificazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006 consente la deduzione del vizio del travisamento della prova là dove si contesti l’introduzione, nella motivazione, di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, ovvero si ometta la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia (Sez. 4, n.49361 del 04/12/2015). E ciò nella specie non è.
7. Il legislatore, ha fissato i principi rinvenibili nelle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008 (nel quale sono state trasfuse anche quelle previgenti e di cui al D.P.R. 164/1956). Alla stregua di essi il datore di lavoro, è il primo destinatario delle disposizioni antinfortunistiche. In generale, dalla sopra richiamata disciplina normativa si desume il principio, secondo il quale, il titolare di una posizione di garanzia (nella specie i ricorrenti) ha il dovere di attuare tutte le misure di prevenzione e protezione dei rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa.
7.2. Quanto, infine, alla rilevanza della eventuali condotte negligenti ovvero imprudenti riferibili al dipendente infortunato, occorre osservare che, nell’ambito della sicurezza sul lavoro emerge la centralità del concetto di rischio, in un contesto preposto a governare ed evitare i pericoli connessi al fatto che l’uomo si inserisce in un apparato disseminato di insidie. Rispetto ad ogni area di rischio esistono distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare; il “garante è il soggetto che gestisce il rischio” e, quindi, colui al quale deve essere imputato, sul piano oggettivo, l’illecito, qualora l’evento si sia prodotto nell’ambito della sua sfera gestoria. Proprio nell’ambito in parola (quello della sicurezza sul lavoro) il D.Lgs. n. 81 del 2008 (così come la precedente normativa in esso trasfusa) consente di individuare la genesi e la conformazione della posizione di garanzia, e, conseguentemente, la responsabilità gestoria che in ipotesi di condotte colpose, può fondare la responsabilità penale.
7.3. Nel caso che occupa gli imputati (quali amministratori e direttori tecnici dell’impesa edilizia) erano i gestori del rischio e l’evento si è verificato nell’alveo della loro sfera gestoria; la eventuale ed ipotetica condotta abnorme del lavoratore non può considerarsi interruttiva del nesso di condizionamento poiché essa non si è collocata al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso. In altri termini la complessiva condotta del lavoratore non fu eccentrica rispetto al rischio lavorativo che i garanti (i ricorrenti) erano chiamati a governare (Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014 Rv. 261108).
7.4. Nulla, poi, è emerso che possa lasciar presumere che il rispetto delle norme cautelari violate non fosse concretamente esigibile dai ricorrenti, nelle condizioni date.
8. La corte del merito, infine, ha adeguatamente, congruamente e incensurabilmente motivato sul punto valorizzando (in maniera assorbente) che “il giorno dell’incidente il R.A. stava regolarmente lavorando sul cantiere unitamente ad altri lavoratori (i manovali Omissis hanno confermato nelle dichiarazioni acquisite agli atti che quel giorno, erano impegnati nel lavoro, seppure in postazioni non prossime a quella del R.A., che si trovava, come da lui riferito, sulla torretta del vano scala ascensore posta all’ultimo piano dell’edificio in costruzione intento ad impalcare il solaio di copertura). Risulta pertanto smentito l’assunto difensivo…secondo cui quel giorno era la festa (patronale) di Copertino e non era previsto che dovesse svolgere attività lavorativa alcuno del dipendenti dell’impresa. Non può pertanto ipotizzarsi ragionevolmente che la circostanza che il R.A. stesse lavorando sia stata il frutto di un’autonoma ed anomala sua iniziativa. Le dichiarazioni rese dal R.A. su luogo, condizioni e modalità di lavoro al momento dell’incidente hanno trovato riscontro nell’accertamento eseguito dal personale dello SPESAL e nella documentazione fotografica. Risulta evidente che il R.A. stesse lavorando in condizioni di sicurezza, inadeguate: è dato certo che il vano scala teatro del sinistro non era provvisto di protezioni atte ad evitare la caduta dall’alto di persone (ponteggi perimetrali); il teste Omissis ha escluso in particolare che le attrezzature esistenti sul cantiere … potessero essere utilizzati a tale fine, essendo destinate ad altro scopo connesso alla buona riuscita dell’opera”. Ciò basta a consolidare l’inammissibilità dei ricorsi.
9. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché -ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (cfr. Corte costituzionale sentenza n. 186 del 2000)- al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in € 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di €1.000,00 ciascuno in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 10/03/2016

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