Cassazione Penale, Sez. 4, 17 marzo 2016, n. 11388

Mentre è pacifico che la normativa antinfortunistica si applica non solo ai lavoratori subordinati, ma anche ai soggetti ad essi normativamente equiparati, tra i quali rientrano i soci anche di fatto che prestino la loro attività per conto della società; e si applica altresì per garantire la sicurezza anche delle persone estranee che possano trovarsi occasionalmente nei luoghi di lavoro e, potenzialmente, nella situazione di pericolo (Sezione III, 3 marzo 2009, n. 17218, Girotti ed altro; Sezione IV, 1 luglio 2009, n. 37840, Vecchi).
Proprio dal fatto che le disposizioni prevenzionali sono da considerare emanate nell’interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell’impresa, consegue che, in caso di lesioni e di omicidio colposi, perché possa ravvisarsi l’ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è necessario e sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l’evento dannoso un legame causale, il quale ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse secondo i principi dettati dagli articoli 40 e 41 c.p.


Presidente: BLAIOTTA ROCCO MARCO
Relatore: PICCIALLI PATRIZIA
Data Udienza: 23/02/2016

Fatto

Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Brescia confermava quella di primo grado con la quale G.C., nella qualità di datore di lavoro di fatto, è stato ritenuto responsabile del reato di omicidio colposo aggravata dalla violazione della normativa antinfortunistica in danno del lavoratore X.A., che durante i lavori di rifacimento della copertura di un tetto di un fabbricato, precipitava per circa 3,5 metri, riportando gravi lesioni a seguito delle quali decedeva il 27.11.2007.
Al G.C., nella qualità sopra indicata, è stato addebitata la violazione dell’art. 70 dpr 164/56 ( ora art. 149 TU 81/2008) perché non ottemperava al dovere di accertare, prima di procedere all’esecuzione di lavori su tetti e coperture, che questi avessero resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai e di adottare i necessari dispositivi atti a garantire l’incolumità dei lavoratori.
Propone ricorso il G.C. articolando un unico motivo con il quale reitera la censura già esaminata in appello riguardante la qualifica di datore di lavoro “di fatto” della vittima attribuitagli dai giudici di merito.
Si sostiene l’illogicità della sentenza impugnata sottolineando l’assenza di qualsiasi documento scritto relativo ai lavori svolti nell’interesse del committente e la carenza di ogni prova del fatto che per quello specifico lavoro lo X.A. fosse stato incaricato dal G.C.. Lamenta che la Corte di merito abbia illogicamente attribuito decisiva rilevanza al tabulati telefonici delle conversazioni intercorse tra il committente ed il G.C. senza conoscere il contenuto della conversazione e senza prendere in considerazione la possibilità che altri avessero potuto usare il telefono dell’imputato.
Lamenta, infine, l’illogicità della sentenza anche nella parte in cui aveva valorizzato singole circostanze dal contenuto equivoco (l’assenza di una organizzazione aziendale, la mancanza di beni strumentali …ed altre ivi elencate), quali indici sistematici di un rapporto di lavoro duraturo nel tempo caratterizzato dalla dipendenza dello X.A. all’interno dell’organizzazione aziendale del G.C..

Diritto

Va anzitutto premesso che il ricorrente non contesta la ricostruzione della dinamica dell’infortunio, a seguito del quale il lavoratore perse la vita, e, pertanto, deve ritenersi acciarato che X.A., privo di cintura di sicurezza, durante i lavori di rifacimento del tetto di un fabbricato, a seguito del cedimento dell’ orditura in legno della copertura, precipitava per circa 3,5 metri all’interno della costruzione fino a sbattere violentemente con il capo sul solaio sottostante.
Il ricorrente contesta, invece, sotto vari profili, anche fattuali, l’esistenza di un rapporto di lavoro di natura subordinata con la persona offesa e l’affermazione del conseguente obbligo, da parte sua, di porre in atto tutte le misure di protezione idonee ad evitare il verificarsi di eventi del tipo di quello in concreto avvenuto.
Si tratta di censura infondata a fronte di sentenza corretta e satisfattivamente motivata.
Non corrisponde al vero, infatti, che la Corte di merito si sia sottratta al compito di fornire la dimostrazione della natura subordinata del rapporto con la persona offesa e del fatto che il giorno dell’Infortunio lo X.A. stesse eseguendo i lavori per conto dell’imputato.
Anche nel giudizio di appello si è discusso ampiamente della natura del rapporto ed è stata affrontata analiticamente la tesi della qualifica di lavoratore autonomo della vittima sostenuta fin dall’inizio dell’imputato, il quale ha cercato di fornite interpretazioni alternative agli elementi indiziari utilizzati dalla Corte di merito per arrivare alla logica e motivata conclusione dell’esistenza di un rapporto di lavoro duraturo nel tempo, caratterizzato dalla dipendenza dello X.A. all’interno della organizzazione aziendale del G.C..
Il giudice di appello, in conformità a quello di primo grado, pur dando atto che lo X.A. risultava iscritto alla CCIAA come artigiano edile, ha richiamato una serie di circostanze (l’assenza di una organizzazione aziendale, la mancanza di beni strumentali, la mancanza di spese per la gestione minima dell’attività, la continuità del rapporto tra il lavoratore e l’impresa G.C., attestata da varie fatture, l’esclusività del rapporto stesso, la dazione della somma di euro 1.200 ai prossimi congiunti, quale retribuzione per il mese di novembre), sulle quali ha fondato la logica affermazione che lo stesso in realtà lavorava come dipendente dell’impresa di G.C. ( elemento fattuale che, contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata, è tuttora oggetto di contestazione da parte della difesa).
In sostanza lo X.A., pur avendo una ditta artigiana a lui intestata, lavorava alle dipendenze del G.C. perché era privo di autonomia, riceveva ordini dall’imputato di cui utilizzava le attrezzature, il mezzo di trasporto e il materiale.
Il ricorrente ripropone anche in questa sede una interpretazione alternativa di tali elementi, attraverso una ricostruzione del rapporto in termini fattuali, preclusa alla cognizione del giudice di legittimità, risolvendosi in una censura sulla valutazione delle emergenze fattuali della vicenda come ricostruite dal giudice di merito, pur in presenza di una motivazione logicamente argomentata.
Analoghe considerazioni valgono in merito alla doglianza concernente più specificamente la ricostruzione fattuale dell’episodio nel corso del quale il lavoratore precipitava dal tetto, laddove si sostiene l’illogicità della sentenza che aveva fatto ricadere sul G.C., nella qualità di datore di lavoro di fatto, la responsabilità per la violazione della normativa diretta ad impedire cadute da parte di chi operi in altezza.
Sul punto sono stati indicati ulteriori elementi significativi della subordinazione, in fatto, del rapporto e della sussistenza di un contratto di appalto, sia pure in forma orale, tra il G.C. ed il committente i lavori, rispetto al quale lo X.A. svolgeva la prestazione di lavoratore subordinato, alle dipendenze dell’imputato.
In tal senso sono stati puntualmente valorizzati dai giudici di merito i seguenti elementi probatori: numerosi contatti telefonici tra il committente ed il geometra, che aveva un rapporto di stretta collaborazione con il G.C., qualche contatto tra le utenze intestate a quest’ultimo ed il committente, nessun contatto tra l’utenza dello X.A. e quelle del geometra e del committente, l’utilizzo del pulmino e delle attrezzature della impresa G.C. per l’esecuzione dei lavori.
Tale ricostruzione non risulta validamente posta in dubbio dalle censure del ricorrente.
Né è condivisibile la doglianza afferente la valorizzazione dei dati emergenti dai tabulati telefonici.
Nel contesto fattuale sopra delineato, infatti, i contatti telefonici sui quali si sono soffermati i giudici di merito ben possono costituire elemento di riscontro della circostanza che i lavori furono commissionati al G.C., che per la loro esecuzione si avvalse dello X.A., il quale, anche il giorno dell’infortunio, non lavorava in proprio.
Trattasi di valutazione incensurabile nel giudizio di legittimità perché adeguatamente motivata sull’esistenza del contestato rapporto di lavoro subordinato ed esente da alcuna illogicità.
Va evidenziato, infine, al fine di corrispondere alle doglianze difensive, che la mancanza di un formale rapporto di lavoro tra la vittima e l’imputato non può certo escludere la responsabilità dell’imputato poiché la normativa antinfortunistica tutela la sicurezza di tutte le forme di lavoro, anche quando non sussista un formale
rapporto di lavoro e quindi anche con riguardo a chi collabora saltuariamente ( v. in termini, Sezione IV, 1 aprile 2010, Montrasio, rv. 247093)
In punto di condotta colposa va infatti ricordato che, proprio in tema di violazione di normativa antinfortunistica, per “ambiente di lavoro” deve intendersi tutto il luogo o lo spazio in cui l’attività lavorativa si sviluppa ed in cui, indipendentemente dall’attualità dell’attività, coloro che siano autorizzati ad accedere nel cantiere e coloro che vi accedano per ragioni connesse all’attività lavorativa, possono recarsi o sostare anche in momenti di pausa, riposo o sospensione del lavoro (Sezione IV, 19 febbraio 2015, n. 18073, Bartoloni ed altri).
Mentre è del resto parimenti pacifico che la normativa antinfortunistica si applica non solo ai lavoratori subordinati, ma anche ai soggetti ad essi normativamente equiparati, tra i quali rientrano i soci anche di fatto che prestino la loro attività per conto della società; e si applica altresì per garantire la sicurezza anche delle persone estranee che possano trovarsi occasionalmente nei luoghi di lavoro e, potenzialmente, nella situazione di pericolo (Sezione III, 3 marzo 2009, n. 17218, Girotti ed altro; Sezione IV, 1 luglio 2009, n. 37840, Vecchi).
Proprio dal fatto che le disposizioni prevenzionali sono da considerare emanate nell’interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell’impresa, consegue che, in caso di lesioni e di omicidio colposi, perché possa ravvisarsi l’ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è necessario e sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l’evento dannoso un legame causale, il quale ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse secondo i principi dettati dagli articoli 40 e 41 c.p.: in tale evenienza, quindi, dovrà ravvisarsi l’aggravante di cui agli articoli 589, comma 2, e 590, comma 3, c.p., nonché il requisito della perseguibilità d’ufficio delle lesioni gravi e gravissime, ex articolo 590, ultimo comma, c.p., anche nel caso di soggetto passivo estraneo all’attività ed all’ambiente di lavoro, purché la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento dell’Infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l’evento e la condotta inosservante e purché, ovviamente, la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi (v. Sezione IV, 6 novembre 2009, n.43966, Morelli).
Per le ragioni che precedono il ricorso va rigettato.
Al rigetto del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, oltre alla rifusione delle spese sostenute in questo giudizio dalle parti civili costituite, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, oltre alla rifusione delle spese processuali in favore delle parti civili costituite, liquidate in 4.000,00 euro.
Così deciso in data 23 febbraio 2016

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