Cassazione Penale, Sez. 4, 13 ottobre 2016, n. 43271

Somministrazione di lavoro: infortunio di un lavoratore per mancanza di DPI. Responsabilità del datore di lavoro e d. lgs. n. 231/01. 


Presidente: BIANCHI LUISA
Relatore: MENICHETTI CARLA
Data Udienza: 20/09/2016

Fatto

1. Con sentenza in data 9 luglio 2015 la Corte d’Appello di Bologna confermava la condanna pronunciata dal Tribunale cittadino nei confronti di G.E. per il reato di cui agli artt. 590, comma 3, 583, comma 1 n.l, c.p. ai danni di L.L.G., assunto a tempo indeterminato dalla società di somministrazione di lavoro temporaneo “J.O.B. spa” e da quest’ultima avviato presso l’azienda del G.E. come operaio addetto alla pallinatura; confermava altresì la condanna al risarcimento dei danni in favore della persona offesa, costituitasi parte civile.
Era stato contestato all’imputato, nella sua qualità di Presidente del Consiglio di Amministrazione e legale rappresentante della società “TT srl”, e dunque di datore di lavoro, di aver cagionato lesioni colpose gravi al detto operaio, a seguito dell’entrata di un corpo estraneo metallico nell’occhio sinistro, che aveva reso necessario un intervento chirurgico di asportazione della cataratta e sostituzione del cristallino con uno artificiale, con postumi permanenti invalidanti. Erano state poi delineate, come profili di colpa specifica, la omessa valutazione e previsione dello specifico rischio di “proiezione” di schegge a seguito dell’urto tra pezzi in lavorazione, la omessa adozione di misure protettive ed ancora la omessa formazione del lavoratore in materia di sicurezza.
Al G.E. era stato ancora contestato, nella indicata qualità, l’illecito amministrativo dipendente dal reato, commesso nell’interesse della società, poiché le omissioni antinfortunistiche avrebbero, in ipotesi, consentito una produzione più rapida di pezzi ad un costo minore, illecito dichiarato insussistente dal Tribunale.
2. La Corte territoriale, nel rigettare i motivi di gravame e ripercorrendo le motivazioni svolte dal primo giudice, evidenziava in primo luogo che l’acquisto da parte dell’imputato di occhiali di protezione a far data dal 2003 non era sufficiente ad esonerarlo dalla responsabilità per l’evento lesivo, in quanto i tecnici della ASL, acceduti presso la sede della ditta, avevano rilevato che nessuno degli addetti ai lavori indossava occhiali protettivi ed inoltre nel Documento di valutazione dei rischi dell’azienda non era stata contemplata la possibilità specifica di formazione e proiezione di schegge durante lo scarico dalle ceste ai cassoni dei pezzi metallici usciti dalla pallinatura.
Quanto all’elemento soggettivo del reato, escludeva che la designazione di un responsabile della sicurezza e della prevenzione nell’ambiente di lavoro ed il contestuale affidamento al capo del reparto pallinatura del compito di controllare l’organizzazione del lavoro, esonerasse il datore di lavoro dalla responsabilità in ordine agli infortuni dovuti alla mancata osservanza delle misure previste dalla legge.
Nessuna colpa poteva poi essere addebitata al lavoratore infortunato per il mancato utilizzo degli strumenti di protezione e prevenzione datigli in dotazione, di cui risultava una mera firma per presa di consegna, in quanto non era stato appurato che gli occhiali gli fossero stati effettivamente forniti ed anzi era certo che nessuno li utilizzasse.
Infine, andava esclusa ogni condotta imprevedibile ed abnorme dell’operaio, che al momento dell’Infortunio stava svolgendo l’attività cui era addetto.
3. Ha proposto ricorso l’imputato, tramite il difensore di fiducia, per tre distinti motivi.
3.1. Con un primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al giudicato interno formatosi sull’illecito amministrativo contestato alla società TT srl”.
3.2. Con un secondo motivo lamenta illogicità della motivazione con riferimento all’elemento soggettivo del reato, non avendo la Corte tenuto conto della posizione apicale rivestita dal G.E., il quale oltre ad essere a capo di una complessa organizzazione aziendale, aveva nominato un responsabile per la sicurezza e la prevenzione, tal M.F., ed inoltre contestualmente affidato al capo reparto pallinatura, L.M., il compito di sovraintendere alla puntuale osservanza delle prescrizioni intinfortunistiche.
3.3. Con un terzo motivo lamenta infine che la Corte d’Appello non si era posta la questione dell’applicabilità dell’alt.131 bis c.p.
3.4. Con successiva memoria depositata ex art.121 c.p.p. ha chiesto in subordine l’annullamento della sentenza per maturata prescrizione.
4. La parte civile ha anch’essa depositato memoria ex art.121 c.p.p. in replica ai motivi di ricorso.
 

Diritto

 
1. Il ricorso non è fondato.
2. In ordine al primo motivo si osserva che la declaratoria di insussistenza dell’illecito amministrativo contestato alla TT r.l., e dunque al G.E. quale Presidente del consiglio di amministrazione e legale rappresentante, non ha valore di giudicato interno – come sostiene la difesa dell’imputato – che porterebbe all’esclusione della penale responsabilità per il reato di lesioni ai danni del lavoratore.
L’illecito amministrativo dipendente da reato infatti, come ben evidenziato dai giudici di merito, si configura esclusivamente quando è dimostrato che dalla condotta colposa costituente reato sia derivato un incremento in termini di produttività aziendale ovvero un concreto vantaggio per l’impresa,-consistente in un risparmio di spesa conseguito alla mancata adozione delle misure di prevenzione, relazione esclusa nel caso di specie in cui l’addebito è stato attribuito ad una negligenza occasionale e non ad una scelta di politica aziendale.
Il reato contestato alla persona fisica funge solo da presupposto per la responsabilità della persona giuridica, da affermarsi quest’ultima qualora ne sussistano gli elementi costitutivi, indicati dal D.Lgs.n.231/2001 nell’Interesse o vantaggio derivanti dalla condotta costituente reato (S.U., 25 settembre 2014, Uniland Spa ed altro, Rv.263679; S.U., 24 aprile 2014, Espenhahn ed altri, Rv.261115).
3. In relazione al secondo motivo non può che ribadirsi il principio costantemente affermato da questa Corte Suprema in materia di obblighi di vigilanza e di controllo gravanti sul datore di lavoro, obblighi che non vengono meno con la nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, il quale svolge solo una funzione di ausilio diretta a supportare e non a sostituire il datore di lavoro nell’individuazione dei fattori di rischio nella lavorazione, nella scelta delle procedure di sicurezza e nelle pratiche di informazione e di formazione dei dipendenti.
Dunque nonostante si sia proceduto, come nel caso di specie, alla nomina di un RSPP il G.E., nella sua posizione di garanzia quale datore di lavoro, ha mantenuto l’obbligo di effettuare la valutazione dei rischi e di elaborare il documento relativo alle misure di prevenzione e protezione, come imposto espressamente dall’art. 17 D.Lgs.n.81/2008 anche nelle imprese di grandi dimensioni (Sez.4, 5 aprile 2013 n.50605, rv.258125).
La Corte territoriale, con ragionamento immune da vizi logici e giuridici, ha escluso la concreta previsione del rischio e conseguentemente la sua corretta gestione e, per altro verso, ogni condotta incongrua del lavoratore: quest’ultima infatti – come più volte affermato da questa Corte Suprema (così la già citata S.U. n.38343/2014, Espenhahn e altri) – può considerarsi interruttiva del nesso di condizionamento solo quando si collochi in qualche modo al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso, mentre nel caso di specie l’evento e la condotta omissiva che vi ha dato causa sono riconducibili proprio all’area di rischio tipica della prestazione lavorativa.
Il datore di lavoro ha dunque l’obbligo giuridico di analizzare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda e, all’esito, deve redigere e sottoporre ad aggiornamenti periodici il documento di valutazione dei rischi previsto dall’art.28 del D.Lgs.n.81/2008, all’interno del quale è tenuto ad indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori. Lo strumento della adeguata valutazione dei rischi è un documento che il datore di lavoro deve elaborare con il massimo grado di specificità, restandone egli garante: l’essenzialità di tale documento deriva con evidenza dal fatto che, senza la piena consapevolezza di tutti i rischi per la sicurezza, non è possibile una adeguata politica antinfortunistica (così, Sez.4, 13 dicembre 2010, n.43786, Cozzini). E ciò perché in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il rapporto di causalità tra la condotta dei responsabili della normativa antinfortunistica e l’evento lesivo deve essere accertato in concreto, rapportando gli effetti dell’omissione all’evento che si è concretamente verificato (Sez.4, 10 marzo 2016 n. 20129, Rv.267253; Sez.4, 3 marzo 2010 n. 8622, Rv.246498).
Facendo applicazione di tali principi di diritto, la Corte di Bologna, richiamate le argomentazioni del giudice di prime cure, ha del tutto correttamente affermato che una adeguata valutazione del rischio avrebbe dovuto prevedere il rischio di proiezione di schegge durante lo scarico delle ceste ai cassoni dei pezzi metallici usciti dalla pallinatura ed imporre l’adozione degli occhiali protettivi, che invece – come emerso dall’istruttoria di cui hanno dato conto i giudici di merito – nessuno indossava.
4. Quanto alla doglianza relativa alla mancata applicazione dell’art.131 bis c.p. si impongono due considerazioni: la prima, che la richiesta doveva essere avanzata nel corso del giudizio di appello, avendo questa Corte statuito nel senso può essere esaminata la questione in sede di legittimità solo ove non era possibile proporla prima (S. U., 25 febbraio – 6 aprile 2016 n.13681, Rv.266590); la seconda, che la Corte di Bologna ha ritenuto implicitamente il fatto non di lieve entità avendo disatteso la richiesta della difesa di conversione della pena detentiva irrogata nella corrispondente pena pecuniaria.
5. Il tempo decorso dalla data del fatto comporta peraltro la declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, non potendosi – per le considerazioni sin qui svolte – pronunciare sentenza assolutoria ex art.129 c.p.p.
Ne deriva l’annullamento della sentenza agli affetti penali ed il rigetto del ricorso ai fini civili.

P.Q.M

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 20 settembre 2016.

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