Interventi manutentivi in quota e caduta dalla scala. Non assume valore equipollente alla valutazione dello specifico rischio contenuta nel POS l’esistenza di una semplice prassi operativa.
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: D’ISA CLAUDIO
Data Udienza: 05/05/2015
Fatto
V.M.P. ricorre per cassazione avverso la sentenza, indicata in epigrafe, della Corte d’appello di Milano, che, in parziale riforma della sentenza di condanna emessa dal locale Tribunale nei suoi confronti il 16.07.2012 in ordine al delitto di lesioni colpose aggravate dalla violazione delle leggi antinfortunistiche, ha convertito la pena detentiva della reclusione nella corrispondente pena pecuniaria, revocando la sospensione condizionale della pena.
In particolare, la colpa specifica addebitata alla ricorrente, nella sua qualità di legale rappresentante dell’impresa “Zincature V.M.P. srl” e, quindi, di datrice di lavoro, è la violazione di cui agli artt. 17 co. 1 e 28 co 2 d.lvo 81/2008, in quanto, omettendo l’adozione di misure per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, anche di carattere strettamente valutativo dei rischi a cui sono esposti i lavoratori, contribuiva a cagionare al dipendente C.C.A. lesioni personali (consistite in trauma toracico e contusione gomito destro) a causa dell’infortunio al medesimo occorso all’interno della sede produttiva aziendale; costui, il giorno 3.03.2009, mentre era intento alle operazioni di manutenzione del condotto di aspirazione dell’impianto di decapaggio, collocato sulla sommità del capannone aziendale, perdeva l’equilibrio e rovinava sul coperchio della vasca cadendo dalla scala appoggiata sul predetto coperchio.
Il Tribunale, sulla base delle risultanze dell’istruttoria dibattimentale, riteneva affermarsi la penale responsabilità della V.M.P. ed al tal fine, preliminarmente, evidenziava che la delega in materia di sicurezza dalla medesima rilasciata a favore di A.R. aveva data posteriore a quella dell’infortunio”; in particolare, come emergeva dai documenti prodotti dal P.M., la delega, pur avente la data (non certa) del 7 gennaio 2009, venne depositata al registro delle imprese solo in data 23 marzo 2009 (e quindi in epoca posteriore all’infortunio); si osservava che era assolutamente pacifico che C.C.A. avesse raggiunto l’altezza di quattro- cinque metri salendo su una scala semplice (neppure a V rovesciata) appoggiata su superficie oleosa; altrettanto pacifica doveva considerarsi la circostanza che l’azienda Zincatura V.M.P. disponesse di un “ponte sviluppabile” o “trabattello telescopico”; la circostanza documentata dalla difesa, con produzione in data 18.4.2012, risultava riferita dalla stessa persona offesa: C.C.A. aveva infatti dichiarato di avere utilizzato occasionalmente un trabattello per ” eseguire lavori di imbiancatura”; alla persona offesa, esaminata in data 8 febbraio 2012, non erano state esibite le fotografie del trabattello in quanto prodotte dalla difesa solo in data 18 aprile 2012.
La Corte d’appello adita dall’imputata, nel fare proprio l’impianto motivazionale della sentenza di primo grado ha ritenuto infondati i motivi posti a base del gravame di merito circa la responsabilità colposa come ascritta.
La ricorrente ha rappresentato i seguenti motivi:
Primo motivo: mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p., risultante dal testo del provvedimento impugnato, oltre che dagli atti emersi nel corso del procedimento, in relazione all’insussistenza di una prassi aziendale relativa alle corrette modalità di attuazione degli interventi manutentivi in quota ed in relazione all’interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dai signori M. Ai., R.A., R.L. e dalla persona offesa.
Secondo quanto affermato dalla Corte d’Appello nell’impugnata sentenza, all’interno della Zincatura V.M.P. non esistevano disposizioni specifiche, conosciute da tutti i lavoratori, che avessero ad oggetto le corrette modalità di esecuzione dei lavori di manutenzione in quota.
I Giudici di secondo grado hanno affermato che il C.C.A. avrebbe ricevuto un preciso ordine da parte di uno dei suoi superiori al fine di effettuare la manutenzione del condotto di aspirazione fumi, senza interrompere la produzione, mediante l’utilizzo di una semplice scala poggiata, peraltro, su una superficie oleosa.
La Corte d’Appello ha fondato la propria convinzione dell’assenza di qualsivoglia prassi in ordine alle corrette modalità operative da adottarsi nel caso di specie, sulla base, da una parte, di un erroneo e del tutto immotivato giudizio circa l’attendibilità dei testi M.Ai. (Direttore di Stabilimento), R.A. (Responsabile del Servizio di prevenzione e Protenzione) e R.L. (responsabile di produzione), e dall’altra, su di una interpretazione parziale delle dichiarazioni rese dalla persona offesa.
Si evidenzia che le predette persone hanno tutte affermato in modo inequivocabile l’esistenza di disposizioni specifiche aziendali aventi ad oggetto l’effettuazione di operazioni di manutenzioni in quota. Gli addetti alla manutenzione, tra cui il C.C.A., al fine di effettuare interventi sul condotto di aspirazione fumi avrebbero dovuto coordinarsi con il direttore di stabilimento (M.Ai.) ed il responsabile della sicurezza (R.A.) al fine di far valutare l’urgenza dell’intervento e la necessità di sospendere la produzione o di rinviare l’intervento il giorno successivo; una volta ricevuto l’ordine di procedere, avrebbero dovuto trasportare il trabattello telescopico nel capannone ove si trova il condotto di aspirazione, imbracarsi con le cinture di sicurezza e, quindi, salire sul trabattello ed, una volta raggiunto il carroponte, assicurare le misure di sicurezza al parapetto e sdraiarsi per procedere alla riparazione. Quanto alla specifica conoscenza da parte del C.C.A. della indicata prassi, l’M.Ai. ha chiaramente riferito in dibattimento in senso positivo, ed ha escluso categoricamente che il C.C.A. avesse ricevuto un ordine di operare in quota mediante una semplice scala a produzione attiva.
Quanto alla testimonianza del C.C.A., circa il mancato uso del trabattello, ha riferito di aver deciso di non utilizzarlo in ragione della tempistica e dell’entità del lavoro da fare di poco conto. Ha altresì precisato che il sabato precedente in riferimento ad un lavoro da effettuare in quota aveva utilizzato il trabattello. Dunque, non solo i testi hanno confermato la sussistenza di una prassi specifica per le lavorazioni in oggetto, ma è stata la stessa p.o. a ribadirlo affermando di non averla seguita per una sua autonoma decisione.
Si censura la motivazione della sentenza impugnata laddove si evidenzia l’inattendibilità dei testi indicati. In particolare, si è sostenuto che essa deriva dal fatto che trattasi di “soggetti potenzialmente coinvolti nella vicenda” in ragione dei ruoli dagli stessi ricoperti all’interno dell’azienda. Ma siffatto ragionamento si traduce in una irragionevole quanto illegittima presunzione di inattendibilità non essendo stato indicato alcun concreto elemento o specifica situazione di fatto che possa legittimare il sospetto circa la falsità di quanto dagli stessi dichiarato, né peraltro in sentenza sono state indicate con precisione le circostanze in ordine alle quali tali testimonianze dovrebbero essere in contrasto con la deposizione della persona offesa, la quale, invece, come già evidenziato, ha confermato l’esistenza della prassi aziendale descritta e non ha mai affermato di aver ricevuto l’ordine da parte dei propri superiori di procedere alla riparazione mediante una scala a produzione attiva.
Per altro, la Corte del merito, prima, ha affermato l’attendibilità del C.C.A., per poi ritenere irrilevante il fatto che il medesimo non abbia mai riferito di aver ricevuto una specifica richiesta di intervenire sul condotto di aspirazione fumi con modalità pericolose e comunque non corrette.
Secondo motivo: vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sostanziale conformità della condotta della persona offesa rispetto alle disposizioni aziendali. La Corte d’appello ha affermato che le modalità poste in essere dal C.C.A. per il riparare il condotto di aspirazione fossero “autorizzate sostanzialmente dal POS aziendale per tali caratteristiche di lavori in quota”. Si censura l’affermazione perché non si comprende da quale elemento processuale sia stata tratta tale apodittica convinzione. Invero, dalla lettura delle disposizioni del POS relativamente a lavori da svolgersi in quota emerge che il lavoratore non le ha osservate ed ha deciso di agire in loro violazione.
Terzo motivo: erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 40 . cod. pen., vizio di motivazione stante il comportamento abnorme ed imprevedibile della persona offesa, non tenuto in conto dalla Corte d’appello con mancata applicazione dei principi giurisprudenziali in materia affermati dalla Corte di legittimità.
Si espone che la Corte di merito ha a lungo indugiato sul fatto che “data ¡’inesistenza di una previa valutazione dello specifico rischio connesso allo svolgimento delle operazioni di manutenzione, non assume valore equipollente l’esistenza di una semplice prassi operativa”, dilungandosi sul valore della prassi e sull’impossibilità che le istruzioni verbali, divenute prassi operative, possano essere considerate equipollenti a disposizioni codificate, “lasciando sempre negli addetti alle lavorazioni pur sempre, nella loro rappresentazione soggettiva, quei margini di discrezionalità nell’esecuzione di esse (…), riconnessi alle caratteristiche non e prive di alcuna <solennità» di=”” tali=”” diverse=”” forme=”” attuazione=”” delle=”” norme=”” antinfortunistiche”.<br=””>Ebbene, tale excursus da parte della Corte d’Appello pare del tutto inconferente e privo di reale pregio: la sussistenza di una prassi costituisce la dimostrazione dell’insussistenza del nesso causale tra la violazione di natura formale contestata alla signora V.M.P. e l’evento verificatosi.
Ed, invero, il fatto che in azienda vi fossero specifiche disposizioni (per quanto non codificate nel DVR) relative ai lavori di manutenzione in quota, e che il signor C.C.A. sapesse perfettamente che la condotta posta in essere violava tale prassi aziendale, consente di escludere la sussistenza del nesso causale tra la violazione di natura formale addebitata all’imputata e l’infortunio. A fronte di una condotta deliberatemente posta in essere in violazione di una prassi aziendale. Non si vede come l’ulteriore previsione di disposizioni specifiche in un documento quale il DVR avrebbe potuto indurre il C.C.A. ad adottare le corrette modalità di esecuzione.
Diritto
I motivi esposti sono infondati e determinano il rigetto del ricorso.
I giudici del merito hanno ben posto in evidenza che costituiva dato certo che l’imputata, nella sua qualità di datrice di lavoro ed in violazione della disposizione di cui agli artt.17 e segg. D.lvo n.81/2008, non aveva redatto all’epoca dell’infortunio un piano operativo di sicurezza adeguato: si sottolineava che il POS dell’azienda Zincatura V.M.P. nulla prevedeva in relazione alle procedure da seguire nello svolgimento di operazioni del tipo di quelle che la persona offesa era in procinto di svolgere il giorno dell’infortunio; anzi, come emergeva dal documento n. 6 prodotto dal P.M., le norme di sicurezza dell’azienda, in vigore sino alla data dell’infortunio occorso a C.C.A., prevedevano esclusivamente per lo svolgimento di lavori “in luoghi sopraelevati”, l’utilizzo di “scale appropriate” (per altro, come rilevato dalla Corte del merito, nel richiamato documento non si menzionava neppure l’esistenza di trabattelli né tradizionali, né telescopici).
Pertanto, in sintesi e sostanzialmente, a fronte di dati probatori che fanno emergere, in maniera inconfutabile, l’assenza di qualsiasi misura di sicurezza adottata nello svolgimento dell’attività lavorativa cui era intenta la persona offesa, che ha determinato la caduta della stessa e le conseguenti lesioni personali, si sostiene in ricorso (si precisa che i tre motivi, sebbene diversamente modulati, riguardano la medesima censura), pur non essendo delineate dal POS specifiche misure di sicurezza per l’esecuzione di tali lavori, l’esistenza di concrete disposizioni aziendali (prassi) aventi ad oggetto l’effettuazione di operazioni di manutenzione in quota, apertamente violate dal prestatore di lavoro.
Ciò premesso si vuole addurre il comportamento anomalo ed abnorme del prestatore di lavoro rispetto alle dette regole di sicurezza vigenti nell’azienda, sia pure determinate da prassi, che escluderebbe, in tal modo la responsabilità a titolo di colpa del datore di lavoro, avendo il C.C.A. deciso di procedere alla riparazione del condotto di aspirazione mediante l’utilizzo inappropriato di una scala, attrezzo il cui uso per tali operazioni era escluso dalla richiamata prassi aziendale.
Il Collegio concorda con la Corte del merito nel ritenere l’assunto infondato.
E’ pur vero che il sistema della normativa antinfortunistica, si è lentamente trasformato da un modello “iperprotettivo”, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro che, in quanto soggetto garante era investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori facessero un corretto uso, anche imponendosi contro la loro volontà), ad un modello “collaborativo” in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori, normativamente affermato dal Testo Unico della sicurezza: D.Lgs 9.04.2008 n. 81, ma ciò non ha escluso, per la giurisprudenza di questa Corte, che permane la responsabilità del datore di lavoro, laddove la carenza dei dispositivi di sicurezza, o anche la mancata adozione degli stessi da parte del lavoratore, non può certo essere sostituita dall’affidamento sul comportamento prudente e diligente di quest’ultimo.
In giurisprudenza, dal principio “dell’ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore” (che si rifà spesso all’art. 2087 c.c.), si è giunti – a seguito dell’introduzione del D. Lgs 626/94 e, poi del T.U. 81/2008 – al ricorso del concetto di “area di rischio” (Sez. 4, Sentenza n. 36257 del 01/07/2014 Ud. Rv. 260294; Sez. 4, Sentenza n. 43168 del 17/06/2014 Ud. Rv. 260947; Sez. 4, Sentenza n.21587 del 23/03/2007 Ud. Rv. 236721) che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva. Strettamente connessa all’area di rischio che l’imprenditore è tenuto a dichiarare (c.d. DVR), si sono individuati i criteri che consentissero di stabilire se la condotta del lavoratore dovesse risultare appartenente o estranea al processo produttivo o alle mansioni di sua specifica competenza. Si è dunque affermato il concetto di comportamento “esorbitante”, diverso da quello ‘abnorme” del lavoratore.
Il primo riguarda quelle condotte che fuoriescono dall’ambito delle mansioni, ordini, disposizioni impartiti dal datore di lavoro o di chi ne fa le veci, nell’ambito del contesto lavorativo, il secondo, quello, abnorme, già costantemente delineato dalla giurisprudenza di questa Corte, si riferisce a quelle condotte poste in essere in maniera imprevedibile dal prestatore di lavoro al di fuori del contesto lavorativo, cioè, che nulla hanno a che vedere con l’attività svolta.
La recente normativa (T.U. 2008/81) impone anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e comunque di agire con diligenza, prudenza e perizia.
Le tendenze giurisprudenziali si dirigono ancll’esse verso una maggiore considerazione della responsabilità dei lavoratori (c.d. “principio di autoresponsabilità del lavoratore).
In buona sostanza, si abbandona il criterio esterno delle mansioni e si sostituisce con il parametro della prevedibilità intesa come dominabilità umana del fattore causale.
Il datore di lavoro non ha più, dunque, un obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore, come in passato, ma una volta che ha fornito tutti i mezzi idonei alla prevenzione ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, egli non risponderà dell’evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore.
Questi principi non si attagliano al caso di specie, essendo rimasto provate non solo la mancanza di valutazione (nel POS) del rischio derivante dallo svolgimento in quota di determinati lavori di manutenzione, ma anche l’omessa concreta dotazione al lavoratore, nel frangente dell’infortunio, degli strumenti idonei ad effettuare tali tipi di lavoro (trabattello).
Si è fatto riferimento alla prassi aziendale, quale normativa non scritta integrante le linee generali del POS, adottata per lo svolgimento dei lavori in quota, ma sta di fatto, pur volendo ammettere la vigenza della stessa, che nessun controllo è stato effettuato dal datore di lavoro o da suoi delegati all’osservanza della stessa da parte del prestatore di lavoro.
Correttamente, pertanto, la Corte milanese ha fatto riferimento alla giurisprudenza di legittimità, che con tranquillante uniformità, ha affermato che l’obbligo di prevenzione si estende agli incidenti che derivino da negligenza, imprudenza e imperizia dell’infortunato, essendo esclusa, la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell’obbligo, solo in presenza di comportamenti che presentino i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo, alle direttive organizzative ricevute e alla comune prudenza. Ed è significativo che in ogni caso, nell’ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall’assenza o dall’inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale venga attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento (confr. Cass. pen. n. 31303 del 2004 cit.).
Va, comunque, sul punto della invocata “prassi aziendale” richiamato il principio giurisprudenziale già espresso, in maniera uniforme da questa Quarta Sezione della Corte, secondo cui non assume valore equipollente alla valutazione dello specifico rischio contenuta nel POS l’esistenza di una semplice prassi operativa; la valutazione del rischio è operazione complessa che consiste nell’analisi dei dati e nella loro valutazione in funzione di una concomitante definizione delle misure da adottare per eliminare o, ove possibile, ridurre il rischio individuato, essa sfocia peraltro in una compiuta formalizzazione, sicché una prassi operativa è per definizione priva di ogni premessa analitica e valutativa, come di una veste formale; nasce dalla mera ripetizione dell’attività, in assenza di eventi di disconferma ed in forza di una conferma non legata ad un rapporto costo/benefici che non considera necessariamente il valore prioritario della sicurezza e della salute dei lavoratori (Sentenza n. 27934 del 12.07.2012, ric. Casagrande)
Pertanto, in materia, pienamente condivisibile è il principio di diritto espresso dalla Corte milanese secondo cui le istruzioni verbali e le mere prassi operative non assumono quella forza cogente che deve essere, invece, attribuita alla “codificazione” delle norme attuative antinfortunistiche in un documento scritto all’uopo redatto, lasciando ragionevolmente negli addetti alle lavorazioni pur sempre, nella loro rappresentazione soggettiva, qui margini di discrezionalità nella esecuzione di esse (istruzioni meramente verbali e prassi), riconnessi alla caratteristiche (non codificate e prive di alcuna solennità) di tali diverse forme di attuazione delle norme prevenzionistiche; ritenute, in tal caso, variabili in quanto del tutto plausibilmente soggette a quegli adattamenti suggeriti dalle concrete contingenze, sulla base di condotte ricollegabili proprio alla carenza di norme scritte inderogabili contenute nel documento formale, tali da attribuire ad esse quelle caratteristiche di cogenza ed inderogabilità, proprie di tali forme di “codificazione normativa scritta”, delle modalità di lavorazione all’interno dell’azienda, conformi alle cautele antinfortunistiche, rispetto a disposizioni meramente verbali ed a prassi aziendali.
Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Cos’ deciso in Roma all’udienza del 5 maggio 2015.