Cassazione Penale, Sez. 4, 16 aprile 2018, n. 16713

La responsabilità dell’ente per i reati di omicidio colposo o lesioni colpose commesse da suoi organi apicali con violazione della normativa in materia di sicurezza o igiene del lavoro potrà essere esclusa soltanto dimostrando l’adozione ed efficace attuazione di modelli organizzativi (per i quali soccorre il disposto dell’art. 30 del d. lgs. n. 81/2008) e l’attribuzione ad un organismo autonomo del potere di vigilanza sul funzionamento, l’aggiornamento e l’osservanza dei modelli adottati. Senonché nel caso di specie non risulta che l’ente abbia provato la sussistenza delle circostanze che avrebbero potuto escluderne la responsabilità ai sensi dell’art. 6 d. lgs. n. 231/2001.


Presidente: ROMIS VINCENZO
Relatore: CIAMPI FRANCESCO MARIA
Data Udienza: 13/09/2017

Fatto

1. Con l’impugnata sentenza resa in data 26 aprile 2016 la Corte d’Appello di Salerno, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Salerno in data 29 ottobre 2013, appellata dagli imputati S.C. ed A.C., nonché dalla società LAREK S.r.l., concesse al solo S.C. le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alla aggravante contestata, rideterminava per entrambi gli imputati la pena e revocava la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Confermava integralmente la decisione di primo grado quanto alla LAREK S.rl.
La vicenda riguarda l’infortunio mortale occorso in data 12 settembre 2008 a T.S., dipendente della LAREK, precipitato da un’altezza di dodici metri, a seguito dello sfondamento di una lastra di vetro resina posta sul tetto di un capannone ove il predetto T.S. si era portato per effettuare la manutenzione delle grondaie. I giudici di merito individuavano plurime violazioni della normativa antinfortunistica e il nesso causale tra le stesse e l’incidente mortale e ritenevano la penale responsabilità del S.C., legale rappresentante della LAREK e dell’A.C. nella sua qualità di preposto. Ritenevano poi la responsabilità da reato della LAREK per la cd. “colpa dell’organizzazione” generica e specifica e grave negligenza nella gestione, condannando l’impresa al pagamento della sanzione pecuniaria di 258.230,00 euro.
La Corte territoriale confermava la penale responsabilità dell’A.C. non per la mancata predisposizione delle misure di sicurezza, bensì per aver omesso di vigilare sulla osservanza dei precetti imposti e sulla concreta attuazione delle misure di sicurezza nell’ambito delle proprie attribuzioni e competenze.
In particolare per aver dato disposizioni al T.S. di eseguire i lavori sistemazione delle grondaie, benché quest’ultimo non avesse mai ricevuto adeguata formazione, né fosse mai stato informato dei rischi specifici connessi allo svolgimento di lavori particolarmente pericolosi, come quelli che si effettuano in quota; con ciò violando l’obbligo che grava sul preposto, ex art. 19 lett. b) d.lgs 81/2008, di “verificare affinchè soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni accedano alle zona che li espongono ad un rischio grave e specifico”.
Altresì, l’A.C. è stato ritenuto responsabile per non aver verificato che i pannelli in vetroresina non erano assolutamente calpestabili. L’art. 148 del d.lgs innanzi citato, prevede, infatti, che prima di procedere alla esecuzione di lavori su lucernari, tetti, coperture e simili, deve essere accertato che questi abbiano resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai e dei materiali di impiego.
Nel caso di dubbia resistenza, devono essere adottati i necessari apprestamenti atti a garantire l’incolumità delle persone addette disponendo, a seconda dei casi, tavole sopra le orditure, sottopalchi e facendo uso di idonei dispositivi di protezione individuale anticaduta. Mancando la verifica del grado di resistenza dei pannelli, l’A.C. prima di accompagnare la squadra sul tetto del capannone, avrebbe quanto meno dovuto assicurare i dispositivi di protezione. Alcun dispositivo di protezione, invece, era stato assicurato; non erano state apposte tavole, né sottopalchi e non era stato controllato l’utilizzo corretto delle misure di protezione individuali anticaduta che avrebbero dovuto essere mantenute per tutta la durata della permanenza sul tetto e fino alla discesa. Il T.S., infatti, al pari degli altri componenti della squadra, tra cui lo stesso A.C., terminato il lavoro si liberava delle cinture di sicurezza, dei caschi e delle funi, prima di riprendere il cammino sul tetto per raggiungere il punto di discesa. Ha, altresì, omesso di vigilare sull’osservanza delle prescrizioni idonee a prevenire il pericolo di caduta dall’alto per i lavori in quota, dal momento che, in ogni caso, non era stata seguita la procedura corretta per l’utilizzo delle cinture; sul capannone non era stesa la rete salvavita, ovvero una corda d’acciaio, misura di protezione collettiva che va obbligatoriamente predisposta prima di procedere a lavori su tetti e lucernari ed il dispositivo di protezione individuale anticaduta, per il mancato uso dell’imbracatura munita di gancio da fissare al cavo d’acciaio, era, in ogni caso del tutto inidoneo a garantire l’incolumità delle persone addette ai lavori sul tetto del capannone.
Quanto al S.C. la sentenza impugnata ne evidenziava il ruolo di legale rappresentante della LAREK e la palese violazione delle norme antinfortunistiche contestate.
Quanto infine ala società riteneva priva di fondamento la tesi della mancanza del nesso causale tra il comportamento omissivo del datore di lavoro e l’intervenuto infortunio a causa del comportamento abnorme dello stesso lavoratore e considerava sussistente la colpa dell’organizzazione di impresa, con particolare riferimento alla mancata nomina del RSPP, alla omessa valutazione del rischio ed alla mancata formazione del lavoratore Avverso tale decisione ricorrono :
A.C. lamentando con un unico motivo mancanza ed illogicità di motivazione quanto alla ritenuta posizione di garanzia;
S.C. deducendo violazione e falsa applicazione della legge penale nonché vizio di motivazione quanto all’affermazione di penale responsabilità, essendosi il fatto verificato per esclusiva iniziativa dell’A.C. che rivestiva i caratteri della eccezionalità e dell’imprevedibilità.
La LAREK S.r.l. deducendo che l’incidente mortale non era dipeso da responsabilità del legale rappresentante non essendo stata affidata ad
essa società la manutenzione del tetto del capannone; che non vi era quindi stata alcuna “colpa di organizzazione”; che era inesistente l’interesse previsto dall’art. 25 septies del decreto legislativo n. 231 del 2001 necessario ad addebitare la responsabilità da reato all’ente.

Diritto

La disamina dei proposti motivi impone una triplice comune premessa: in punto di posizione di garanzia del datore di lavoro; in punto di nesso di causalità tra il sinistro e le contestate infrazioni della disciplina antinfortunistica; nonché in punto di idoneità delle eventuali condotte negligenti riferibili al dipendente infortunato (o comunque, come nel caso di specie, ad altro dipendente) ad interrompere, ai sensi dell’art. 41, comma 2, c.p., il nesso di causalità sussistente tra l’omissione colposa di un garante e l’evento mortale (o, più semplicemente lesivo) che ne è derivato.
Sotto il primo profilo, secondo il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte (cfr. Sez. 4, n. 4361 del 21/10/2014, 2015, Ottino, Rv. 263200; sent n. 20595 del 12/04/2005, Castellani ed altro, Rv. 231370), le norme sulla prevenzione degli infortuni hanno la funzione primaria di evitare che si verifichino eventi lesivi della incolumità fisica, intrinsecamente connaturati all’esercizio dell’ attività lavorativa, anche nelle ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuale disaccortezza, imprudenza e disattenzione da parte del lavoratore subordinato. Tale conclusione è fondata sulla disposizione generale di cui all’art. 2087 c.c. e di quelle specifiche previste dalla normativa antinfortunistica, secondo le quali, il datore di lavoro o comunque la persona dallo stesso delegata, è costituito garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l’ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l’evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo reattivo previsto dall’art. 40 c.p., comma 2.
Ne consegue che il titolare della posizione di garanzia ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici e del fatto che il lavoratore possa prestare la propria opera in condizioni di sicurezza, vigilando altresì a che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l’opera, essendo tale posizione di garanzia estesa anche al controllo della correttezza dell’agire del lavoratore, essendo imposto al “garante” (anche) di esigere dal lavoratore il rispetto delle regole di cautela. Quanto al profilo causale, è indubbio che l’applicazione del principio di colpevolezza esclude qualsivoglia automatismo rispetto all’addebito di responsabilità e si impone la verifica, in concreto, della violazione da parte dell’imputato non solo della regola cautelare (generica o specifica), ma, soprattutto nel caso di specie, della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso, che la regola cautelare mirava a prevenire (la cd. “concretizzazione” del rischio). L’individualizzazione della responsabilità penale impone di verificare, cioè, non soltanto se la condotta abbia concorso a determinare l’evento (ciò che si risolve nell’accertamento della sussistenza del nesso causale) e se la condotta sia stata caratterizzata dalla violazione di una regola cautelare sia essa generica o specifica, ma anche se l’autore della stessa potesse prevedere, con giudizio “ex ante” quello specifico sviluppo causale ed attivarsi per evitarlo. In tale ambito ricostruttivo, la violazione della regola cautelare e la sussistenza del nesso di condizionamento tra la condotta e l’evento non sono sufficienti per fondare l’affermazione di responsabilità, giacché occorre anche chiedersi, necessariamente, se l’evento derivatone rappresenti o no la “concretizzazione” del rischio, che la regola stessa mirava a prevenire; e se l’evento dannoso fosse o meno prevedibile, da parte dell’imputato (Sez. 4, n.43966 del 06/11/2009, Morelli, Rv. 245526). Come è noto, infatti, la prevedibilità ed evitabilità del fatto svolgono un articolato ruolo fondante: sono all’origine delle norme cautelari e sono inoltre alla base del giudizio di rimprovero personale. In particolare, per quel che qui maggiormente interessa, l’art. 43 c.p. reca una formula ricca di significato: il delitto è colposo quando l’evento non è voluto e “si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia…”. Viene così chiaramente in luce, e con forza, il profilo causale della colpa, che si estrinseca in diverse direzioni. Il pensiero giuridico italiano ha da sempre sottolineato che la responsabilità colposa non si estende a tutti gli eventi che comunque siano derivati dalla violazione della norma, ma è limitata ai risultati che la norma stessa mira a prevenire. Tale esigenza conferma l’importante ruolo della prevedibilità e prevenibilità nell’individuazione delle norme cautelari alla cui stregua va compiuto il giudizio ai fini della configurazione del profilo oggettivo della colpa. Si tratta di identificare una norma specifica, avente natura cautelare, posta a presidio della verificazione di un altrettanto specifico evento, sulla base delle conoscenze che all’epoca della creazione della regola consentivano di porre la relazione causale tra condotte e risultati temuti; e di identificare misure atte a scongiurare o attenuare il rischio. L’accadimento verificatosi deve cioè essere proprio tra quelli che la norma di condotta tendeva ad evitare, deve costituire “la concretizzazione del rischio”. Quanto infine alla rilevanza della eventuali condotte negligenti riferibili al dipendente infortunato o ad altro dipendente dell’impresa, occorre osservare che, in tema di cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’offesa, la giurisprudenza di legittimità ritiene che possano considerarsi tali quelle che diano luogo a una serie causale, sebbene non del tutto autonoma rispetto a quella riferibile all’agente, che si atteggi in termini di assoluta anomalia, eccezionalità e imprevedibilità (Sez. 4, sent. n. 13939 del 30/01/2008, Bauwens, Rv. 239593). In particolare, è stato chiarito (Sez. 4, sent. n. 7267 del 10/11/2009, 2010, Iglina, Rv. 246695) che la condotta colposa del lavoratore non esclude la responsabilità dell’imprenditore, poiché il datore di lavoro è destinatario delle norme antinfortunistiche proprio per evitare che il dipendente compia scelte irrazionali che, se effettuate, possano pregiudicarne l’integrità psico-fisica: l’imprenditore è esonerato da responsabilità soltanto nel caso in cui il comportamento del dipendente sia eccezionale, imprevedibile, tale da non essere preventivamente immaginabile (e non anche nel caso in cui l’irrazionalità della condotta del dipendente sia controllabile, pensabile in anticipo, risolvendosi nel fare proprio il contrario di quello che si dovrebbe fare per non incorrere in infortuni). Con particolare riferimento alla sicurezza sul luogo di lavoro, la giurisprudenza di legittimità ritiene che presenti efficacia interruttiva del rapporto causale esistente tra la condotta antidoverosa del datore di lavoro e l’offesa soltanto il comportamento abnorme del lavoratore che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei 10 soggetti preposti all’applicazione delle misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro (Sez. 4, sent. N. n. 14440 del 05/03/2009, Ferraro, Rv. 243881).
Il che certamente deve escludersi nel caso di specie in quanto l’infortunio del T.S. si è verificato mentre questi – unitamente all’A.C.- era intento in un’attività sicuramente non eccentrica rispetto alle mansioni svolte ed all’oggetto dell’intervento da parte della società datrice di lavoro. Sul punto i giudici di merito hanno in particolare opportunamente sottolineato come le condotte dell’A.C. e del T.S., “non hanno introdotto un rischio nuovo esorbitante rispetto al rischio di impedire cadute per coloro che operino in altezza e che grava sul titolare della posizione di garanzia” e come fosse proprio il rischio di caduta governato in modo assolutamente non appropriato per le carenti dotazioni di sicurezza personali e collettive. Inoltre per contrastare la tesi adombrata dagli imputati ed in particolare dal S.C., secondo cui la LAREK non era tenuta ad adottare alcuna misura di sicurezza sul tetto, trattandosi di attività non inerente l’oggetto sociale, hanno posto in rilievo come le fatture (emesse da altre società) esibite dalla difesa fossero relative a lavori eseguiti in periodi diversi da quello in cui si era verificato l’infortunio e come, in ogni caso, al momento del verificarsi dell’incidente, la squadra fosse composta tutta da dipendenti della LAEK.
4. Con specifico riferimento alle posizioni di garanzia, i ricorrenti reiterano le censure già proposte in sede di appello e a cui la Corte territoriale ha dato adeguata risposta. In particolare la gravata sentenza, quanto all’A.C. (il cui ricorso appare peraltro assolutamente aspecifico non confrontandosi adeguatamente con la congrua e coerente motivazione della sentenza impugnata), ha evidenziato il ruolo di preposto di fatto svolto dall’imputato e come l’attività svolta dalla squadra, composta dal T.S., da altro dipendente della LAREK, Q.P. e dallo stesso A.C. fosse impegnata ad eseguire, “su espresso e giammai contestato ordine di quest’ultimo sul tetto del capannone dello stabilimento, cui si accedeva dal solaio della sala compressori, lavori di manutenzione delle grondaie”. In definitiva la responsabilità dell’A.C. è stata confermata non per la mancata predisposizione delle misure di sicurezza, bensì, da un lato, per aver omesso di vigilare sull’osservanza dei precetti imposti e sulla concreta attuazione delle misure di sicurezza, nell’ambito delle proprie attribuzioni e competenze, dall’altro, per aver dato disposizioni al T.S. di eseguire i lavori di manutenzione delle grondaie, benché quest’ultimo non avesse mai ricevuto adeguata formazione, né fosse mai stato informato dei rischi specifici connessi allo svolgimento di lavori particolarmente pericolosi, come quelli che si effettuano in quota.
Con riferimento invece al S.C. la Corte di merito ha sottolineato con motivazione che peraltro non è oggetto di specifica censura, come dall’incontestato ruolo di legale rappresentante della LAREK, derivasse la responsabilità del decesso del T.S. “per la palese violazione delle norme antinfortunistiche al medesimo contestate e che si pongono in evidente rapporto di causalità con l’incidente..” In particolare ha precisato come al S.C. fosse imputabile l’omessa previsione nella redazione del documento di valutazione dei rischi, di quello connesso alla manutenzione dei capannoni ed allo svolgimento di lavorazioni in quota, nonché la mancata nomina del RSPP.
E’ stato altresì precisato come non fosse emersa nel corso dell’istruttoria alcuna delega di funzioni e che l’attribuzione all’A.C. del ” controllo della produzione e del mantenimento in efficienza degli impianti produttivi dello stabilimento di Brignano”, fosse prova ulteriore del ruolo apicale del S.C. nell’organizzazione aziendale e societaria, non contenendo peraltro in sé alcuna delega (la delega richiede un atto formale). Detto incarico se da un lato ha comportato per l’A.C. anche l’assunzione di compiti (quale preposto) previsti dalla normativa a tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, dall’altro non ha esonerato il datore di lavoro. In definitiva, il conferimento di incarico all’A.C. che, di fatto, va inquadrato tra le figure aziendali che collaborano con il datore di lavoro, non ha mai attuato, in assenza di delega specifica, il trasferimento di compiti spettanti al datore di lavoro.
5. Quanto al ricorso della LAREK, previo richiamo di tutte le osservazioni sopra formulate con riferimento alla posizione del legale rappresentante della società si osserva quanto segue: la stessa società ricorrente richiama le norme sulla responsabilità degli enti, introdotte dal decreto legislativo n. 231 del 2001 ed in particolare l’art. 5 che, al comma 1, per l’imputazione della responsabilità, che nel caso di specie concerne un reato colposo di evento, individua i criteri di imputazione oggettiva dell’ente nel fatto che i reati presupposti siano commessi nell’interesse o vantaggio, anche non esclusivo, dell’ente e da persone che rivestano funzioni di rappresentanza, amministrazione, direzione o gestione (anche di fatto) oppure da dipendenti sottoposti alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti prima indicati. L’ente non risponde se le persone predette abbiano agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi. Secondo l’impostazione della ricorrente l’interesse sarebbe elemento sufficiente e necessario per affermare la responsabilità dell’ente, mentre il vantaggio non solo non sarebbe necessario, ma non sarebbe nemmeno sufficiente.
Il citato art. 5 pone il problema della compatibilità tra fattispecie di reato caratterizzate dalla non volontarietà dell’evento (i delitti colposi di evento) e il finalismo della condotta da cui scaturisce la responsabilità dell’ente, nel cui interesse o vantaggio quei reati devono essere stati commessi. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, Rv 261112-261113-26114-26115 – dopo aver rilevato che l’introduzione della responsabilità dell’ente con la legge n. 231 ha costituito una grande innovazione nella sfera del diritto punitivo ed ha alimentato una letteratura ormai vastissima; e che non meno rilevante e significativo appare lo sforzo giurisprudenziale volto a concretizzare l’applicazione della nuova normativa – si è soffermata sulla natura del nuovo sistema sanzionatorio e sui profili di legittimità costituzionale dello stesso per poi affermare: -quanto al criterio di imputazione oggettiva (punto 63), che: «L’art. 5 del d.lgs. n. 231 del 2001 detta la regola d’imputazione oggettiva dei reati all’ente: si richiede che essi siano commessi nel suo interesse o vantaggio. (…) Secondo l’impostazione prevalente, ispirata anche dalla Relazione governativa al decreto legislativo, i due criteri d’imputazione dell’Interesse e del vantaggio si pongono in rapporto di alternatività, come confermato dalla congiunzione disgiuntiva “o” presente nel testo della disposizione. Si ritiene che il criterio dell’interesse esprima una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, al momento della commissione del fatto, e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; e che il criterio del vantaggio abbia una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito. (…) La tesi dualistica trova accoglimento anche in giurisprudenza (Sez. 2, n. 3615 del 20/12/2005, D’Azzo, Rv. 232957 . 17 Sez. 5, n. 10265 del 28/11/2013, dep. 2014, Banca Italease s.p.a., Rv. 258577; Sez. 6, n. 24559 del 22/05/2013, House Building s.p.a., Rv. 255442)»; – quanto al fatto che l’art. 25-septies ha segnato l’ingresso dei delitti colposi nel catalogo dei reati costituenti presupposto della responsabilità degli enti, senza tuttavia modificare il criterio d’imputazione oggettiva, per adattarlo alla diversa struttura di tale categoria di illeciti, che è «insorto il problema della compatibilità logica tra la non volontà dell’evento che caratterizza gli illeciti colposi ed il finalismo che è sotteso all’idea di interesse. D’altra parte, nei reati colposi di evento sembra ben difficilmente ipotizzabile un caso in cui l’evento lesivo corrisponda ad un interesse o vantaggio dell’ente. Tale singolare situazione ha indotto qualcuno a ritenere che, in mancanza di un esplicito adeguamento normativo, la nuova, estensiva disciplina sia inapplicabile. (…) Tali dubbi e le estreme conseguenze che se ne desumono sono infondati. Essi condurrebbero alla radicale caducazione di un’innovazione normativa di grande rilievo, successivamente confermata dal dlgs. 7 luglio 2011, n. 121, col quale è stato introdotto nella disciplina legale l’art. 25-undecies che ha esteso la responsabilità dell’ente a diversi reati ambientali. Il problema prospettato deve essere allora risolto nella sede propria, che è quella interpretativa. I risultati assurdi, incompatibili con la volontà di un legislatore razionale, cui condurrebbe l’interpretazione letterale della norma accredita senza difficoltà l’unica alternativa, possibile lettura: i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d’evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico. Tale soluzione non determina alcuna difficoltà di carattere logico: è ben possibile che una condotta caratterizzata dalla violazione della disciplina cautelare e quindi colposa sia posta in essere nell’interesse dell’ente o determini comunque il conseguimento di un vantaggio. (…) L’adeguamento riguarda solo l’oggetto della valutazione che, coglie non più l’evento bensì solo la condotta, in conformità alla diversa conformazione dell’illecito; e senza, quindi, alcun vulnus ai principi costituzionali dell’ordinamento penale. Tale soluzione non presenta incongruenze: è ben possibile che l’agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l’evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell’ente. A maggior ragione vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per l’ente». Successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite, questa Sezione (cfr. sent. n. 31003 del 23/06/2015, Cioffi e Italnastri spa) ha riaffermato il principio in detta sentenza affermato (secondo il quale, in materia di responsabilità amministrativa D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 25-septies, l’interesse e/o il vantaggio vanno letti, nella prospettiva patrimoniale dell’ente, come risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dello strumentario 18 di sicurezza ovvero come incremento economico conseguente all’aumento della produttività non ostacolata dal pedissequo rispetto della normativa prevenzionale), precisando che nei reati colposi l’interesse/vantaggio si ricollegano al risparmio nelle spese che l’ente dovrebbe sostenere per l’adozione delle misure precauzionali ovvero nell’agevolazione sub specie, dell’aumento di produttività che ne può derivare sempre per l’ente dallo sveltimento dell’attività lavorativa “favorita” dalla mancata osservanza della normativa cautelare, il cui rispetto, invece, tale attività avrebbe “rallentato” quantomeno nei tempi. Sviluppando questo ordine di considerazioni, occorre qui ribadire che i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d’evento, vanno riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico. E’ questa l’unica interpretazione che non svuota di contenuto la previsione normativa e che risponde alla ratio dell’inserimento dei delitti di omicidio colposo e lesioni colpose nell’elenco dei reati fondanti la responsabilità dell’ente, in ottemperanza ai principi contenuti nella legge delega: indubbiamente, non rispondono all’interesse della società, o non procurano alla stessa un vantaggio, la morte o le lesioni riportate da un suo dipendente in conseguenza di violazioni di normative antinfortunistiche, mentre è indubbio che un vantaggio per l’ente possa essere ravvisato, ad esempio, nel risparmio di costi o di tempo che lo stesso avrebbe dovuto sostenere per adeguarsi alla normativa prevenzionistica, la cui violazione ha determinato l’infortunio sul lavoro. I termini “interesse” e “vantaggio” esprimono concetti giuridicamente diversi e possono essere alternativi: ciò emerge dall’uso della congiunzione “o” da parte del legislatore nella formulazione della norma in questione e, da un punto di vista sistematico, dalla norma di cui all’art. 12, che al comma 1 lett. a) prevede una riduzione della sanzione pecuniaria nel caso in cui l’autore ha commesso il reato nell’interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo, il che implica astrattamente che il reato può essere commesso nell’interesse dell’ente, ma non procurargli in concreto alcun vantaggio. Ne consegue che (sul punto cfr. Sez. 2, sent. n. 3615 del 20/12/2005, dep. 2006, Rv. 232957) il concetto di “interesse” attiene ad una valutazione antecedente alla commissione del reato presupposto, mentre il concetto di “vantaggio” implica l’effettivo conseguimento dello stesso a seguito della consumazione del reato (e, dunque, una valutazione ex post). Nei reati colposi d’evento, il finalismo della condotta prevista dall’art. 5 d. lgvo n. 231/2001 è compatibile con la non volontarietà dell’evento lesivo, sempre che si accerti che la condotta che ha cagionato quest’ultimo sia stata determinata da scelte rispondenti all’interesse dell’ente o sia stata finalizzata all’ottenimento di un vantaggio per l’ente medesimo. Ricorre il requisito dell’interesse quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di conseguire un’utilità per la persona giuridica; ciò accade, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito (non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma) di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa: pur non volendo il verificarsi dell’infortunio a danno del lavoratore, l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell’ente (ad esempio far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione). Ricorre il requisito del vantaggio quando la persona fisica, agendo per conto dell’ente, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, ha realizzato una politica d’impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto; il criterio del vantaggio, così inteso, appare indubbiamente quello più idoneo a fungere da collegamento tra l’ente e l’illecito commesso dai suoi organi apicali ovvero dai dipendenti sottoposti alla direzione o vigilanza dei primi. Occorre, perciò, accertare in concreto le modalità del fatto e verificare se la violazione della normativa in materia di sicurezza o igiene del lavoro, che ha determinato l’infortunio, rispondesse ex ante ad un interesse della società o abbia consentito alla stessa di conseguire un vantaggio. Tale accertamento, nel caso di specie, risulta essere stato compiuto dai giudici di entrambi i gradi di merito che hanno ritenuto il vantaggio economico indiretto, costituito dal risparmio dei costi non sostenuti, che la società ha tratto dalla mancata adozione delle misure di sicurezza richieste dalla legge per la prevenzione di infortuni sul lavoro (mancata nomina del RSSP, omessa valutazione del rischio specifico, messa in sicurezza del luogo di lavoro, mancata formazione professionale dei lavoratori addetti ecc.). Quanto poi al profilo dell’imputazione soggettiva, occorre ribadire che il S.C. rivestiva al momento del fatto all’Interno della società un ruolo del tutto apicale, rientrante tra quelli previsti dall’art. 5 comma 1 lett. a) d. lgvo n. 231/2001. Nel caso di specie, dunque, a norma dell’art. 6, l’ente, per andare esente da responsabilità, avrebbe dovuto provare che: a) erano stati adottati ed efficacemente attuati, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento era stato affidato ad un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo; c) non vi era stata omessa insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di cui alla lettera b. In altri termini, la responsabilità dell’ente per i reati di omicidio colposo o lesioni colpose commesse da suoi organi apicali con violazione della normativa in materia di sicurezza o igiene del lavoro potrà essere esclusa soltanto dimostrando l’adozione ed efficace attuazione di modelli organizzativi (per i quali soccorre il disposto dell’art. 30 del d. lgs. n. 81/2008) e l’attribuzione ad un organismo autonomo del potere di vigilanza sul funzionamento, l’aggiornamento e l’osservanza dei modelli adottati. Senonché nel caso di specie non risulta che l’ente abbia provato la sussistenza delle circostanze che avrebbero potuto escluderne la responsabilità ai sensi dell’art. 6 d. lgs. n. 231/2001.
6. I ricorsi vanno pertanto rigettati. Ne consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione in favore delle costituite parte civili delle spese sostenute per questo giudizio liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali; li condanna inoltre, in solido, a rimborsare alle parti civili Omissis, le spese sostenute per questo giudizio che si liquidano in complessivi € 4.000,00, oltre accessori come per legge.
Così deciso nella camera di consiglio del 13 settembre 2017

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