Cassazione Penale, Sez. 4, 14 giugno 2016, n. 24697

Ampi spazi vuoti sul piano di calpestio e caduta dall’alto. Responsabilità del datore di lavoro e della società: non è di scarsa rilevanza il “vantaggio” conseguito dall’aver trascurato la sicurezza.


Presidente: CIAMPI FRANCESCO MARIA
Relatore: GIANNITI PASQUALE
Data Udienza: 20/04/2016

Fatto

1. Nella mattina del 31 maggio 2012 presso l’Impianto di frantumazione della S. srl, sito in Mezzocorona, località Le Fornaci-Maso Nuovo, si è verificato un incidente, a seguito del quale il lavoratore dipendente D’A.L. riportava lesioni personali (e, precisamente, una frattura amielica lombare plurima e la frattura del polso destro) con conseguente incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore a 40 giorni.
2. M.P., quale datore di lavoro e presidente del consiglio di amministrazione e consigliere delegato dalla S. srl, V.G., quale dirigente e responsabile dell’impianto di frantumazione, e Z.E., quale lavoratore dipendente addetto presso il suddetto impianto, sono stati tratti a giudizio davanti al Tribunale di Trento per rispondere di cooperazione nel reato di lesioni personali gravi, aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica (artt. 113, 590 commi 2 e 3 c.p.), commesso in Mezzocorona (e precisamente presso il citato impianto di frantumazione) il 31 maggio 2012 ai danni del lavoratore D’A.L..
Era accaduto che D’A.L., operaio specializzato di terzo livello, coinvolto dallo Z.E. nell’attività di ripristino dell’impianto (allorquando lo stesso, per l’avvenuta sostituzione di parte del grigliato con tavoloni di legno e per la successiva rimozione di questi tavoloni, presentava ampi spazi vuoti sul piano di calpestio), si era determinato, per quanto imprudentemente, a testare il funzionamento dell’impianto, finendo per il cadere da una delle dette aperture, riportando le suddette gravi lesioni.
E’ stato contestato a tutti gli imputati di aver cagionato colposamente le suddette lesioni per violazione della normativa in materia di prevenzione infortuni sul lavoro.
In particolare: al M.P. e al V.G., nell’ambito delle rispettive competenze e attribuzioni, è stata contestata la colpa generica sotto forma di negligenza ed omessa vigilanza (art. 18 comma 3 bis del d. Lgs. n. 81/2008), nonché la colpa specifica, sotto forma di violazione dell’art. 71 comma 4 lettera a, numeri 1 e 2 del d. lgs. n. 81/2008 (in ragione della mancata adeguata considerazione della manutenzione del piano di calpestio – grigliato – della torre di lavaggio – settore 4, che da almeno un paio di mesi non garantiva i necessari requisiti di funzionalità e di sicurezza e che era stato provvisoriamente, per iniziativa individuale del lavoratore Z.E., conduttore dell’impianto, coperto con dei tavolati di legno con contestuale eliminazione dell’originario piano grigliato).
D’altra parte, al Z.E. è stata contestata la colpa generica, sotto forma di disattenzione, nonché la colpa specifica, sotto forma di violazione dell’art. 20 comma 2 lettera g del d. Lgs. n. 81/2008 (in ragione del fatto che, pur avendo segnalata la condizione di difettosa manutenzione dell’impianto, dapprima provvedeva autonomamente a sostituire il grigliato con tavoloni in legno e, poi, unitamente al collega D’A.L., assumeva l’iniziativa di provare l’impianto, pur allorquando questo presentava diverse parti mancanti).
3. Ai sensi dell’art. 25 del d. lgs. 8 giugno 2001 n. 231, come inserito dall’art. 9 della legge 3 agosto 2007 n. 123, inerente l’applicabilità della disciplina in materia di responsabilità amministrativa degli enti anche alle ipotesi di commissione dei reati di cui agli artt. 589 e 590 comma 3 c.p., anche la società S. srl è stata tratta a giudizio davanti al suddetto Tribunale in relazione al reato commesso nel suo interesse dai predetti indagati.
4. V.G. e Z.E. sono stati giudicati a parte con rito speciale, previo stralcio.
5. Il Tribunale di Trento, con sentenza emessa in data 30 ottobre 2013 ad esito di giudizio abbreviato (condizionato all’escussione assistita di V.G. ed all’acquisizione di documentazione prodotta dalla difesa), ha condannato M.P. alla pena di euro 1000 di multa ed ha applicato alla società S. la sanzione pecuniaria di n. 100 (cento) quote, ciascuna determinata nell’importo minimo di euro 258, diminuita di un terzo per il rito.
6. La Corte di appello di Trento, con sentenza emessa in data 13 febbraio 2015 a seguito di appello dell’imputato M.P. e della S. srl, ha confermato la sentenza del giudice di primo grado, condannando entrambi gli appellanti al pagamento delle spese processuali.
7. Avverso la suddetta sentenza della Corte territoriale propongono distinti ricorsi l’imputato e la società, a mezzo del comune difensore di fiducia.
8. Il ricorso presentato nell’interesse dell’Imputato M.P. è affidato a 4 motivi di ricorso e, ai fini dell’autosufficienza, ad esso sono allegati 12 documenti (precisamente verbale stenotipato 30/10/2013, DPRV S.; verbali di sommarie informazioni rese da Z.E. e da D’A.L.; nota informativa Ispettorato del Lavoro; procura speciale; organigramma aziendale ed altri documenti allegati alla richiesta di giudizio abbreviato; sentenza Tribunale di Trento; atto di appello ed allegata quietenza risarcitoria; sentenza Corte di appello di Trento).
8.1. Con il primo vengono denunciati vizio di motivazione e violazione di legge (con travisamento della prova) in punto di disponibilità dei pannelli d’armo presso l’azienda e di fermo dell’impianto per la manutenzione.
Precisamente, secondo il ricorrente, la Corte territoriale sarebbe incorsa nei suddetti vizi laddove aveva ritenuto l’esistenza di una prassi (quella di coprire gli spazi vuoti con le tavole d’armo ogni volta che bisognava dar corso ad operazioni di manutenzione che poi venivano eliminate), mentre dagli atti era risultato che la predisposizione dei bancali in sostituzione del grigliato era stata una iniziativa sporadica del lavoratore Z.E., di cui non erano a conoscenza i superiori dello stesso.
8.2. Con il secondo vengono denunciati vizio di motivazione e violazione di legge in punto di non ritenuta imprevedibilità dell’evento e di non ritenuta inesigibilità della condotta contestata.
Al riguardo il ricorrente – dopo aver premesso che la responsabilità colposa dell’agente va limitata a quei soli eventi lesivi del bene giuridico protetto prevedibili, il cui accertamento va effettuato ex ante e valutato dal punto di vista dell’agente per verificare se era prevedibile che la sua condotta avrebbe potuto provocare quell’evento – ha osservato:
-quanto alla contestazione a titolo di colpa specifica ex art. 71 comma 4 lett. a) numeri 1 e 2, che una valutazione preliminare dei rischi per la salute e per la sicurezza doveva essere stata correttamente effettuata, in quanto nessuna censura era stata mossa in seno al procedimento per quanto riguardava il Documento di valutazione dei rischi (che prevedeva l’organizzazione delle attività lavorative). Da detto documento si deduce che il singolo adempimento in materia di sicurezza sul lavoro era stato delegato, in primo luogo (primo livello), al responsabile dell’impianto Z.E. e, in secondo luogo (secondo livello, qualificato come “controllo, coordinamento e sorveglianza”), a V.G.. Pertanto, a suo capo poteva soltanto residuare un obbligo di controllo di livello ancora più generale, da intendersi come obbligo di organizzazione dell’attività in modo sicuro;
-quanto alla contestazione a titolo di colpa generica, che nulla gli poteva essere addebitato per le condizioni in cui versava il piano di calpestio e per le procedure adottate per le riparazioni; ciò in quanto lui aveva mai saputo delle problematiche inerenti la manutenzione ordinaria dell’impianto in cui si è verificato l’infortunio, a causa della mancanza di informazioni dal basso verso l’alto della scala aziendale, che aveva caratterizzato la vicenda sottesa al processo; detta mancanza di conoscenza aveva riguardato non soltanto l’apposizione e la rimozione dei pannelli, ma anche dello stesso svolgersi del lavori di manutenzione;
8.3. Con il terzo vengono denunciati vizio di motivazione e violazione di legge (con travisamento della prova) in punto di: dovere di vigilanza e controllo del datore di lavoro; principio di affidamento in materia antinfortunistica; nesso causale tra condotta ed evento.
Al riguardo il ricorrente deduce che, anche in presenza di condotta colposa del datore di lavoro, il nesso causale tra condotta ed evento si interrompe ogniqualvolta intervenga un evento eccezionale ed imprevedibile del lavoratore. Tanto era avvenuto nel caso di specie, nel quale l’incidente si era verificato a causa di una condotta del tutto riconducibile al lavoratore Z.E. ed al lavoratore infortunato D’A.L.. La corretta lettura del c.d. principio di affidamento, che governa il riparto delle responsabilità in materia di reati colposi, allorquando siano più di uno i soggetti titolari di una determinata posizione di garanzia, gli consentiva di fare affidamento sull’osservanza delle misure antiinfortunistiche da parte del lavoratore e lo solleverebbe da ogni responsabilità nel caso di specie nel quale addirittura vi era stato un concorso tra l’inosservanza di una regola precauzionale da parte di un lavoratore (lo Z.E.) ed il comportamento imprudente del lavoratore infortunato (il D’A.L.).
Aggiunge che nel caso in cui l’inosservanza della specifica disposizione antiinfortunistica sia stata repentina ed imprevedibile (come si era verificato nel caso di specie da parte dell’Infortunato ma anche dello Z.E.), si interrompe il rapporto causale tra il supposto omesso controllo da parte datoriale e l’evento lesivo. Si lamenta del fatto che la Corte aveva escluso l’interruzione del nesso causale sul dichiarato presupposto (p.16) che “la sostituzione del grigliato, l’adozione delle procedure di sicurezza (effettiva inaccessibilità dell’impianto) avrebbe certamente evitato l’infortunio”, mentre in altro luogo aveva affermato che la procedura di rimpiazzamento dei pannelli d’armo, se adottata, gli avrebbe consentito di lavorare in sicurezza. In definitiva, secondo il ricorrente, l’incidente si è verificato non per una sua negligenza datoriale, ma per un comportamento abnorme dei lavoratori (Z.E. e D’A.L.), dovendosi intendere per tale non soltanto il comportamento esorbitante dalle normali operazioni di lavoro del lavoratore, ma anche il comportamento che rientri nelle mansioni proprie di quest’ultimo ma che sia radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili (e quindi prevedibili scelte del lavoratore nell’esecuzione del lavoro (cfr. Cass. 40164 del 2004 Giustiniani)
8.4. Con il quarto vengono denunciati vizio di motivazione e violazione di legge (con travisamento della prova) in punto di mancata concessione delle attenuanti generiche.
In particolare, il ricorrente, che è incensurato, si lamenta del fatto che la Corte territoriale, nell’effettuare la valutazione inerente la concessione delle attenuanti generiche, non aveva effettuato una valutazione complessiva della condotta, tenendo conto dei criteri indicati dall’art. 133 c.p. e, in particolare, a) della concreta organizzazione della società, b) del fatto che la sua condotta, quand’anche ritenuta colpevole, era stata preceduta da una carenza di informazione a lui non addebitabile; c) l’avvenuto risarcimento del danno, di cui l’assicurazione aveva dato comunicazione soltanto a seguito della dichiarazione di apertura del dibattimento.
9. Il ricorso presentato nell’interesse della società è affidato a 3 motivi di ricorso e, ai fini dell’autosufficienza, ad esso sono allegati 12 documenti (precisamente 11 già allegati al ricorso M.P., oltre alla relazione dell’Ing. S. allegata alla richiesta di abbreviato condizionato).
9.1. Con il primo vengono dedotti vizio di motivazione e violazione di legge (con travisamento dei fatti) in punto di disponibilità dei pannelli d’armo presso l’azienda e in punto di fermo dell’impianto per la manutenzione.
Al riguardo, la società ricorrente faceva presente che:
-da un lato, dalle sommarie informazioni rese da Z.E. in data 31 maggio 2015 doveva desumersi che: a) per il funzionamento dell’impianto, non era necessario accedere al piano (l’accesso al quale era peraltro precluso da una ringhiera); b) sul piano erano stati posti i pannelli d’armo esclusivamente per i lavori di manutenzione; c) l’impianto era rimasto fermo soltanto il giorno precedente l’infortunio per la manutenzione ordinaria del nastro e sarebbe dovuto rimanere fermo, per l’ultimazione dei lavori, anche la mattina successiva;
– dall’altro, da nessuna risultanza processuale risultava che i pannelli d’armo, posti in sostituzione provvisoria del grigliato, erano già nella disponibilità dell’impianto.
9.2. Con il secondo vengono denunciati vizio di motivazione e violazione di legge in punto di ritenuta sussistenza del requisito dell’interesse o vantaggio dell’ente ai sensi dell’art. 5 d. lgs. n. 231/2001.
Al riguardo, il ricorrente svolge in primo luogo delle premesse di inquadramento per poi valutare le ricadute delle stesse nel caso di specie.
Sotto il primo profilo (quello delle premesse), osserva che il legislatore con la novella 123/2007, nell’estendere l’applicabilità della disciplina in materia di responsabilità amministrativa degli enti anche alle ipotesi di commissione dei reati di cui agli artt. 589 e 590 comma 3 c.p., aveva omesso di considerare che detti reati hanno natura colposa di evento, ragion per cui sarebbe stato necessario conformare i preesistenti criteri di iscrizione della responsabilità di cui all’art. 5 comma 1. Quindi si sofferma sull’esigenza di dare alla norma una interpretazione costituzionalmente orientata e ricorda che la Corte costituzionale in un obiter dictum contenuto nella sentenza n. 218/2014 ha affermato che nel sistema delineato dal d. lgs. n. 213/2001 l’illecito ascrivibile all’ente costituisce una fattispecie complessa e non si identifica con il reato commesso dalla persona fisica, il quale è solo uno degli elementi che formano l’illecito da cui deriva la responsabilità amministrativa, unitamente alla qualifica della persona fisica, alle condizioni perché della sua condotta debba essere ritenuto responsabile l’ente e alla sussistenza dell’interesse o vantaggio di questo. Infine, deduce da detto obiter dicutm della Consulta che, perché l’ente sia chiamato a rispondere, non è sufficiente che il reato sia connesso allo svolgimento della sua attività, ma è necessario che il reato appartenga al suo agire: diversamente opinando, il binomio interesse / vantaggio perderebbe di significato e la clausola di esonero della responsabilità, di cui all’art. 5 comma 2, non potrebbe operare.
Con specifico riferimento al caso di specie, la società ricorrente – rilevato che non poteva dirsi provato che i pannelli d’armo fossero già presenti sul luogo; che detti pannelli erano stati posati esclusivamente per la messa in sicurezza del piano di calpestio ad uso della ditta esterna; che l’impianto era funzionante anche in assenza del grigliato e che i lavori di tenditura del nastro hanno comportato soltanto un giorno di fermo dell’impianto (che avrebbe dovuto comunque essere fermato a prescindere che fosse presente il grigliato o ancora pannelli d’armo) – deduce di non aver avuto alcun interesse o vantaggio dalla condotta causativa dell’evento lesivo. Ricorda le violazioni della normativa antinfortunistica addebitate ai soggetti ritenuti responsabili del reato presupposto e sottolinea che la sua responsabilità potrebbe essere eventualmente ascritta esclusivamente a dette violazioni. Rileva che l’art. 18 comma 3 bis del d. Lgs. n. 81/2008 impone al datore di lavoro ed al preposto di esercitare una costante vigilanza sull’adempimento degli obblighi spettanti a ciascuna delle altre figure popolanti la scena-lavoro, ragion per cui essi sono esenti da responsabilità soltanto qualora la violazione sia addebitabile esclusivamente all’autore della stessa. Ricorda anche l’art. 71 comma 4 lettera a) numeri 1 e 2 è espressione del generale dovere di vigilanza e di controllo da parte del datore di lavoro. Aggiunge, quanto all’interesse, che, soltanto nel caso in cui il mancato esercizio dei doverosi poteri di controllo sull’operato altrui sia inquadrabile in un contesto volto ad ottenere una utilità per l’ente o a perseguire un interesse del reo o di un terzo, la condotta del soggetto apicale, è idonea ad ascrivere il conseguente reato alla sfera di responsabilità dell’ente; e, quanto al requisito del vantaggio, che lo stesso era stato escluso nella valutazione effettata, oltre che dal consulente di parte Ing. S., anche dagli Ispettori del lavoro (d’altronde, l’unico vantaggio che in astratto può essere ad essa derivato dalla condotta del soggetto apicale è stata l’anticipazione, favorita dalla predisposizione provvisoria dei pannelli, di un lavoro di tenditura del nastro (lavoro che avrebbe comportato un fermo di produzione anche in presenza di un piano grigliato conforme).
9.3. Con il terzo vengono dedotti vizio di motivazione e violazione di legge (anche con travisamento della prova) in punto di mancata applicazione delle attenuanti di cui all’art. 12 comma 1 lett. A) e, di conseguenza, di cui all’art. 11 comma 3 d.lgs. n. 231/2001 in considerazione della esiguità del vantaggio e dell’insussistenza dell’interesse; nonché di cui all’art. 12 comma 2 lett. A) per essersi l’ente adoperato per il risarcimento integrale del danno.
Al riguardo la società ricorrente si duole del fatto che la corte aveva affermato la sussistenza del vantaggio (qualificato come risparmio conseguente alla posposizione delle esigenze di sicurezza a quelle della produzione), senza in alcun modo quantificarlo.
Quanto poi all’ulteriore invocata attenuante, vero è che dalla quietanza prodotta in appello non risulta la data di intervenuto risarcimento, ma dagli atti – osserva la società ricorrente – risultava che l’ente si era quanto meno efficacemente adoperato (per l’appunto con l’attivazione dell’assicurazione).

Diritto

1. I ricorsi non sono fondati e, pertanto, non possono essere accolti.
2. Non fondati sono i primi tre motivi di doglianza contenuti nel ricorso del M.P., come pure il primo motivo di doglianza contenuto nel ricorso della società S., che qui si esaminano congiuntamente, in quanto tra loro strettamente connessi.
3. La disamina dei suddetti motivi impone una triplice comune premessa: in punto di posizione di garanzia del datore di lavoro; in punto di nesso di causalità tra il sinistro e le contestate infrazioni della disciplina antinfortunistica; nonché in punto di idoneità delle eventuali condotte negligenti riferibili al dipendente infortunato ad interrompere, ai sensi dell’art. 41, comma 2, c.p., il nesso di causalità sussistente tra l’omissione colposa di un garante e l’evento mortale (o, più semplicemente lesivo) che ne è derivato.
3.1. Sotto il primo profilo, secondo il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte (cfr. Sez. 4, n. 4361 del 21/10/2014, 2015, Ottino, Rv. 263200; sent n. 20595 del 12/04/2005, Castellani ed altro, Rv. 231370), le norme sulla prevenzione degli infortuni hanno la funzione primaria di evitare che si verifichino eventi lesivi della incolumità fisica, intrinsecamente connaturati all’esercizio dell’ attività lavorativa, anche nelle ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuale disaccortezza, imprudenza e disattenzione da parte del lavoratore subordinato.
Tale conclusione è fondata sulla disposizione generale di cui all’art. 2087 c.c. e di quelle specifiche previste dalla normativa antinfortunistica, secondo le quali, il datore di lavoro o comunque la persona dallo stesso delegata, è costituito garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l’ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l’evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo reattivo previsto dall’art. 40 c.p., comma 2.
Ne consegue che il titolare della posizione di garanzia ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici e del fatto che il lavoratore possa prestare la propria opera in condizioni di sicurezza, vigilando altresì a che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l’opera, essendo tale posizione di garanzia estesa anche al controllo della correttezza dell’agire del lavoratore, essendo imposto al “garante” (anche) di esigere dal lavoratore il rispetto delle regole di cautela.
3.2. Quanto al profilo causale, è indubbio che l’applicazione del principio di colpevolezza esclude qualsivoglia automatismo rispetto all’addebito di responsabilità e si impone la verifica, in concreto, della violazione da parte dell’imputato non solo della regola cautelare (generica o specifica), ma, soprattutto nel caso di specie, della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso, che la regola cautelare mirava a prevenire (la cd. “concretizzazione” del rischio).
L’individualizzazione della responsabilità penale impone di verificare, cioè, non soltanto se la condotta abbia concorso a determinare l’evento (ciò che si risolve nell’accertamento della sussistenza del nesso causale) e se la condotta sia stata caratterizzata dalla violazione di una regola cautelare sia essa generica o specifica, ma anche se l’autore della stessa potesse prevedere, con giudizio “ex ante” quello specifico sviluppo causale ed attivarsi per evitarlo.
In tale ambito ricostruttivo, la violazione della regola cautelare e la sussistenza del nesso di condizionamento tra la condotta e l’evento non sono sufficienti per fondare l’affermazione di responsabilità, giacché occorre anche chiedersi, necessariamente, se l’evento derivatone rappresenti o no la “concretizzazione” del rischio, che la regola stessa mirava a prevenire; e se l’evento dannoso fosse o meno prevedibile, da parte dell’imputato (Sez. 4, n. 43966 del 06/11/2009, Morelli, Rv. 245526).
Come è noto, infatti, la prevedibilità ed evitabilità del fatto svolgono un articolato ruolo fondante: sono all’origine delle norme cautelari e sono inoltre alla base del giudizio di rimprovero personale. In particolare, per quel che qui maggiormente interessa, l’art. 43 c.p. reca una formula ricca di significato: il delitto è colposo quando l’evento non è voluto e “si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia…”. Viene così chiaramente in luce, e con forza, il profilo causale della colpa, che si estrinseca in diverse direzioni.
Il pensiero giuridico italiano ha da sempre sottolineato che la responsabilità colposa non si estende a tutti gli eventi che comunque siano derivati dalla violazione della norma, ma è limitata ai risultati che la norma stessa mira a prevenire. Tale esigenza conferma l’importante ruolo della prevedibilità e prevenibilità nell’individuazione delle norme cautelari alla cui stregua va compiuto il giudizio ai fini della configurazione del profilo oggettivo della colpa. Si tratta di identificare una norma specifica, avente natura cautelare, posta a presidio della verificazione di un altrettanto specifico evento, sulla base delle conoscenze che all’epoca della creazione della regola consentivano di porre la relazione causale tra condotte e risultati temuti; e di identificare misure atte a scongiurare o attenuare il rischio. L’accadimento verificatosi deve cioè essere proprio tra quelli che la norma di condotta tendeva ad evitare, deve costituire “la concretizzazione del rischio”.
3.3. Quanto infine alla rilevanza della eventuali condotte negligenti riferibili al dipendente infortunato, occorre osservare che, in tema di cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’offesa, la giurisprudenza di legittimità ritiene che possano considerarsi tali quelle che diano luogo a una serie causale, sebbene non del tutto autonoma rispetto a quella riferibile all’agente, che si atteggi in termini di assoluta anomalia, eccezionalità e imprevedibilità (Sez. 4, sent. n. 13939 del 30/01/2008, Bauwens, Rv. 239593).
In particolare, è stato chiarito (Sez. 4, sent. n. 7267 del 10/11/2009, 2010, Iglina, Rv. 246695) che la condotta colposa del lavoratore infortunato non esclude la responsabilità dell’imprenditore, poiché il datore di lavoro è destinatario delle norme antinfortunistiche proprio per evitare che il dipendente compia scelte irrazionali che, se effettuate, possano pregiudicarne l’integrità psico-fisica: l’imprenditore è esonerato da responsabilità soltanto nel caso in cui il comportamento del dipendente sia eccezionale, imprevedibile, tale da non essere preventivamente immaginabile (e non anche nel caso in cui l’irrazionalità della condotta del dipendente sia controllabile, pensabile in anticipo, risolvendosi nel fare proprio il contrario di quello che si dovrebbe fare per non incorrere in infortuni).
Con particolare riferimento alla sicurezza sul luogo di lavoro, la giurisprudenza di legittimità ritiene che presenti efficacia interruttiva del rapporto causale esistente tra la condotta antidoverosa del datore di lavoro e l’offesa soltanto il comportamento abnorme del lavoratore che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all’applicazione delle misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro (Sez. 4, seni. N. n. 14440 del 05/03/2009, Ferraro, Rv. 243881).
In tale senso è abnorme soltanto la condotta del dipendente infortunato che esuli dai limiti delle attribuzioni proprie del segmento di lavoro ad esso attribuito, non insistendo nell’area di rischio della lavorazione svolta.
In ogni caso, quand’anche sussista una condotta colposa del lavoratore, questa non potrà comunque spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti destinatari di obblighi di sicurezza che abbiano violato prescrizioni in materia antinfortunistica (Sez. 4, sent. n. 12115 del 03/06/1999, Grande, Rv. 214999), in quanto le disposizioni prevenzionistiche hanno la funzione primaria di eliminare o almeno ridurre i rischi per l’incolumità fisica dei lavoratori intrinsecamente connaturati ai processi produttivi dell’attività di impresa, anche nelle ipotesi in cui siffatti rischi derivino da condotte colpose dei prestatori di lavoro.
4. Occorre a questo punto precisare il perimetro del sindacato, ammissibile nella presente sede di legittimità.
Orbene, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di legittimità “deve essere limitato soltanto a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l’adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali” (in tal senso, tra le tante, Sez. 3, sent. n. 4115 del 27.11.1995, 1996, Beyzaku, Rv. 203272).
Sotto altro profilo è stato precisato che la Corte di cassazione, nel momento del controllo di legittimità, non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, dovendo limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Sez. 5, sent. n. 1004 del 30/11/1999, 2000, Moro, Rv. 215745).
Si deve infine ribadire, per condivise ragioni, l’insegnamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, in base al quale nessuna prova, in realtà, ha un significato isolato, slegato dal contesto in cui è inserita; occorre necessariamente procedere ad una valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio disponibile; ed il significato delle prove lo deve stabilire il giudice del merito, non potendosi il giudice di legittimità sostituirsi ad esso (Sez. 5, Sent. n. 16959 del 12/04/2006, dep. 17/05/2006, Rv. 233464).
5. Precisato nei termini che precedono l’orizzonte dello scrutinio di legittimità, occorre rilevare che la congiunta lettura di entrambe le sentenze di merito – che, concordando nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, valgono a saldarsi in un unico complesso corpo argomentativo (cfr. Cass., Sez. 1, n. 8868/2000, Sangiorgi, Rv. 216906) – evidenzia che i giudici di merito hanno sviluppato un conferente percorso argomentativo, relativo all’apprezzamento del compendio probatorio, che risulta immune da censure rilevabili dalla Corte regolatrice.
5.1.Il Giudice dell’abbreviato – sulla base della relazione 20 settembre 2012 di indagine del personale dell’Unità Operativa Prevenzione e sicurezza Ambienti di lavoro, delle dichiarazioni rese dal lavoratore infortunato, della documentazione allegata alla suddetta relazione e tenuto conto delle dichiarazioni rese in sede di udienza dal responsabile dello stabilimento V.G. – ha in primo luogo ricostruito la dinamica del sinistro.
In data 30 maggio 2012, in Mezzocorona, presso l’impianto di frantumazione della S. srl, il lavoratore D’A.L. – che si trovava insieme a Z.E., dipendente addetto all’impianto di frantumazione – era impegnato nella regolazione del nastro n. 25 del settore IV, sul quale il giorno precedente erano stati effettuati lavori di manutenzione (in quello stesso giorno, mancando da qualche mese, perché usurata, una parte del grigliato presso la torre di lavaggio, erano stati posizionati al suo posto dei pannelli d’armo in legno, appoggiati su una struttura in ferro, per fungere da piano di calpestio per gli addetti alla squadra di manutenzione). Il 30 maggio Z.E. e D’A.L. procedevano alla tenditura del nastro e, dopo la rimozione di detti pannelli, ne constatavano un malfunzionamento, ragion per cui D’A.L. tornava sul piano della torre centrale, ormai del tutto disarmato, sul quale erano presenti diverse aperture dovute alla mancanza del grigliato. Nel corso delle operazioni il lavoratore precipitava, dall’altezza di circa 4 metri, attraverso una di tali aperture, riportando le lesioni gravi (guarite oltre il 40° giorno) di cui al capo di imputazione. I due dipendenti avevano operato in contrato con quanto previsto in proposito dal DPVR di S., secondo il quale la rimozione dei grigliati costituenti pavimentazione, oltre che autorizzata dal Responsabile competente (come non era stato), doveva essere presidiata da idonea segnalazione e segregazione a cura degli esecutori del lavoro stesso di rimozione, ed implicava la messa in atto di ogni accorgimento tecnico per evitare possibili cadute.
Il Tribunale ha rilevato che la causa fenomenica dell’Incidente era da identificarsi nel comportamento omissivo del datore di lavoro, in forza del quale, per effetto di colpa generica e per specifica violazione, da parte del garante, della normativa attinente alla sicurezza, il lavoratore si era trovato a dover operare in altezza su un piano di calpestio, precariamente allestito con tavole d’armo, nel quale si aprivano pericolose aperture, attraverso una delle quali il D’A.L., impegnato a testare il regolare pensionamento del nastro trasportatore (e dunque nel pieno espletamento delle sue mansioni), era rovinato al suolo, riportando le lesioni gravi refertate. Ha aggiunto che la condotta (per quanto incauta) del lavoratore infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento, laddove sia comunque riconducibile all’area di rischio propria della lavorazione svolta: nel caso concreto il lavoratore D’A.L. aveva patito l’infortunio mentre, insieme al responsabile dell’Impianto, ne stava curando il riavvio dopo un’operazione di manutenzione. La sua caduta era stata determinata dall’esistenza di ampi varchi dei tavolato irregolare adattato a piano di calpestio, e dunque non si identificava alcun profilo di un suo (pur invocato) comportamento abnorme idoneo ad interrompere il nesso causale tra la condotta omissiva dei garanti e l’evento, condotta omissiva certamente connotata da colpa, tenuto conto che le cautele omesse erano preordinate ad evitare il rischio specifico (precipitazione dall’alto) che poi concretamente si era materializzato nell’infortunio.
Secondo il Giudice di primo grado, l’odierno ricorrente M.P., nella specificata qualifica di datore di lavoro, oltre che Presidente del CCIA di S. e consigliere delegato, che non aveva conferito ad altri dirigenti o quadri intermedi alcuna valida delega in materia di sicurezza, era il primo destinatario della normativa antinfortunistica violata: il rischio non contenuto, ed anzi affrontato per vari mesi (quello della caduta dei lavoratori da un piano di calpestio di altezza superiore a 3 metri, non omogeneo, instabile, scivoloso e caratterizzato da ampie e non securizzate aperture), era tipicamente connesso all’evento dannoso; il nesso di causalità materiale era saldamente ancorato alla causalità giuridica (nel senso che l’attuazione delle cautele dovute avrebbe certamente evitato l’evento); l’invocata mancanza di informazioni specifiche non poteva giovare all’imputato, poiché il debito di sicurezza era per l’appunto primariamente legato alla qualifica rivestita di datore di lavoro (oltretutto, in assenza di valide deleghe eventualmente conferite a figure intermedie di garanzia).
5.2. D’altra parte, la Corte di appello di Trento, pur qualificando un passo descrittivo della sentenza di primo grado come “sintesi non felice” degli elementi di prova acquisiti (p. 12, rigo 8 dal basso), ha ritenuto che il primo giudice di merito aveva correttamente ricostruito la dinamica del sinistro (p. 13, rigo 7 dal basso).
Invero, secondo la Corte, dalle informazioni rese dallo stesso infortunato, dallo Z.E. e dagli accertamenti svolti dagli ispettori del lavoro intervenuti, era emerso che:
«qualche mese prima dell’evento per cui è processo, su iniziativa dello Z.E., debitamente comunicata al V.G. , nel mese di “febbraio/marzo”, erano state eliminate alcuna porzioni del grigliato costituente il piano di calpestio del settore “selezione, distribuzione, lavaggio”, in quanto “non garantiva più la portata perché usurato” (cfr sit di Z.E. del 31 maggio 2012).
«Il 29 maggio, dovendo essere sostituita una parte del nastro lo Z.E. aveva deciso di “posizionare dei pannelli d’armo” in modo da ricostituire il piano di calpestio nelle parti mancanti per consentire alla squadra che sarebbe intervenuta di operare in sicurezza.
«Eseguita la manutenzione, la mattina del giorno successivo lo Z.E., con la collaborazione del D’A.L., aveva “iniziato il lavoro di tenditura del nastro riparato il giorno prima”, terminato il quale entrambi avevano tolto i pannelli d’armo; “alle 8,51 circa il D’A.L. (aveva) nota(to) un malfunzionamento dei nastro, aveva chiesto (allo Z.E.) un martello ed (era) ritorna(to) sul piano della torre, ormai privo dei pannelli d’armo …precipitando a terra da un’altezza di circa 3,50 metri” (cfr Sit Z.E. già cit.).
«Le medesime circostanze del fatto emergono dalle dichiarazioni dell’infortunato il quale ha riferito che: la mattina dell’incidente, lo Z.E. gli aveva chiesto di aiutarlo “a risolvere un problema di regolazione di un nastro nella zona vagliogiunto presso l’impianto aveva notato “che sul pavimento della piattaforma di lavoro erano stati appoggiati dei pannelli d’armo, che venivano utilizzati da me e Z.E. come piano di calpestio per svolgere i lavori di manutenzione ultimato il lavoro, avevano tolto i pannelli, “quindi . . .proponev(a) allo Z.E. di provare l’impianto” e, mentre si trovava “sulla piattaforma di lavoro… (e) osservav(a) il buon funzionamento del nastro, calpestando il grigliato, (era) caduto attraverso una delle aperture presenti…” (cfr Sit D’A.L. del 20 giugno 2012)».
La Corte territoriale ha condiviso la motivazione fatta dal giudice di primo grado anche laddove lo stesso aveva ritenuto che la condotta del lavoratore infortunato non fosse tale da rappresentare, di per se stessa, causa sufficiente alla produzione dell’evento.
Al riguardo la Corte ha osservato che:
-le operazioni di regolazione del nastro trasportatore che, appena sostituito, doveva essere “teso”, comportavano la presenza dei lavoratori sulla torre: ultimata anche questa fase della manutenzione, erano stati eliminati i pannelli d’armo a cura degli stessi dipendenti che l’avevano eseguita ma, notato un malfunzionamento, uno dei due, il D’A.L., era risalito sulla torre per porvi rimedio; di fronte alla necessità di un intervento di “minuta” manutenzione, di scarso impegno e breve durata (il D’A.L. aveva chiesto soltanto un martello allo Z.E.), anziché riposizionare i pannelli d’anno appena tolti, il lavoratore ha assunto l’iniziativa, condivisa dal collega che non lo ha fermato, di salire sulla torre nonostante i vuoti nel piano di calpestio;
-l’aver mantenuto il piano di calpestio nelle condizioni descritte, con zone di vuoto che si presentavano “a scacchiera” e che venivano precariamente coperte a mezzo di tavolati amovibili, ha costituito causa dell’incidente;
-la prassi adottata (coprire gli spazi vuoti con le tavole d’armo ogni volta che bisognava dar corso ad operazioni di manutenzione che poi venivano eliminate), non garantiva alcuna sicurezza, non eliminando il rischio di accesso alla zona, evidentemente non impedito dalla ringhiera, anch’essa non fissa ma semplicemente assicurata con del fil di ferro, per minuti interventi, quali quello che il D’A.L. aveva posto in essere la mattina dell’infortunio;
-la condizione in cui il grigliato del piano di calpestio è stato mantenuto, per un lungo periodo di tempo, non rispondeva alle più elementari norme di sicurezza, per come risulta dallo stesso documento di valutazione del rischio che, al riguardo, prescrive, in caso di “rimozione di grigliati o di piani di calpestio che costituiscono pavimentazione, passerelle, ecc.” l’autorizzazione “del Responsabile competente”, e prevede -.”Condizione indispensabile alla rimozione è che la zona venga recintata e segnalata preventivamente a cura degli esecutori del lavoro e che vengano messi in atto tutti gii accorgimenti tecnici per evitare possibili cadute. Le aperture di fine giornata di lavoro vanno, se possibile, coperte con tavole o altro materiale resistente”;
-la copertura con tavole provvisorie era pensata non a tutela dei lavoratori, ma degli eventuali terzi che, anche abusivamente, si potevano introdurre nei luoghi di lavoro dopo la cessazione dell’attività, mentre la misura di sicurezza pensata era la segregazione della zona e la sua totale inaccessibilità prima degli opportuni ripristini; dunque era stato adottato da parte dei responsabili un comportamento altamente imprudente ed in violazione delle norme di legge in contestazione e delle stesse prescrizioni del piano di sicurezza.
In relazione alla posizione del M.P., la Corte ha ritenuto che:
– delle descritte, macroscopiche, violazioni deve rispondere il M.P., per la posizione di garanzia rivestita in qualità di datore di lavoro, che ha il dovere: di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici e del fatto che il lavoratore possa prestare la propria opera in condizioni di sicurezza; di vigilare sul fatto che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l’opera; di esigere dal lavoratore il rispetto delle regole di cautela. Tutti detti doveri, secondo la Corte, sono stati violati dal M.P., senza che possa essere invocata a sua discolpa la mancata conoscenza delle condizioni in cui versava il piano di calpestio e le procedure adottate per le riparazioni, ignoranza che, al contrario, costituisce un preciso profilo di addebito, dovendo egli assicurarsi non solo della predisposizione delle misure di sicurezza adeguate ma anche della loro effettiva adozione e, quindi, predisporre gli opportuni canali di comunicazione e prescrizioni idonei a garantirne l’osservanza;
-non è ravvisabile, nel caso in esame, un comportamento del lavoratore tale da poter far risalire allo stesso la causa dell’infortunio. Il lavoratore D’A.L., infatti, era stato impegnato, su richiesta del responsabile dell’impianto ed insieme a quest’ultimo, nella regolazione del nastro trasportatore appena sostituito; era poi risalito sulla torre, dopo la rimozione del piano di calpestio provvisorio, per un ulteriore intervento e, trattandosi all’evidenza di operazione semplice e di poco conto (atteso che aveva portato con sé soltanto un martello), non erano stati nuovamente posizionati i pannelli d’armo, attività che avrebbe comportato un impegno certamente maggiore della stessa minuta riparazione che stava per porre in essere. Il D’A.L., pur adottando un comportamento senz’altro imprudente, stava dunque eseguendo un intervento rientrante nell’ambito delle normali attività lavorative, e, come spesso accade, fidando sulla propria esperienza e conoscenza dei luoghi, aveva trascurato di adottare una procedura, certamente dispendiosa in termini di tempo e di energie (il ripiazzamento dei pannelli d’armo) soprattutto se paragonata al tipo di riparazione che doveva eseguire, che gli avrebbe consentito di lavorare in sicurezza. La sostituzione del grigliato, l’adozione delle procedure di sicurezza previste prima di tale intervento riparativo (effettiva inaccessibilità dell’impianto), avrebbero certamente evitato l’infortunio, non riconducibile a condotta anomala del lavoratore.
5.3. Orbene, entrambi i giudici di merito, nell’affermare la penale responsabilità dell’imputato M.P., si sono attenuti ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità e sopra richiamati: rispetto al M.P., il verificarsi dell’infortunio ha costituito l’indubbia concretizzazione del rischio, alla cui prevenzione era preordinata la normativa dallo stesso violata (art. 18 comma 3 bis e l’art. 71 comma 4 lettera a), numeri 1 e 2 del d. lgvo n. 81 del 2008).
Inoltre, la Corte di merito ha chiarito le ragioni per le quali ha ritenuto di confermare la valutazione espressa dal primo giudice, sviluppando un percorso argomentativo che non presenta aporie di ordine logico e che risulta perciò immune da censure rilevabili in questa sede di legittimità.
Il ricorrente denuncia il travisamento della prova, ma, così facendo, propone a questa Corte una rilettura degli elementi di prova (rilettura che, per come sopra precisato, è inammissibile nella presente sede di legittimità) e dimentica che il vizio del travisamento della prova (per l’utilizzazione di un’informazione inesistente nel materiale processuale o per l’omessa valutazione di una prova decisiva) non può essere dedotto nel caso di cosiddetta “doppia conforme” (v., ex plurimis, Cass., Sez. 4, n. 19710/2009, Rv. 243636; Cass., Sez. 2, n. 5223/2007, Rv. 236130), che per l’appunto ricorre nel caso di specie.
6. Non fondato è anche il secondo motivo di doglianza contenuto nel ricorso della società.
6.1. In relazione ai presupposti previsti dall’art. 5 d. lgs. n. 231/2001 per l’imputazione della responsabilità, che nel caso di specie concerne un reato colposo di evento, occorre precisare che la suddetta norma individua i criteri di imputazione oggettiva dell’ente nel fatto che i reati presupposti siano commessi nell’interesse o vantaggio, anche non esclusivo, dell’ente e da persone che rivestano funzioni di rappresentanza, amministrazione, direzione o gestione (anche di fatto) oppure da dipendenti sottoposti alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti prima indicati. L’ente non risponde se le persone predette abbiano agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi. Dunque, il citato art. 5 pone il problema della compatibilità tra fattispecie di reato caratterizzate dalla non volontarietà dell’evento (i delitti colposi di evento) e il finalismo della condotta da cui scaturisce la responsabilità dell’ente, nel cui interesse o vantaggio quei reati devono essere stati commessi. .
Le Sezioni Unite, con la recente sentenza n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, Rv 261112-261113-26114-26115 – dopo aver rilevato che l’introduzione della responsabilità dell’ente con la legge n. 231 ha costituito una grande innovazione nella sfera del diritto punitivo ed ha alimentato una letteratura ormai vastissima; e che non meno rilevante e significativo appare lo sforzo giurisprudenziale volto a concretizzare l’applicazione della nuova normativa – si è soffermata sulla natura del nuovo sistema sanzionatorio e sui profili di legittimità costituzionale dello stesso per poi affermare:
-quanto al criterio di imputazione oggettiva (punto 63), che: «L’art. 5 del d.lgs. n. 231 del 2001 detta la regola d’imputazione oggettiva dei reati all’ente: si richiede che essi siano commessi nel suo interesse o vantaggio. (…) Secondo l’impostazione prevalente, ispirata anche dalla Relazione governativa al decreto legislativo, i due criteri d’imputazione dell’interesse e del vantaggio si pongono in rapporto di alternatività, come confermato dalla congiunzione disgiuntiva “o” presente nel testo della disposizione. Si ritiene che il criterio dell’interesse esprima una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, al momento della commissione del fatto, e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; e che il criterio del vantaggio abbia una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito. (…) La tesi dualistica trova accoglimento anche in giurisprudenza (Sez. 2, n. 3615 del 20/12/2005, D’Azzo, Rv. 232957: Sez. 5, n. 10265 del 28/11/2013, dep. 2014, Banca Italease s.p.a., Rv. 258577; Sez. 6, n. 24559 del 22/05/2013, House Building s.p.a., Rv. 255442)»;
-quanto al fatto che l’art. 25-septies ha segnato l’ingresso dei delitti colposi nel catalogo dei reati costituenti presupposto della responsabilità degli enti, senza tuttavia modificare il criterio d’imputazione oggettiva, per adattarlo alla diversa struttura di tale categoria di illeciti, che è «insorto il problema della compatibilità logica tra la non volontà dell’evento che caratterizza gli illeciti colposi ed il finalismo che è sotteso all’idea di interesse. D’altra parte, nei reati colposi di evento sembra ben difficilmente ipotizzabile un caso in cui l’evento lesivo corrisponda ad un interesse o vantaggio dell’ente. Tale singolare situazione ha indotto qualcuno a ritenere che, in mancanza di un esplicito adeguamento normativo, la nuova, estensiva disciplina sia inapplicabile. (…) Tali dubbi e le estreme conseguenze che se ne desumono sono infondati. Essi condurrebbero alla radicale caducazione di un’innovazione normativa di grande rilievo, successivamente confermata dal dlgs. 7 luglio 2011, n. 121, col quale è stato introdotto nella disciplina legale l’art. 25-undecies che ha esteso la responsabilità dell’ente a diversi reati ambientali. Il problema prospettato deve essere allora risolto nella sede propria, che è quella interpretativa. I risultati assurdi, incompatibili con la volontà di un legislatore razionale, cui condurrebbe l’interpretazione letterale della norma accredita senza difficoltà l’unica alternativa, possibile lettura: i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d’evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico. Tale soluzione non determina alcuna difficoltà di carattere logico: è ben possibile che una condotta caratterizzata dalla violazione della disciplina cautelare e quindi colposa sia posta in essere nell’interesse dell’ente o determini comunque il conseguimento di un vantaggio. (…) L’adeguamento riguarda solo l’oggetto della valutazione che, coglie non più l’evento bensì solo la condotta, in conformità alla diversa conformazione dell’illecito; e senza, quindi, alcun vulnus ai principi costituzionali dell’ordinamento penale. Tale soluzione non presenta incongruenze: è ben possibile che l’agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l’evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell’ente. A maggior ragione vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per l’ente».
Successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite, questa Sezione (cfr. sent. n. 31003 del 23/06/2015, Cioffi e Italnastri spa) ha riaffermato il principio in detta sentenza affermato (secondo il quale, in materia di responsabilità amministrativa D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 25-septies, l’interesse e/o il vantaggio vanno letti, nella prospettiva patrimoniale dell’ente, come risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dello strumentario di sicurezza ovvero come incremento economico conseguente all’aumento della produttività non ostacolata dal pedissequo rispetto della normativa prevenzionale), precisando che nei reati colposi l’interesse/vantaggio si ricollegano al risparmio nelle spese che l’ente dovrebbe sostenere per l’adozione delle misure precauzionali ovvero nell’agevolazione sub specie, dell’aumento di produttività che ne può derivare sempre per l’ente dallo sveltimento dell’attività lavorativa “favorita” dalla mancata osservanza della normativa cautelare, il cui rispetto, invece, tale attività avrebbe “rallentato” quantomeno nei tempi.
Sviluppando questo ordine di considerazioni, occorre qui ribadire che i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d’evento, vanno riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico. E’ questa l’unica interpretazione che non svuota di contenuto la previsione normativa e che risponde alla ratio dell’inserimento dei delitti di omicidio colposo e lesioni colpose nell’elenco dei reati fondanti la responsabilità dell’ente, in ottemperanza ai principi contenuti nella legge delega: indubbiamente, non rispondono all’interesse della società, o non procurano alla stessa un vantaggio, la morte o le lesioni riportate da un suo dipendente in conseguenza di violazioni di normative antinfortunistiche, mentre è indubbio che un vantaggio per l’ente possa essere ravvisato, ad esempio, nel risparmio di costi o di tempo che lo stesso avrebbe dovuto sostenere per adeguarsi alla normativa prevenzionistica, la cui violazione ha determinato l’infortunio sul lavoro.
I termini “interesse” e “vantaggio” esprimono concetti giuridicamente diversi e possono essere alternativi: ciò emerge dall’uso della congiunzione “o” da parte del legislatore nella formulazione della norma in questione e, da un punto di vista sistematico, dalla norma di cui all’art. 12, che al comma 1 lett. a) prevede una riduzione della sanzione pecuniaria nel caso in cui l’autore ha commesso il reato nell’interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo, il che implica astrattamente che il reato può essere commesso nell’interesse dell’ente, ma non procurargli in concreto alcun vantaggio. Ne consegue che (sul punto cfr. Sez. 2, sent. n. 3615 del 20/12/2005, dep. 2006, Rv. 232957) il concetto di “interesse” attiene ad una valutazione antecedente alla commissione del reato presupposto, mentre il concetto di “vantaggio” implica l’effettivo conseguimento dello stesso a seguito della consumazione del reato (e, dunque, una valutazione ex post).
Nei reati colposi d’evento, il finalismo della condotta prevista dall’art. 5 d. lgvo n. 231/2001 è compatibile con la non volontarietà dell’evento lesivo, sempre che si accerti che la condotta che ha cagionato quest’ultimo sia stata determinata da scelte rispondenti all’interesse dell’ente o sia stata finalizzata all’ottenimento di un vantaggio per l’ente medesimo. Ricorre il requisito dell’interesse quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di conseguire un’utilità per la persona giuridica; ciò accade, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito (non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma) di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa: pur non volendo il verificarsi dell’infortunio a danno del lavoratore, l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell’ente (ad esempio far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione). Ricorre il requisito del vantaggio quando la persona fisica, agendo per conto dell’ente, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, ha realizzato una politica d’impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto; il criterio del vantaggio, così inteso, appare indubbiamente quello più idoneo a fungere da collegamento tra l’ente e l’illecito commesso dai suoi organi apicali ovvero dai dipendenti sottoposti alla direzione o vigilanza dei primi.
Occorre, perciò, accertare in concreto le modalità del fatto e verificare se la violazione della normativa in materia di sicurezza o igiene del lavoro, che ha determinato l’infortunio, rispondesse ex ante ad un interesse della società o abbia consentito alla stessa di conseguire un vantaggio.
Tale accertamento, nel caso di specie, risulta essere stato compiuto dai giudici di entrambi i gradi di merito.
6.2. Il Tribunale – in relazione alla contestazione elevata nei confronti della società ex articolo 25 septies del D.Lgs. n. 231/2001 sulla base dell’assunto che la condotta del M.P. avrebbe configurato l’interesse o il vantaggio richiesto dall’articolo 5 del D. Lgs. n. 231/2001 – si è posto il problema di verificare il vantaggio economico indiretto, costituito dal risparmio dei costi non sostenuti, che la società ha tratto dalla mancata adozione delle misure di sicurezza richieste dalla legge per la prevenzione di infortuni sul lavoro (consulenza per la stesura di un efficace documento valutazione dei rischi; messa in sicurezza del luogo di lavoro e dotazione ai lavoratori di indumenti idonei al sicuro svolgimento delle proprie mansioni; formazione professionale degli stessi ecc.).
Al riguardo, il giudice di merito di primo grado ha richiamato la relazione tecnica, depositata dalla difesa, dalla quale risultava che l’adozione dell’una o dell’altra soluzione (collocazione di pannelli in legno piuttosto che di un grigliato metallico) avrebbe comportato dei costi non molto dissimili l’uno dall’altro (€ 51,5 per i pannelli; € 70,35 per il grigliato), con uniformità dei costi di trasporto e pesa rispetto a quelli di saldatura; e nella quale si assumeva collocazione del grigliato avrebbe garantito una durata dell’installazione molto maggiore di quella dei tavolati d’armo, meno resistenti alle intemperie e da sostituirsi, a differenza del primo, nel breve volgere di 2 o 3 anni.
Il Tribunale, tuttavia, ha disatteso tale relazione: sia perché, come dato atto dall’estensore Ing. S., evidentemente le tavole, a differenza del grigliato, erano già nella disponibilità della società, e quindi avrebbero potuto essere collocate, oltre che “gratis”, praticamente in tempo reale, e dunque senza la necessità di limitare, durante la messa in opera e la saldatura, l’operatività del settore interessato; sia perché la responsabilità dell’Ente non può essere esclusa per, la sola esiguità del vantaggio o per la scarsa consistenza dell’interesse perseguito, in un contesto generale in cui, sovente, limitate imprudenze o negligenze possono risolversi in immani catastrofi.
6.3. D’altra parte, la Corte territoriale – nell’esaminare l’appello della società laddove la stessa aveva dedotto l’insussistenza di qualunque “vantaggio o interesse” previsti dall’art. 5 del D.lvo n.231/2001 – dopo aver fatto propria l’osservazione ermeneutica del giudice di primo grado (secondo il quale, interpretando alla lettera la legge, in nessun caso dalla morte o dal ferimento di un dipendente potrebbe derivare un vantaggio all’ente né simili eventi potrebbero soddisfare “interessi” dello stesso e, pertanto, la norma non troverebbe pratica applicazione) e dopo aver rappresentato la necessità di un’interpretazione che, da un lato, consenta la vigenza della norma, e, dall’altro, ne impedisca un’applicazione “automatica” che ne dilati la sfera di operatività – ha ricordato il principio (affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza sopra citata), secondo il quale il riconoscimento di responsabilità va ancorato alla effettiva ricorrenza di un vantaggio o di un interesse dell’ente collegati alla condotta dell’amministratore che abbia dato causa all’evento dannoso, di modo che possa essere configurato “un sistema di responsabilità colpevole basato sulla colpa d’organizzazione della persona giuridica”.
Quindi, la Corte territoriale, ribadendo e sviluppando le considerazioni svolte dal Giudice dell’abbreviato, ha rilevato che nel caso di specie le previsioni della società in tema di sicurezza erano “oltre modo lacunose”, soprattutto con riferimento alle misure adottate per il controllo della applicazione delle prescrizioni previste dai piani di sicurezza, tanto da considerare “normale” che il datore di lavoro, responsabile in materia (non avendo rilasciato alcuna delega), non fosse informato di una circostanza così rilevante come la mancanza per lungo tempo (e non come fatto estemporaneo) del piano di calpestio, di una delle torri dell’impianto di frantumazione e delle concrete procedure adottate per far fronte alla situazione. Tale mancanza, l’insensibilità verso la tematica della sicurezza dimostrate dai diversi responsabili individuati (lo Z.E., responsabile dell’impianto, il V.G., responsabile dello stabilimento ed informato dei fatti), le preoccupanti falle nei sistemi che avrebbero dovuto garantire la sicurezza del luogo del lavoro, rendevano evidente l’atteggiamento di noncuranza dei vertici societari verso la tematica. L’uso dei pannelli d’armo era soluzione assolutamente inadeguata e contraria alle stesse prescrizioni che l’azienda si era data per ovviare al macroscopico rischio di caduta dei lavoratori dall’alto, ed era stata adottata perché offriva una soluzione di immediata praticabilità, ed economica, ai problemi di utilizzo dell’impianto anche in caso di necessità di riparazione: essa, infatti, evitava di programmare il fermo dell’impianto, e si avvaleva di mezzi (i pannelli) che non dovevano essere procurati, in quanto già a disposizione dell’azienda (come la Corte indica essere stato riferito dallo stesso D’A.L. il quale aveva dichiarato che le aperture nel grigliato erano presenti da “qualche mese prima” dell’Infortunio, e che i pannelli erano “utilizzati da lui e dallo Z.E. come piano di calpestio per svolgere i lavori di manutenzione”).
In definitiva, secondo la Corte territoriale, che anche sul punto ha sostanzialmente ribadito il ritenuto del giudice di primo grado, le scelte nell’organizzazione del lavoro concretamente adottate dalla società erano finalizzate a privilegiare le esigenze della produzione e del profitto (a scapito della sicurezza dei lavoratori, obiettivo non adeguatamente tutelato). Nel caso in esame ciò aveva comportato la prosecuzione dell’attività nonostante la situazione di rischio derivante dagli ampi varchi nel piano di calpestio, e la messa in atto, a costo zero, di procedure adottate in netto contrasto con le disposizioni in tema di sicurezza. In tale condotta andava ravvisata la ricorrenza di un vantaggio economico indiretto, derivante dai risparmio conseguente alla posposizione delle esigenze della sicurezza del lavoro a quelle della produzione.
6.4. Nella sopra percorsa prospettiva motivazionale, la ritenuta affermazione di responsabilità dell’ente regge al vaglio di legittimità, demandato a questa Corte: l’omissione originaria si ricollega ad un risparmio di spesa che, satisfattivamente fonda l’ipotesi dell’interesse/vantaggio di cui all’articolo 5, secondo i principi sopra richiamati.
Quanto poi al profilo dell’imputazione soggettiva, occorre ribadire che l’imputato rivestiva al momento del fatto all’interno della società un ruolo del tutto apicale, rientrante tra quelli previsti dall’art. 5 comma 1 lett. a) d. lgvo n. 231/2001.
Nel caso di specie, dunque, a norma dell’art. 6, l’ente, per andare esente da responsabilità, avrebbe dovuto provare che: a) erano stati adottati ed efficacemente attuati, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento era stato affidato ad un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo; c) non vi era stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di cui alla lettera b. In altri termini, la responsabilità dell’ente per i reati di omicidio colposo o lesioni colpose commesse da suoi organi apicali con violazione della normativa in materia di sicurezza o igiene del lavoro potrà essere esclusa soltanto dimostrando l’adozione ed efficace attuazione di modelli organizzativi (per i quali soccorre il disposto dell’art. 30 del d. lgs. n. 81/2008) e l’attribuzione ad un organismo autonomo del potere di vigilanza sul funzionamento, l’aggiornamento e l’osservanza dei modelli adottati.
Senonché nel caso di specie non risulta che l’ente abbia provato la sussistenza delle circostanze che avrebbero potuto escluderne la responsabilità ai sensi dell’art. 6 d. lgs. n. 231/2001.
7. Infondati sono anche il quarto motivo di ricorso del M.P. ed il terzo motivo di ricorso dell’interesse della società S., che qui si trattano congiuntamente, in quanto entrambi relativi al trattamento sanzionatorio.
Come noto, in tema di valutazione dei vari elementi per la concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al giudizio di comparazione e per quanto riguarda la dosimetria della pena ed i limiti del sindacato di legittimità su detti punti, la giurisprudenza di questa Suprema Corte non solo ammette la c.d. motivazione implicita (Sez. 6, 4/7/2003 n. 36382, Dell’Anna ed altri, n. 227142) o con formule sintetiche (tipo “si ritiene congrua”: Sez. 6, sent. N. 9120 del 2/7/1998, Urrata, Rv. 211583), ma afferma anche che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico (Sez. 3, sent. n. 26908 del 22/4/2004, Ronzoni, Rv. 229298).
Detta evenienza che non ricorre nel caso di specie sia per quanto riguarda il datore di lavoro M.P. che per quanto riguarda la società S..
Invero, quanto al primo, la Corte territoriale – nel respinge l’appello del anche laddove era stato sostenuto che, in considerazione del “modesto disvalore della condotta colposa, ove ritenuta sussistente” e dell’avvenuto risarcimento del danno, avrebbero dovuto essere concesse le attenuanti generiche – ha rilevato che la condotta del M.P., come descritta in sentenza, non poteva considerarsi affatto di “modesto” significato, tenuto conto della permanenza, per mesi, di una condizione di conclamato rischio per i lavoratori e per le gravissime carenze organizzative segnalate in tema di garanzie della effettiva applicazione delle misure di sicurezza. Ha aggiunto, quanto all’asserito risarcimento del danno, che non poteva essere riconosciuta l’invocata attenuante, in quanto non era stata prodotta la quietanza relativa e, pertanto, non era dato sapere se questo fosse avvenuto in tempi antecedenti alla celebrazione del dibattimento di primo grado.
Quanto poi alla società S., la Corte territoriale, ribadito che non risultava intervenuto il risarcimento dei danni causati dalla condotta in contestazione, ha ritenuto di non ravvisare ragioni per ridurre l’entità della sanzione alla luce dei criteri individuati dagli artt. 11 e 12del D.lvo n.231/2001, non potendo essere considerato di scarsa rilevanza il “vantaggio” conseguito nel condurre l’attività trascurando le esigenze della sicurezza a favore di quelle della produttività, con le economie che ne erano conseguite anche in termini dei ritmi di lavoro con i riflessi positivi sulla produzione.
8. Per le ragioni che precedono, i ricorsi vanno rigettati ed i ricorrenti vanno condannati al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Lascia un commento